LAURELL K. HAMILTON LUNA NERA (Lunatic Cafe, 1996) A Trinity Dianne Hamilton, che ha il più bel sorriso del mondo, anche...
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LAURELL K. HAMILTON LUNA NERA (Lunatic Cafe, 1996) A Trinity Dianne Hamilton, che ha il più bel sorriso del mondo, anche alle tre del mattino. 1 Mancavano due settimane a Natale, un periodo in cui si resuscitano pochi morti. Il mio ultimo cliente della notte sedeva di fronte a me. Non c'era nessuna nota che lo riguardasse, nessun appunto che specificasse se si trattava di zombie o vampiri. Niente. Probabilmente ciò significava che, qualunque cosa volesse da me, io non avrei voluto, o non avrei potuto, farla. Ma quei giorni erano proprio un mortorio, quindi il mio capo, Bert, accettava qualsiasi lavoro. George Smitz era alto, molto più di un metro e ottanta. Aveva le spalle larghe ed era muscoloso. Non aveva però quei muscoli che si ottengono sollevando pesi in palestra, ma quelli che si sviluppano coi lavori manuali più faticosi. Sarei stata pronta a scommettere che era un muratore, un contadino o qualcosa del genere. Era largo e quadrato, con le unghie annerite da quel genere di sporco che il sapone non riesce a eliminare. Sedeva di fronte a me, stropicciando il suo zuccotto con le grosse mani, come se stesse impastando. Il caffè che aveva accettato si stava raffreddando sul bordo della mia scrivania. Non lo aveva neanche sorseggiato. Io invece stavo bevendo il mio da una tazza natalizia. Bert aveva insistito perché ognuno di noi si procurasse una tazza personalizzata, adatta alle festività, in modo da aggiungere un tocco d'intimità all'ufficio. Sulla mia tazza c'era una renna in accappatoio e ciabatte, con le corna adorne di un'illuminazione natalizia, che brindava alle feste con un bicchiere di champagne, esclamando: «Bingle Jells!» Per la verità, a Bert la mia tazza non piaceva per niente, però lasciava correre, probabilmente perché aveva paura che altrimenti avrei scovato qualcosa di peggio. Gli abiti che indossavo per la serata, invece, gli erano piaciuti molto. La camicetta accollata era così rossa che avevo dovuto truccarmi per non sembrare troppo pallida, mentre la giacca e la gonna erano di un cupo verde foresta. Comunque, non mi ero vestita così per far colpo
su Bert, ma perché avevo un appuntamento. La sagoma di un angelo d'argento scintillava sul risvolto della mia giacca. Avevo proprio un aspetto molto natalizio. La Browning Hi-Power calibro 9, invece, non era per niente natalizia, ma non aveva molta importanza, visto che era nascosta sotto la giacca. In un'altra occasione, forse, Mr. Smitz ne sarebbe rimasto turbato, ma sembrava che avesse già abbastanza guai per preoccuparsene, almeno finché non minacciavo di sparargli. «E adesso mi dica, Mr. Smitz. In cosa posso esserle utile?» chiesi. Lui rimase a testa china, sollevando soltanto lo sguardo. Fu un gesto d'incertezza, da ragazzino, e sembrò strano in un uomo così grande e grosso. «Ho bisogno di aiuto, e non so a chi altri chiedere...» «Esattamente, di che tipo di aiuto ha bisogno, Mr. Smitz?» «Si tratta di mia moglie.» Aspettai che continuasse, ma lui riprese a fissarsi le mani. Lo zuccotto era ormai compresso in una pallina. «Vuole resuscitare sua moglie?» provai. Allora lui mi guardò, con gli occhi spalancati in un'espressione allarmata. «Non è morta! Lo so!» «E allora che cosa posso fare per lei, Mr. Smitz? Io resuscito i morti e sono legalmente autorizzata a eliminare i vampiri. In che modo le mie competenze professionali potrebbero aiutare sua moglie?» «Mr. Vaughn ha detto che lei sa tutto sulla licantropia», replicò lui, come se ciò spiegasse ogni cosa. Ma non spiegava proprio niente. «Il mio capo dice un sacco di cose, Mr. Smitz. Cosa c'entra la licantropia con sua moglie?» Era la seconda volta che gli chiedevo di sua moglie. Avevo l'impressione di parlare in inglese, ma forse avevo posto le mie domande in swahili senza accorgermene. O forse quello che era successo, qualunque cosa fosse, era talmente orribile che non poteva essere espresso a parole. Capitava molte volte nel mio lavoro. Lui si chinò in avanti, fissandomi molto intensamente, e io non potei fare a meno di protendermi a mia volta. «Peggy, cioè mia moglie, è un licantropo.» Continuando a fissarlo, battei le palpebre. «E allora?» «Se si venisse a sapere, perderebbe il lavoro.» Non obiettai. Anche se la legge lo proibiva, i licantropi venivano spesso discriminati. «Che tipo di lavoro fa?» «La macellaia.» Una licantropa macellaia... Perfetto! Però capivo perché Peggy avrebbe
perso il lavoro: produzione di alimenti adulterati con morbo potenzialmente fatale, anche se era un timore del tutto infondato. Io so, infatti, e lo sa anche il dipartimento della Sanità, che la licantropia si può trasmettere soltanto per mezzo di aggressione in forma animale. Eppure, molta gente è a dir poco scettica e io non posso certo biasimarla. Dopotutto, neanch'io voglio diventare mannara. «Ha una macelleria che ha ereditato dal padre e che va molto bene», spiegò. «Era un licantropo anche lui?» Smitz scosse la testa. «No, Peggy fu aggredita qualche anno fa. Sopravvisse, ma...» Scrollò le spalle. «Be', sa com'è...» Sapevo com'era. «Dunque sua moglie è una licantropa e, se questo si venisse a sapere, il suo negozio fallirebbe. Capisco... Ma io come potrei aiutarla?» Soffocai l'impulso a guardare l'orologio. I biglietti li avevo io, quindi Richard non avrebbe potuto entrare senza di me. «Peggy è scomparsa.» Ah... «Io non sono un detective privato, Mr. Smitz. Non cerco persone scomparse.» «Ma non posso andare alla polizia e correre il rischio che si venga a sapere...» «Da quanto tempo è scomparsa?» «Due giorni.» «Il mio consiglio è di andare subito alla polizia.» Lui scosse ostinatamente la testa. «No.» Sospirai. «Non ho nessuna esperienza nella ricerca di persone scomparse. Io resuscito i morti, elimino i vampiri e basta.» «Mr. Vaughn ha detto che lei avrebbe potuto aiutarmi.» «Gli ha spiegato il suo problema?» Lui annuì. Merda... Bert e io avremmo dovuto fare una lunga chiacchierata. «I poliziotti fanno bene il loro lavoro, Mr. Smitz. Dica loro soltanto che sua moglie è scomparsa, senza neanche accennare alla licantropia, e veda che cosa scoprono.» Non mi piaceva consigliare ai clienti di nascondere informazioni alla polizia, ma sarebbe stato sempre meglio che non andarci affatto. «Ms. Blake, la prego... sono preoccupato... abbiamo due bambini...» Fui sul punto di spiegargli tutte le ragioni per cui non avrei potuto aiutarlo, ma tacqui. Mi venne un'idea. «C'è una detective privata, Veronica
Sims, che collabora con l'Animators Inc. e si è occupata di molti casi soprannaturali. Potrebbe esserle di aiuto.» «Posso fidarmi di lei?» «Io mi fido.» Lui mi fissò per un lungo momento, poi annuì. «D'accordo. Come posso contattarla?» «Lasci che la chiami io, per vedere se può incontrarla.» «Sarebbe magnifico, grazie!» «Io vorrei molto aiutarla, Mr. Smitz, però, semplicemente, cercare mogli scomparse non è la mia specialità.» Nel parlare, composi il numero telefonico di Ronnie, che sapevo a memoria. Ci allenavamo insieme un paio di volte a settimana, per non parlare di quando uscivamo insieme per andare al cinema o a cena, o qualsiasi altra cosa. Quello della migliore amica è un concetto cui la maggior parte delle donne non rinuncia mai. Chiedete a un uomo chi sia il suo migliore amico, e lui dovrà pensarci sopra. Senza prima riflettere, nessun uomo è in grado di rispondere. Una donna invece sì. È possibilissimo che neppure dopo averci pensato un uomo sia in grado di dire chi è il suo migliore amico. Le donne fanno caso a queste cose, gli uomini invece no. E non chiedetemi perché. Rispose la segreteria telefonica. «Ronnie, sono Anita. Se ci sei, rispondi...» Uno scatto dell'apparecchio e l'istante successivo udii la voce autentica. «Ciao, Anita. Credevo che avessi appuntamento con Richard, stasera. Qualche problema?» Visto? La mia migliore amica. «Non con l'appuntamento. Ho qui un cliente che credo abbia più bisogno di te che di me.» «Dimmi tutto.» Lo feci. «Gli hai raccomandato di andare alla polizia?» «Sì.» «E lui?» «Non vuole.» Lei sospirò. «Be', è vero che mi sono già occupata di persone scomparse, ma, di solito, dopo che la polizia aveva già fatto tutto il possibile. Loro hanno risorse cui io non posso accedere.» «Lo so.» «E lui proprio non vuole?» «Credo di no.»
«Dunque, o accetto oppure...» «Bert ha preso il lavoro sapendo che si trattava di una persona scomparsa. Forse è disposto a passarlo a Jamison...» «A parte resuscitare i morti, Jamison non sa distinguere il suo culo da un buco nel terreno.» «Già, però è sempre ansioso di ampliare il suo repertorio...» «Chiedigli se può venire nel mio ufficio...» Ronnie s'interruppe per sfogliare la propria agenda. A quanto pareva, gli affari le stavano andando bene. «Domattina alle nove.» «Cristo... Hai sempre avuto l'abitudine di svegliarti presto.» «È uno dei miei difetti.» Chiesi a George Smitz se poteva andargli bene l'indomani alle nove. «Non può ricevermi stasera?» «Vuole vederti stasera.» Lei ci pensò. «Perché no? Io non ho nessun appuntamento arrapante, a differenza di certa gente di mia conoscenza. Ma sì, mandalo pure qui. Lo aspetto. Venerdì sera con un cliente è sempre meglio che venerdì sera da sola, suppongo.» «È soltanto che stai passando un periodo un po' asciutto...» «E tu stai passando un periodo molto bagnato.» «Quanto sei spiritosa.» Lei rise. «Be', io aspetto che arrivi Mr. Smitz, e tu goditi Bulli e pupe.» «Non mancherò. Ci vediamo domattina per la nostra solita corsa.» «Sei sicura di volere che passi a prenderti tanto presto? E se la nave dei sogni volesse restare in porto?» «Mi conosci troppo bene.» «Già, infatti... Stavo solo scherzando. A domani.» Consegnai a Mr. Smitz il biglietto da visita di Ronnie, gli spiegai come arrivare al suo ufficio e lo congedai. Ronnie era il meglio che potessi fare per lui. Continuava a preoccuparmi il fatto che non intendesse andare alla polizia, ma... Che diavolo! Non era mica mia moglie! Mi aveva detto di avere due bambini, ma non era certo un problema mio. Davvero. Craig, il segretario del turno di notte, aveva già preso servizio, quindi erano le sei passate. Ero in ritardo. Non avevo tempo di discutere con Bert a proposito di Mr. Smitz, eppure... Lanciai un'occhiata all'ufficio di Bert. Era buio. «Il capo è già andato a casa?» Craig alzò lo sguardo dalla tastiera del suo computer. Aveva capelli ca-
stani, corti, sottili come quelli di un bambino. Gli occhiali erano rotondi come il suo viso. Era snello e più alto di me. D'altronde, chi non lo è? Aveva poco più di vent'anni, però era già sposato, con due figli. «Mr. Vaughn è uscito circa mezz'ora fa.» «Non mi sorprende.» «Qualcosa non va?» Scossi la testa. «Fissami un appuntamento col capo, domani. Devo parlargli.» «Non saprei, Anita. È pieno d'impegni...» «Trovami un momento, Craig, altrimenti faccio irruzione nel suo ufficio mentre sta parlando con qualcun altro.» «Dici sul serio?» «Puoi scommetterci. Voglio un appuntamento. E, se protesta, digli che ti ho puntato la pistola alla testa.» «Oh, Anita...» disse lui, sorridendo, come se stessi scherzando. Lo lasciai a sfogliare l'agenda, alla ricerca di un attimo per me fra un appuntamento e l'altro. Avevo detto sul serio: intendevo assolutamente parlare con Bert. Cominciavo a stufarmi dei clienti che avevano problemi che non ero in grado di risolvere. Smitz non era il primo, quel mese, ma di sicuro sarebbe stato l'ultimo. Con quell'allegro pensierino, infilai il soprabito e uscii. Richard mi stava aspettando, ma, se non avessi trovato traffico, forse sarei arrivata prima dell'inizio dello spettacolo. Traffico? Il venerdì sera? E quando mai? 2 La Nova del 1978 che avevo guidato per tanto tempo era perita di una morte tragica e triste. L'avevo sostituita con una Jeep Cherokee Country di un verde così cupo che di notte sembrava nera. Le quattro ruote motrici erano molto utili in inverno e il bagagliaio era abbastanza spazioso per trasportare anche le capre. Mi servivo quasi sempre di galline per resuscitare gli zombie, ma di tanto in tanto c'era bisogno di qualcosa di più grosso, e portare capre con la Nova era sempre stato tremendo. Infilai la Cherokee nell'ultimo posto libero del parcheggio su Grant. Il mio lungo soprabito nero mi ondeggiava intorno perché avevo allacciato soltanto gli ultimi due bottoni. Se li avessi allacciati tutti non sarei riuscita a sfoderare la pistola. Con le mani infilate nelle tasche, mi stringevo addosso il soprabito. Non indossavo guanti, perché sparare coi guanti mi è
sempre riuscito scomodo. La pistola è un'estensione della mano. Nessun tessuto deve interferire. Attraversai la strada di corsa, ma con prudenza, perché avevo i tacchi alti e l'asfalto era gelato. Il marciapiede era tutto sgretolato, come se fosse stato preso a mazzate, e gli edifici non erano meno decrepiti. Non fui costretta a fare la fila, dato che ero arrivata quasi troppo tardi, perciò avevo la strada in rovina tutta per me. Fu una passeggiata breve e solitaria nella notte dicembrina. Coi tacchi alti e cocci di vetro sparsi ovunque, fui costretta a badare dove mettevo i piedi. Nel superare un vicolo che sembrava l'habitat naturale del Rapinator americanus scrutai l'oscurità. Nessun movimento. Dato che avevo la Browning, non ero troppo preoccupata, però... Non c'è bisogno di essere un genio per sparare nella schiena a qualcuno. Mi stavo avvicinando all'angolo e alla relativa salvezza, tuttavia il vento era abbastanza freddo da togliermi il respiro. Di solito mi copro di maglioni in inverno, ma quella sera avevo voluto essere un po' più elegante e quindi stavo gelando. Comunque speravo che a Richard sarebbe piaciuta la mia camicetta rossa. All'angolo trovai luci, automobili e, in mezzo alla strada, un poliziotto che dirigeva il traffico. Non si vedevano mai tanti poliziotti in quella zona di St. Louis, tranne quando il Fox era aperto. Allora un sacco di gente ricca scendeva nei bassifondi con le sue pellicce, i suoi diamanti e i suoi Rolex. Non sarebbe stato bello se un amico di qualche consigliere municipale fosse stato aggredito. Quando Topol aveva deciso di interpretare di nuovo il suo ruolo nel Violinista sul tetto, era accorso un pubblico molto créme de la créme e la zona era piena di sbirri. Quella sera non ce n'erano tanti, e quasi tutti stavano davanti al teatro impegnati a dirigere il traffico e a controllare i vicoli decrepiti, in caso qualche tizio pieno di soldi si allontanasse dalle luci. Attraversai le porte a vetri e percorsi il corridoio lungo e stretto, molto illuminato e scintillante. Sulla destra c'era la stanzetta della cassa. Un gruppo di persone ne uscì, affrettandosi verso la porta interna. Dunque non ero così in ritardo, visto che c'era ancora tanta gente che faceva il biglietto. O forse erano tutti ritardatari come me. Intravidi Richard in piedi nell'angolo in fondo a destra. Dato che era alto un metro e ottantacinque, in una sala affollata era più visibile di me, che sono un metro e sessanta scarso. Se ne stava tranquillo a osservare la folla e non sembrava annoiato, né spazientito, anzi sembrava che si divertisse parecchio a guardare la gente. Con gli occhi seguì una coppia anziana che
varcava la porta a vetri. I due camminavano molto lentamente, anche perché la donna si appoggiava a un bastone. Con la stessa lentezza Richard girò la testa, osservandoli. Io scrutai la folla. Tutti gli altri erano più giovani e camminavano veloci o sicuri. Richard stava forse cercando vittime? Prede? Dopotutto, era un lupo mannaro da quando gli era stata iniettata una dose avariata di vaccino contro la licantropia. È una delle ragioni per cui non mi sono mai fatta vaccinare: una cosa è se mi viene l'influenza, ma diventare mannara una volta al mese... No, grazie. Chissà se si rendeva conto di stare là in piedi a scrutare la folla come un leone che spia un branco di gazzelle. O magari i due anziani gli rammentavano i suoi nonni... Che diavolo! Forse gli stavo attribuendo un movente che esisteva soltanto nel mio cervellino sospettoso. O, almeno, lo speravo... Aveva i capelli castani, che al sole avevano riflessi dorati e un po' ramati. Di solito gli cadevano sulle spalle, lunghi quasi quanto i miei, ma quella sera li aveva raccolti in modo che sembrassero molto corti. Non doveva essere stato facile, visto che li aveva molto ondulati. Indossava un completo verde con cui qualsiasi altro uomo sarebbe sembrato Peter Pan, ma che a lui stava magnificamente. Nell'avvicinarmi, vidi che la camicia era oro pallido, con una cravatta di un verde più scuro di quello del completo, stampata a minuscoli alberi di Natale rossi. Mi sarebbe piaciuto prenderlo in giro per quella cravatta, ma... Vestita di rosso e verde, con un angelo d'argento sul risvolto, chi ero per criticare? Quando mi vide, Richard sorrise. Molto luminoso, il suo sorriso spiccò sulla pelle perennemente abbronzata. Anche se il suo cognome, Zeeman, era olandese, doveva avere qualche antenato non europeo, non biondo, non pallido, non freddo. Gli occhi erano di un puro color cioccolata. Allungò le braccia per prendermi le mani e attirarmi dolcemente a sé. Le sue labbra si posarono morbide sulle mie, in un bacio breve, quasi casto. Indietreggiai di un passo, inspirando. Lui mi tenne per mano e io glielo permisi. La sua pelle era molto calda contro la mia mano fredda. Pensai di chiedergli se avesse pensato di divorare quella coppia anziana, ma non lo feci. Accusarlo d'intenzioni omicide avrebbe potuto rovinare la serata. E poi, molti licantropi non sono consapevoli dei loro comportamenti inumani. Quando glielo si fa osservare, si ha sempre l'impressione di urtare i loro sentimenti. E io non volevo urtare i sentimenti di Richard. Nel varcare la porta interna per passare nell'atrio affollato, domandai: «Dov'è il tuo soprabito?»
«In macchina. Non volevo portarmelo dietro, così ho corso fino al teatro.» Annuii. Era tipico di Richard. O forse i licantropi non soffrono il freddo? Da dietro, scoprii che aveva raccolto i capelli in una treccia che gli scendeva dentro il colletto. Non riuscii a capire come avesse fatto. Per me, acconciare i capelli significa lavarli, passarci un po' di balsamo e lasciarli asciugare. Non m'interessano gli ultimi ritrovati della tecnica per scolpire i capelli. Ma forse, dopo lo spettacolo, sarebbe stato divertente sciogliere quella treccia. Sono sempre disposta a imparare qualcosa di nuovo. L'atrio principale del Fox è un incrocio fra un ristorante cinese molto elegante e un tempio indù, con una spruzzata di art déco per insaporire. I colori sono così sgargianti che sembrano essere composti, fra l'altro, di particelle di luce. Leoni cinesi grandi come pitbull, dagli occhi rossi e luminosi, vigilano sulla scalinata che sale al piano del Fox Club, dove, con quindicimila dollari l'anno, si affitta una saletta privata in cui consumare pasti meravigliosi. Quanto al resto del genere umano, cioè noi poveri peones, possiamo soltanto affollarci nell'atrio e consumare pop-corn, ciambelline salate, Pepsi e talvolta persino hot dog. Insomma, è tutta roba molto diversa dal cordon bleu, o quel che è, che si serve al piano di sopra. Il Fox è portentosamente al confine tra lo sfarzo e il fantastico. Amo quell'edificio dalla prima volta che l'ho visto. Ogni volta che ci vado scopro qualche nuova meraviglia, come un colore, un ornato o una statua che prima non avevo mai notato. Quando si pensa che in origine era un cinema, ci si rende conto di quanto sono cambiate le cose. Adesso i cinema non hanno più anima delle calze sporche. Il Fox, invece, è così vivo come soltanto gli edifici più belli possono essere. Fui costretta a lasciare la mano di Richard per sbottonarmi il soprabito, ma... Be', mica eravamo gemelli siamesi! Gli rimasi accanto nella folla senza toccarlo, però lo sentivo come un calore che mi sfiorava. «Non appena mi sarò tolta il soprabito sembreremo gemelli.» Lui inarcò le sopracciglia. Quando aprii il soprabito in un lampo, lui rise. Fu una bella risata, calda e densa come un pudding. «È il Natale», disse, stringendomi a sé con un braccio solo, brevemente, come fra amici, ma poi continuò a tenermi il braccio intorno alle spalle. Ci frequentavamo da poco, perciò quel tipo di contatto fisico era qualcosa di nuovo, di inaspettato, di esaltante. Eravamo sempre in cerca di qualche scusa per toccarci, ma cercando di essere disinvolti, senza prenderci in giro
a vicenda, dato che eravamo ancora un po' indecisi. Io gli passai un braccio intorno alla vita, appoggiandomi a lui. Era il mio braccio destro, perciò, se fossimo stati aggrediti in quel momento, non sarei riuscita a sfoderare in tempo la pistola. Rimasi così per un po', pensando che forse ne sarebbe valsa la pena, infine gli girai intorno e gli offrii la mano sinistra. Forse intravide la pistola, o forse capì perché mi ero spostata. Non so. Comunque sgranò gli occhi e chinò la testa a sussurrarmi nei capelli: «Sei armata? Qui, al Fox? Credi che ti lasceranno entrare?» «L'ultima volta non me lo hanno impedito.» Lui fece un'espressione strana. «Giri sempre armata?» Mi strinsi nelle spalle. «Dopo il tramonto, sì.» Nonostante la perplessità nel suo sguardo, lasciò perdere. In passato mi era capitato, qualche volta, di uscire disarmata la notte, ma l'anno appena trascorso era stato tremendo. Un sacco di gente aveva cercato di ammazzarmi. Io sono piccola persino per essere una donna. Sebbene faccia jogging, pesi e sia cintura nera di judo, sono sempre di gran lunga inferiore, fisicamente, alla maggior parte dei cattivi di professione, che di solito fanno pesi, conoscono le arti marziali e per giunta pesano quaranta o cinquanta chili più di me. Ma se non posso stenderli a cazzotti, posso farli fuori a pistolettate. Mi sono trovata spesso ad affrontare vampiri e altri mostri soprannaturali, che di solito sono capaci di sollevare un camion con una mano sola, o anche peggio. I proiettili d'argento non ammazzano i vampiri, però li rallentano, lasciandomi il tempo di scappare come se avessi l'inferno alle calcagna. Scappare, cioè sopravvivere. Richard sapeva che cosa facevo per vivere, anzi era persino stato testimone di qualche momento particolarmente brutto. Nonostante ciò, continuavo ad aspettarmi che rovinasse tutto e cominciasse a recitare la parte del maschio protettore e a lamentarsi della pistola, o qualcosa del genere. Ero in una tensione spasmodica quasi permanente perché temevo, o prevedevo, che dicesse qualcosa di terribilmente sbagliato, qualcosa che mi avrebbe fatta soffrire. Fino a quel momento, però, era andata bene. La folla s'incanalò verso le scale e si divise per imboccare i corridoi che conducevano alla sala principale. Noi la seguimmo lentamente, a passi strascicati, tenendoci per mano per non essere separati. Come no! La folla si disperse nei corridoi come acqua che cercasse la via più rapida per scendere a valle, ma anche la via più rapida fu piuttosto lenta. Sfilai
i biglietti dalla tasca della giacca. Non avevo la borsa. Tenevo il rossetto, la matita per le labbra, l'ombretto, la carta d'identità e le chiavi della macchina nelle tasche della giacca. Il cercapersone era infilato alla cintura, nascosto dalla giacca. Quando non mi vestivo elegante portavo un marsupio. La maschera, un'anziana donna con gli occhiali, illuminò i nostri biglietti con una minuscola torcia elettrica, poi ci accompagnò ai nostri posti, c'invitò a sedere con un cenno e si allontanò per accudire altri spettatori inetti. Le poltrone erano comode, quasi centrali, abbastanza vicine al palcoscenico. Senza che glielo chiedessi, Richard sedette alla mia sinistra. Imparava in fretta, e quella era una delle ragioni per cui continuavamo a frequentarci. A parte il fatto che io desideravo il suo corpo con una specie di tremenda brama lussuriosa. Stesi il soprabito sulla poltrona in modo che non mi desse fastidio. Richard fece scivolare un braccio lungo il bordo dello schienale fino a toccarmi una spalla con le dita. Per un po' resistetti al desiderio di posare la mia testa sulla sua spalla. Pensai che sarebbe stata una smanceria, poi mi dissi: Al diavolo! Accomodai la testa sulla sua spalla e respirai il suo profumo. Il suo dopobarba, pulito e dolce, non celava l'odore della pelle e della carne, che lo rendeva unico e inconfondibile. Sinceramente, l'odore del collo di Richard mi piaceva molto anche senza una sola goccia di dopobarba. Raddrizzai la schiena, spostandomi di pochissimo. Lui mi guardò interrogativamente. «Qualcosa non va?» «Ottimo dopobarba», risposi. Non c'era bisogno che gli dicessi di avere provato un desiderio quasi irresistibile di mordicchiargli il collo. Sarebbe stato troppo imbarazzante. Le luci si affievolirono e la musica incominciò. Non avevo mai visto Bulli e pupe, se non nella versione cinematografica, quella con Marlon Brando e Jean Simmons. Per Richard, uscire insieme significava scendere in grotta, salire in montagna a camminare e un sacco di altre attività che richiedevano abiti vecchi e un comodo paio di pedule. Non c'era niente di male, in quello. Anche a me piace stare all'aria aperta. Però avevo voluto provare una serata elegante e cittadina, vedere Richard in abito da sera e lasciare che lui mi vedesse in qualcosa di più raffinato di un paio di jeans. Dopotutto ero una ragazza, anche se non mi piaceva ammetterlo. Comunque, dato che toccava a me scegliere, avevo preferito evitare il solito abbinamento scontato, vale a dire cena e cinema. Così avevo telefo-
nato al Fox per informarmi sul programma e avevo chiesto a Richard se i musical gli piacessero. Lui aveva risposto di sì. Un altro punto a suo favore. E per giunta, dato che l'idea era stata mia, avevo comprato io i biglietti. Richard non aveva obiettato, né aveva suggerito di dividere la spesa. In fondo, io non mi ero offerta di pagare la nostra cena, l'ultima volta, anzi non ci avevo neanche pensato. Sarei stata pronta a scommettere che Richard, invece, aveva pensato a pagare i biglietti, anche se ci aveva rinunciato. Era proprio un tipo in gamba. Il sipario si alzò a rivelare la scenografia stilizzata e perfetta, sgargiante e allegra, che riproduceva una strada illuminata. Era proprio quello di cui avevo bisogno. The Fugue for Tinhorns riempì il palcoscenico fino a traboccare nella platea buia e contenta. Buona musica, umorismo, belle coreografie, il corpo di Richard accanto al mio, una pistola sotto l'ascella... Cos'altro avrebbe mai potuto chiedere una ragazza? 3 Alcune persone uscirono prima della fine del musical per precedere la folla. Io invece rimango sempre sino alla fine. Mi sembra ingiusto uscire di soppiatto senza neanche avere applaudito. E poi, detesto non assistere al finale di qualsiasi cosa. Ho sempre la sensazione di perdermi la parte migliore. Ci unimmo entusiasticamente a una standing ovation. Credo non esista un'altra città che conceda tante standing ovations. In certi casi, come accadde quella sera, lo spettacolo è magnifico, ma talvolta il pubblico si alza in piedi per applaudire produzioni che non lo meritano affatto. Quanto a me, non mi alzo se non sono davvero convinta. Quando le luci si riaccesero, Richard sedette di nuovo. «Preferisco aspettare che la folla si diradi, se non ti dispiace...» L'espressione dei suoi occhi marroni diceva che non pensava che mi dispiacesse. E infatti non mi dispiaceva. Eravamo arrivati ognuno con la propria auto. Una volta lasciato il Fox, la serata si sarebbe conclusa. A quanto pareva, nessuno di noi due voleva andarsene. Di sicuro, io non volevo. In piedi, mi appoggiai alla poltrona davanti e abbassai lo sguardo su Richard. Lui mi sorrise, con gli occhi scintillanti di lussuria, se non d'amore. Anch'io sorrisi. Evidentemente, non riuscii a controllarmi. «Non ti sembra che questo musical sia molto sessista?» disse lui. Ci pensai un momento, prima di annuire. «Sì.»
«Però ti piace?» Annuii di nuovo. Lui socchiuse un po' gli occhi. «Credevo che ti avrebbe irritata...» «Ho cose più importanti di cui preoccuparmi, che la visione del mondo espressa da Bulli e pupe.» Lui rise: una risata breve, allegra. «Bene! Per un momento ho temuto di dovermi sbarazzare della mia collezione di dischi di Rodgers e Hammerstein.» Lo scrutai per capire se mi stesse prendendo in giro, e decisi di no. «Davvero collezioni i dischi di Rodgers e Hammerstein?» Lui annuì, con gli occhi scintillanti di divertimento. «Soltanto di Rodgers e Hammerstein, o di tutti i musical?» «Di tutti, anche se non è completa.» Scossi la testa. «Cosa c'è che non va?» «Sei un romantico.» «Da come lo dici, sembra una brutta cosa.» «Quella stronzata del vissero-sempre-felici-e-contenti va bene a teatro, ma non ha molto a che fare con la vita.» Allora fu lui a scrutarmi in viso. Evidentemente, quello che vide non gli piacque, perché si accigliò. «Questa del musical è stata una tua idea... Se non ti piace tutta questa roba a lieto fine, perché hai voluto portarmici?» Mi strinsi nelle spalle. «Dopo averti proposto una serata elegante, non sapevo dove portarti. Non volevo fare le solite cose... E poi, i musical mi piacciono. Semplicemente, non credo che riflettano la realtà.» «Non sei così dura come fingi di essere.» «Sì», replicai. «Lo sono.» «Non mi convinci. Invece penso che quella stronzata del visserosempre-felici-e-contenti ti piaccia quanto piace a me. Hai solo paura di crederci.» «Non ho paura. Sono soltanto prudente.» «Sei rimasta delusa troppe volte?» «Può darsi.» Incrociai le braccia. Uno psicologo avrebbe detto che mi stavo chiudendo, per non comunicare. Vaffanculo gli psicologi. «A cosa stai pensando?» Scrollai le spalle. «Dimmelo, per favore.» Fissando i suoi sinceri occhi marroni, desiderai tornare a casa sola.
«Vissero-sempre-felici-e-contenti è soltanto una balla, Richard», dissi invece. «Lo so da quando avevo otto anni.» «Da quando morì tua madre.» Lo guardai in silenzio. Avevo ventiquattro anni, eppure il dolore per quella perdita era ancora profondo. Sono cose che si possono affrontare e sopportare, ma che non si possono sfuggire. Non si può mai credere davvero che tutto andrà bene. Non si può mai credere davvero che il male non arriverà all'improvviso a portare via tutto. Preferirei essere costretta ad affrontare una dozzina di vampiri, piuttosto che restare coinvolta in un solo, insensato incidente stradale. Lui mi aprì la mano con cui mi stringevo l'altro braccio. «Io non morirò e non ti abbandonerò, Anita. Te lo prometto.» Qualcuno rise, e fu una risata fioca, che sfiorò la pelle come una carezza. Esisteva soltanto una persona capace di produrre una risata quasi palpabile: Jean-Claude. Mi girai e lo vidi, in piedi in mezzo al corridoio. Non lo avevo sentito arrivare. Non avevo percepito il minimo movimento. Era apparso come per magia. «Non fare promesse che non puoi mantenere, Richard.» 4 Mi staccai dallo schienale della poltrona e avanzai di un passo per consentire a Richard di alzarsi. Lo sentii dietro di me, e la sua presenza mi avrebbe confortato, se non fossi stata più preoccupata per la sua incolumità che per la mia. Jean-Claude indossava un lucido frac nero sopra il panciotto bianco a minuscoli pois neri che incorniciava il candore luminoso della camicia. Il colletto era alto e rigido, stretto da un morbido ascot nero infilato nel panciotto, come se non esistessero altre cravatte. Lo spillone era in onice argenteo e nero. Sopra le scarpe portava le ghette come Fred Astaire. Sospettavo però che tutto il completo fosse di foggia più antiquata. I lunghi capelli neri e ricci scendevano a sfiorare il colletto bianco. Non lo guardai negli occhi, però sapevo che li aveva blu come lo zaffiro più puro. Non bisogna mai guardare un vampiro negli occhi. È una regola. Mentre il Master della Città stava là ad aspettare, mi resi conto di quanto fosse vuoto il teatro. Avevamo indugiato tanto che tutto il pubblico se n'era andato. Eravamo soli nel silenzio echeggiante. Il mormorio lontano della folla che si disperdeva era come un insignificante brusio di fondo. Fissai i
lucidi bottoni di madreperla del panciotto di Jean-Claude. È difficile fare la dura con qualcuno, quando non puoi guardarlo negli occhi. Ma io ci riesco. «Cristo, Jean-Claude! Ti vesti sempre e soltanto di bianco e di nero?» «Non ti piace, ma petite?» Jean-Claude piroettò per permettermi di ammirarlo. Il completo gli stava alla perfezione. Naturalmente, tutto quello che indossava sembrava confezionato su misura, ed era bello, perfetto, proprio come lui. «Non so bene perché, ma non avrei mai creduto che Bulli e pupe ti piacesse, Jean-Claude.» «Né io che piacesse a te, ma petite.» La sua voce, morbida come panna, aveva un'intensità paragonabile soltanto alla collera o alla lussuria. E io avrei scommesso che non fosse lussuria. Ero armata, ma anche coi proiettili placcati in argento avrei potuto soltanto rallentarlo, non ucciderlo. Certo, Jean-Claude non ci avrebbe mai aggrediti in pubblico. Era troppo educato per comportarsi così. Era un vampiro d'affari, un imprenditore, e gli imprenditori, vivi o morti che siano, non vanno in giro a squarciare la gola alla gente. O, almeno, non abitualmente... «Richard, sei insolitamente taciturno...» Jean-Claude guardò alle mie spalle, ma io non mi girai per scoprire che cosa stesse facendo Richard. Non bisogna mai distogliere gli occhi dal vampiro che si ha di fronte per guardare il licantropo che si ha alle spalle. Un problema alla volta. «Anita sa parlare senza bisogno del mio aiuto», replicò Richard. Di scatto, Jean-Claude riportò la propria attenzione su di me. «Questo è sicuramente vero. Ma sono venuto qui per sapere se lo spettacolo è piaciuto a tutti e due.» «Certo», dissi. «E gli asini sanno volare.» «Non mi credi?» «Direi di no», risposi. «Richard, ti è piaciuta la serata?» La sfumatura ironica della sua voce celava la rabbia, e i Master non sono una compagnia molto gradevole quando sono arrabbiati. «È stata meravigliosa, fino a quando non sei arrivato tu.» La voce di Richard lasciò trapelare un fervore che annunciava la collera. Non lo avevo mai visto in collera. «E com'è possibile che la mia sola presenza abbia rovinato il vostro... appuntamento?» Jean-Claude pronunciò l'ultima parola come se fosse uno sputo rovente.
«Come mai sei tanto incazzato stasera, Jean-Claude?» chiesi. «Cosa dici, ma petite? Io non sono mai... incazzato.» «Stronzate.» «È geloso di noi due», intervenne Richard. «Non sono affatto geloso.» «Dici sempre ad Anita che riesci a fiutare il desiderio che ha di te. Be', io riesco a fiutare il tuo. La vuoi così tanto che si riesce a sentirne...» Richard terminò la frase in un tono quasi aspro. «... il sapore.» «E tu, Monsieur Zeeman? Forse che non la desideri anche tu?» «Piantatela di parlare come se non fossi presente», li interruppi. «Anita mi ha chiesto se volevo uscire con lei, e io ho risposto di sì.» «È vero, ma pctite?» La voce di Jean-Claude divenne molto pacata. La sua calma, però, era più inquietante della collera. Avrei voluto rispondere di no, ma lui avrebbe fiutato la menzogna. «È vero. E con questo?» Silenzio. Lui rimase completamente immobile. Se non lo avessi guardato, non avrei neppure percepito la sua presenza. I morti non fanno rumore. Il mio cercapersone suonò. Richard e io trasalimmo come se ci avessero sparato. Jean-Claude rimase immobile come se non avesse sentito. Premetti il pulsante e, alla vista del numero che lampeggiava, mi lasciai sfuggire un gemito. «Che c'è?» chiese Richard, posandomi una mano sulla spalla. «La polizia. Devo trovare un telefono.» Mi appoggiai al petto di Richard e, mentre la sua mano mi stringeva la spalla, fissai il vampiro che mi stava di fronte. Lo avrebbe aggredito quando me ne fossi andata? Non ne ero sicura. «Hai un crocifisso?» sussurrai, senza timore di mostrarmi maleducata, dato che Jean-Claude avrebbe sentito comunque. «No.» Mi girai parzialmente verso di lui. «No?! Esci di notte senza un crocifisso?» Richard scrollò le spalle. «Sono un licantropo. So badare a me stesso.» Scossi la testa. «Farti squarciare la gola una volta non ti è bastato?» «Sono ancora vivo.» «So che sei in grado di guarire da qualsiasi cosa, o quasi, ma... Accidenti, Richard! Non sei immortale!» Cominciai a sfilare dalla camicetta la catenina d'argento del crocifisso. «Ti presto il mio.» «È d'argento?» chiese Richard. «Sì.»
«Non posso. Lo sai che sono allergico all'argento.» Che stupida! Un'esperta di soprannaturale che offre argento a un licantropo! Lasciai scivolare di nuovo la catenina sotto la camicetta. «Lui non è più umano di me, ma petite.» «Almeno non sono morto.» «A questo si può rimediare.» «Basta!» «Hai visto la sua camera da letto, Richard? E la sua collezione di pinguini?» Respirai profondamente. Non intendevo star lì a spiegare come JeanClaude fosse riuscito a vedere la mia camera. Ero davvero tenuta a dichiarare solennemente di non essere mai stata a letto con un cadavere ambulante? «Stai cercando di farmi ingelosire», disse Richard. «Però non funziona.» «Eppure ho insinuato il dubbio nella tua mente, Richard. Lo so. Sei l'animale che risponde al mio richiamo, il mio lupo, e io so che non ti fidi di lei.» «Mi fido di Anita», assicurò Richard, ma in un tono difensivo che non mi piacque affatto. «Io non ti appartengo, Jean-Claude», aggiunse. «Sono il secondo del branco, dopo il capo. Sono libero di agire a mio piacimento. L'Alfa ha revocato l'ordine di obbedirti dopo che mi hai quasi fatto uccidere.» «Il tuo capobranco è rimasto molto turbato dalla tua sopravvivenza», insinuò dolcemente Jean-Claude. «E perché mai il capobranco dovrebbe volere la morte di Richard?» intervenni. Jean-Claude guardò Richard alle mie spalle. «Non le hai detto che sei impegnato in una battaglia per la successione?» «Non intendo battermi con Marcus.» «Allora morirai», sentenziò Jean-Claude, come se fosse tutto assolutamente semplice. Il mio cercapersone suonò di nuovo. Stesso numero. «Sto arrivando, Dolph...» mormorai. Guardai Richard. L'ira scintillava nei suoi occhi. Le sue mani erano strette a pugno. Gli stavo abbastanza vicino per sentire la sua tensione fluire e rifluire come risacca. «Che sta succedendo, Richard?» Lui si affrettò a scuotere brevemente la testa. «Sono affari miei.» «Se qualcuno ti minaccia, sono anche affari miei.»
Lui chinò la testa a fissarmi. «No, non sei una di noi. Non intendo coinvolgerti.» «So badare a me stessa, Richard.» Di nuovo, lui scosse la testa. «Marcus vorrebbe coinvolgerti, ma petite, ma Richard rifiuta. Questo è un... motivo di contrasto fra loro. Uno dei tanti.» «Come sai tutte queste cose?» chiesi. «Noi capi della comunità soprannaturale dobbiamo tenerci in contatto, per il benessere di tutti.» In silenzio, Richard si limitava a fissarlo. Per la prima volta mi resi conto che, a quanto pareva, poteva guardarlo negli occhi senza brutte conseguenze. «Sei in grado di sostenere il suo sguardo?» Richard mi lanciò un'occhiata, prima di fissare nuovamente Jean-Claude. «Sì. Sono un mostro anch'io. Posso guardarlo negli occhi.» Scossi la testa. «Irving non può guardarlo negli occhi. Non basta essere licantropi.» «Come io sono un vampiro Master, così il nostro bell'amico è un licantropo Master, anche se loro non lo definiscono così, bensì maschio Alfa, vero? Capobranco...» «Preferisco capobranco.» «Ci scommetto», dissi. Richard sembrò addolorato, mentre il suo viso si sgretolava come quello di un bambino. «Sei arrabbiata con me. Perché?» «Sei impegolato in tutta questa gran stronzata col tuo capobranco e non me ne hai mai parlato. E Jean-Claude continua ad alludere al fatto che il tuo capo ti vuole morto... È vero?» «Marcus non mi ucciderà», replicò Richard. Jean-Claude rise, con una sfumatura aspra che trasformò la sua risata in tutt'altro. «Sei uno sciocco, Richard!» Il mio cercapersone suonò di nuovo. Controllai il numero, poi lo spensi. Era insolito da parte di Dolph chiamare tante volte in così breve tempo. Stava succedendo qualcosa di molto grave. Dovevo andare. Tuttavia... «Adesso non ho il tempo di farmi raccontare tutta la storia.» Piantai un dito in mezzo al petto di Richard, mostrando la schiena a Jean-Claude, che era già riuscito nel suo scopo di mettere zizzania. «Ma la prossima volta mi racconterai questa storia dall'inizio alla fine.» «Io non...» «Risparmiati le scuse. Se non vuoi condividere con me questo problema,
allora abbiamo finito di uscire insieme.» Lui sembrò sconvolto. «Perché?» «O mi lasci fuori per proteggermi, e questa è una cosa che detesto, oppure hai qualche altro motivo. In tal caso, ti conviene che sia un motivo maledettamente valido, e non la solita stronzata tipica dell'orgoglio maschile.» Jean-Claude rise di nuovo e, questa volta, la sua risata mi avvolse, calda e confortante come flanella, morbida e soffice sulla pelle nuda. Scossi la testa. Gli bastava una risata per intromettersi nella mia intimità. Mi girai di scatto verso di lui, e il mio viso doveva avere un'espressione terribile, perché la sua risata si spense all'istante. «Quanto a te, puoi andartene al diavolo fuori di qui! Per stasera ti sei già divertito abbastanza.» «Che vuoi dire, ma petite?» Il suo bel viso era perfetto e vacuo come una maschera. Scossi la testa e avanzai di un passo per andarmene. Dovevo lavorare. Ma Richard mi afferrò la spalla. «Lasciami, Richard. In questo momento non ho voglia di stare con te.» Non lo guardai. Non volevo vederlo in viso. Avevo paura che si mostrasse tanto addolorato da indurmi a perdonargli qualsiasi cosa. «Hai sentito, Richard? Non vuole neppure che la tocchi.» Scivolando, Jean-Claude si avvicinò di un passo. «Lascia perdere, Jean-Claude.» Richard mi strinse gentilmente. «Lei non ti vuole, Jean-Claude.» La sua voce lasciò trapelare la rabbia, una rabbia eccessiva, come se stesse cercando di convincere se stesso, più che Jean-Claude. Avanzai di un passo, liberandomi dalla sua mano. Avrei voluto prenderla, ma non lo feci. Mi aveva nascosto una stronzata importante, una stronzata pericolosa, e ciò non era permesso. Peggio ancora, era convinto, in qualche recesso oscuro della sua anima, che avrei anche potuto cedere a Jean-Claude. Che casino... «Andate a farvi fottere tutti e due.» «Dunque non hai mai avuto questo piacere?» chiese Jean-Claude. «A questa domanda deve rispondere Anita, non io», replicò Richard. «Se fosse così, lo saprei.» «Bugiardo», dissi. «No, ma petite. Fiuterei il suo odore sulla tua pelle.» Avrei voluto picchiarlo. Provavo un desiderio fisico così violento di spaccare quella sua bella faccia, che i muscoli delle braccia e delle spalle
mi si contrassero fino a far male. Ma non ero così ingenua. Nessuno si offre volontario per fare a cazzotti con un vampiro, a meno che non voglia ridurre drasticamente le proprie aspettative di sopravvivenza. Mi avvicinai molto a Jean-Claude, fin quasi a sfiorarlo, e gli fissai il naso. Ciò rovinò almeno in parte l'effetto, ma i suoi occhi erano pozzi in cui si annegava, e io non volevo caderci. «Ti odio», dissi, con voce dura, sforzandomi di non gridare. In quel momento dicevo sul serio, e sapevo che Jean-Claude lo percepiva. Volevo che lo sapesse. «Ma petite...» «No, hai già parlato anche troppo. Adesso tocca a me. Se fai del male a Richard Zeeman, ti ammazzo.» «Significa dunque tanto per te?» C'era sorpresa nella sua voce. Magnifico. «No, sei tu che significhi poco.» Mi allontanai e gli girai intorno. Infine, mostrandogli la schiena, me ne andai. E che affondasse pure le sue zanne in quella piccola verità. Tutto quello che avevo detto quella sera, parola per parola, era vero. 5 Il numero sul mio cercapersone era quello del telefono dell'auto del sergente Rudolph Storr. Glielo aveva regalato sua moglie l'anno prima, per Natale, e io le avevo mandato un biglietto di ringraziamento. Quando si usa la radio della polizia, qualunque discorso sembra pronunciato in una lingua straniera. Dolph prese la comunicazione al quinto squillo. Non avevo mai dubitato che prima o poi avrebbe risposto. «Anita.» «E se fossi stata tua moglie?» chiesi. «Sa che sto lavorando.» Lasciai perdere. Non tutte le mogli sarebbero state contente di sentire il marito rispondere al telefono col nome di un'altra donna, ma forse Lucilie era diversa. «Che c'è, Dolph? Questa avrebbe dovuto essere la mia serata libera.» «Mi dispiace che l'assassino non lo sapesse. Se sei impegnata, vedremo di cavarcela senza di te, anche se sarà molto difficile.» «Come mai questo umore?» Fui ricompensata da un suono soffocato che poteva anche essere una ri-
sata. «Non è colpa tua. Siamo al Six Flags, sulla Highway 44.» «Sulla 44? Dove, esattamente?» «Vicino all'Audubon Nature Center. Fra quanto puoi essere qui?» «Il problema è che non so dove diavolo siete. Come ci arrivo, al Nature Center?» «È di fronte al St. Ambrose Monastery.» «Ancora niente.» Lui sospirò. «Diavolo, siamo proprio in mezzo al fottuto nulla. Non ci sono altri punti di riferimento.» «Dimmi come arrivare in zona. Lo troverò.» Lui me lo spiegò, ma mi diede troppe indicazioni e io non avevo né carta né penna. «Aspetta, devo trovare qualcosa per scrivere...» Posai il ricevitore, andai nella toilette a prendere una salvietta di carta e chiesi una penna in prestito a una coppia di anziani. L'uomo indossava un soprabito in cachemire, mentre lei portava gioielli con diamanti veri. La penna, tutta incisa, forse era davvero d'oro. Comunque, lui non mi fece promettere di restituirla. O si fidava o era al di sopra di quelle meschine preoccupazioni. Dato che la situazione stava diventando imbarazzante, decisi che in futuro mi sarei sempre portata dietro l'occorrente per scrivere. «Eccomi, Dolph. Continua.» Lui non mi chiese perché ci avevo messo tanto. Non era molto incline alle domande che non erano strettamente attinenti al lavoro. Mi spiegò tutto daccapo e io gli rilessi i miei appunti per essere certa di aver capito bene. Avevo capito. «Mi ci vorranno almeno tre quarti d'ora di macchina...» Di solito sono l'esperta che viene convocata per ultima, dopo che la vittima è stata fotografata, videoregistrata, perquisita, esaminata e così via. Al mio arrivo, tutti gli altri se ne vanno a casa, o almeno lasciano la scena del delitto. A nessuno piace restare a congelarsi i piedi per due ore. «Ti ho chiamata non appena ho capito che non è opera di un umano. Non ci metteremo meno di un'ora a finire. Poi la vittima sarà a tua disposizione.» Avrei dovuto immaginare che Dolph aveva già calcolato tutto. «Okay. Sarò lì prima possibile.» Lui riappese, io pure. Dolph non salutava mai. Restituii la penna all'anziano signore, che l'accettò benevolmente, come se non avesse mai dubitato di riaverla. Ottima educazione. Mi recai all'uscita. Né Jean-Claude né Richard erano nell'atrio. Dato che
si trovavano in un luogo pubblico, non credevo che si sarebbero scontrati fisicamente. Si sarebbero insultati, magari, ma non avrebbero lottato. Insomma, il vampiro e il licantropo erano perfettamente in grado di cavarsela da soli. E poi, visto che non permettevo a Richard di preoccuparsi per me, il meno che potessi fare era di ricambiargli il favore. Non credevo che Jean-Claude volesse mettermi alla prova o, almeno, non davvero. Altrimenti, uno di noi due sarebbe morto, e stavo cominciando a pensare che forse, soltanto forse, non sarei stata io. 6 Non appena fuori, investita dal freddo, curvai le spalle e chinai la testa. Pochi metri avanti a me camminavano due uomini e due donne che ridevano allegramente, tenendosi a braccetto, stretti gli uni agli altri per proteggersi dal vento gelido. I tacchi alti delle donne producevano un suono acuto, teatrale. Anche le loro risate erano troppo acute. Un'uscita a quattro che era andata bene, almeno fino a quel momento. O forse erano tutti troppo innamorati e io stavo cominciando a inacidirmi. Forse... Le due coppie si separarono come acqua intorno a un sasso, rivelando una donna che le incrociava, poi si riunirono, ridendo come se non l'avessero neppure vista. E probabilmente era proprio così. In quel momento ebbi una sensazione vaga, come la percezione di una corrente d'aria fredda. Era una sensazione che non aveva niente a che fare col vento. Lei stava creando l'illusione di essere invisibile. Prima che le coppie la notassero, neppure io l'avevo vista. E ciò significava che era brava. Molto, molto brava. Si fermò sotto l'ultimo lampione. Aveva i capelli di un biondo chiaro, molto folti e ondulati, più lunghi dei miei, che arrivavano quasi alla cintura. Indossava un soprabito nero, completamente abbottonato, che era troppo scuro per lei. Accentuava il pallore della sua pelle nonostante il trucco. Stava in mezzo al marciapiede, arrogante. Non era fisicamente imponente, dato che aveva più o meno la mia stessa corporatura. E allora perché se ne stava là come se niente al mondo potesse spaventarla? Soltanto tre cose possono infondere quel genere di fiducia: avere una mitragliatrice, essere stupidi, oppure essere vampiri. Non vidi nessuna mitragliatrice e la donna non sembrava affatto stupida. Conclusi che era una vampira. Era truccata così bene che sembrava quasi viva. Quasi... Si accorse che la fissavo e mi fissò a sua volta, cercando di catturare il
mio sguardo, ma io ero parecchio esperta in quel genere di danza. Fissare qualcuno in viso senza guardarlo negli occhi è un trucco che diventa sempre più facile con la pratica. Lei si accigliò. Non era per niente contenta di non essere riuscita a ipnotizzarmi. Mi fermai a meno di due metri da lei, con le gambe divaricate, in posizione equilibrata per quanto me lo consentivano i tacchi alti. Avevo già le mani fuori delle tasche, al freddo, pronta a sfoderare la pistola se necessario. Il suo potere scivolò sulla mia pelle come se mi stesse palpando alla ricerca di un punto debole. Era molto brava, però aveva soltanto poco più di cento anni, e un secolo non è abbastanza per obnubilarmi la mente. Tutti i risveglianti sono per natura parzialmente immuni ai vampiri. E la mia è un'immunità molto superiore alla media. Era così concentrata che il suo bel viso era privo di espressione: sembrava una bambola di porcellana. Protese una mano come per gettarmi addosso qualcosa. Trasalii, e il suo potere mi colpì come un'onda invisibile, facendomi barcollare. Sfoderai la pistola. Anziché assalirmi, lei si concentrò per indurmi a lasciarla cadere. Mi ero sbagliata, aveva almeno duecento anni. Non mi capitava tanto spesso di commettere errori del genere. Il suo potere mi percosse la pelle come una miriade di minuscole mazze, ma senza neppure sfiorare la mia mente. Rimasi sorpresa quasi quanto lei quando le puntai contro la pistola. Era stato troppo facile. «Ehi!» disse una voce alle nostre spalle. «Giù quella pistola! Subito!» Un poliziotto, proprio quando me ne serviva uno. Abbassai la pistola. «Posa l'arma sul marciapiede, subito!» ordinò la voce, quasi in un ringhio. Senza girarmi, capii che aveva la pistola in pugno. Gli sbirri prendono molto sul serio le armi da fuoco. Col braccio sinistro sollevato a mostrare la mano aperta, protesi il destro, poi mi chinai a posare lentamente la Browning sul marciapiede. «Questa interruzione mi disturba», disse la vampira. Io la guardai nell'alzarmi, con le mani intrecciate dietro la testa. Forse, mostrando di conoscere la procedura, avrei guadagnato qualche punto. Lei stava fissando lo sbirro che si avvicinava alle mie spalle, e non aveva uno sguardo amichevole. «Non fargli male.» Lei mi lanciò un'occhiata. «Non ci è permesso aggredire la polizia», replicò, in tono sprezzante. «Conosco le regole.» Avrei voluto chiedere: «Quali regole?» Ma non lo feci. Era una buona
regola. Il poliziotto sarebbe sopravvissuto, grazie a quella regola. Naturalmente, io non ero uno sbirro, e avrei scommesso che per me le regole non valevano. Infine, vidi l'agente con la coda dell'occhio. Mi puntava addosso la pistola. Con un calcio allontanò la mia, mandandola a sbattere contro l'edificio, poi con una mano mi spinse per attirare la mia attenzione. «Non hai bisogno di sapere dov'è finita la pistola.» Aveva ragione, per il momento. Mi perquisì con una mano sola, non molto accuratamente. Mi chiesi dove fosse il suo compagno. «Basta», disse la vampira. Sentii che lo sbirro indietreggiava, allontanandosi da me. «Che sta succedendo, qui?» Il potere di lei mi passò accanto sfiorandomi, come una belva gigantesca nell'oscurità. Sentii il poliziotto ansimare. «Non sta succedendo niente», disse la vampira, che parlava con un vago accento straniero, forse tedesco. Il poliziotto rispose: «Non sta succedendo niente, qui.» «Adesso torna a dirigere il traffico», continuò lei. Mi girai lentamente, sempre con le mani sopra la testa. Lo sbirro se ne stava là, fermo, col viso vacuo e con gli occhi sgranati, la pistola puntata al marciapiede, come se non ricordasse più di averla in pugno. «Vattene», intimò lei. Lui rimase come paralizzato. Indossava il fermacravatta benedetto a forma di crocifisso, come imponeva il regolamento, ma non gli serviva a granché. Indietreggiando, mi allontanai da entrambi. Volevo essere armata quando la vampira avesse smesso di prestare attenzione allo sbirro. Sorvegliando quest'ultimo, abbassai lentamente le braccia. Se lei lo avesse liberato all'improvviso e io non fossi stata dove avrei dovuto essere, lui avrebbe potuto spararmi. Era improbabile che lo facesse, ma non era escluso. Lo avrebbe fatto quasi certamente, invece, se mi avesse vista con la pistola in pugno per la seconda volta. «Non sei disposta a togliergli il crocifisso, in modo che io possa ordinargli di andarsene, vero?» Lanciai un'occhiata alla vampira, che mi osservava. Il poliziotto si agitò, come un sognatore nella morsa di un incubo. Subito lei riportò lo sguardo su di lui, e ogni resistenza cessò. «Non credo proprio.» Mi chinai, cercando di sorvegliarli tutti e due con-
temporaneamente. Trovai la Browning a tastoni e la impugnai con le dita intirizzite. Il freddo mi aveva intorpidito le mani. Non ero affatto sicura di poter sparare con precisione, in quelle condizioni. Forse avrei dovuto prendere in considerazione i guanti, dopotutto. O magari i mezzi guanti. Infilai la Browning nella tasca del soprabito, senza lasciarla. Così mi sarei riscaldata la mano e, se necessario, avrei sparato attraverso il tessuto. «Se non avesse il crocifisso, potrei obbligarlo ad andarsene. Perché non riesco a controllare allo stesso modo anche te?» «Sono soltanto fortunata, immagino.» Di nuovo mi lanciò un'occhiata, e di nuovo lui si agitò. La vampira fu costretta a continuare a fissarlo, mentre parlava con me. Fu interessante scoprire di quanta concentrazione aveva bisogno. Era potente, però aveva i suoi limiti. «Tu sei la Sterminatrice.» «E con questo?» «Non credevo a quello che si racconta sul tuo conto. Adesso invece ci credo, almeno in parte.» «Buon per te. E, adesso, dimmi... Che cosa vuoi?» Un lieve sorriso incurvò le sue labbra luccicanti di rossetto. «Voglio che lasci in pace Jean-Claude.» Battei le palpebre, niente affatto sicura di aver sentito bene. «Lasciarlo in pace? Che vuoi dire?» «Non uscire con lui, non flirtare con lui, non parlare con lui. Lascialo in pace.» «Ne sarò felice.» Stupita, lei si girò verso di me. Non capita spesso che una vampira di due secoli rimanga sorpresa. Il suo viso sembrò molto umano, con gli occhi sgranati e le labbra che formavano una piccola «o» di sbalordimento. Il poliziotto sbuffò e guardò freneticamente intorno. «Che cosa diavolo...?» Ci scrutò entrambe, ma sembravamo due donne minute, due amiche che erano uscite insieme. Lui abbassò lo sguardo sulla propria pistola e parve imbarazzato. Non ricordava il motivo per cui l'aveva impugnata. La rinfoderò, mormorò qualche scusa e si allontanò. La vampira non lo trattenne. «Sei disposta a lasciare in pace Jean-Claude?» «Puoi scommetterci.» Lei scosse la testa. «Non ti credo.» «Senti... Non me ne frega niente se mi credi o no. Se hai una cotta per
Jean-Claude, tanti auguri. Quanto a me, sono anni che sto cercando di togliermelo di torno.» Di nuovo lei scosse la testa, facendo ondeggiare la massa bionda dei capelli, in un gesto da ragazzina. Sarebbe stata carina, se non fosse stata un cadavere. «Stai mentendo. Lo desideri. Tutte le donne lo desiderano.» Non potevo certo darle torto. «Ce l'hai un nome?» «Gretchen.» «Be', cara Gretchen, ti auguro tanta gioia insieme col Master. Se ti occorre aiuto per ficcargli le tue zanne in corpo, fammelo sapere. Sarei felice se lui trovasse una bella vampirina con cui accasarsi.» «Mi prendi in giro...» Scrollai le spalle. «Un po' sì, ma è soltanto una vecchia abitudine. Niente di personale. Dico sul serio. Io non voglio Jean-Claude.» «Non lo trovi bello?» La sorpresa intenerì la sua voce. «Be', sì... Però trovo belle anche le tigri, senza avere nessuna voglia di andarci a letto.» «Nessuna mortale può resistergli.» «Questa mortale sì.» «Stai lontana da lui o ti ammazzo.» Gretchen non mi aveva ascoltato, non con attenzione. Aveva sentito, ma non aveva capito. Mi ricordava tanto Jean-Claude. «Ascolta. È lui che sta dietro a me, mentre io non voglio averci niente a che fare. E non minacciarmi.» «Lui è mio, Anita Blake. Se ti metterai contro di me, sarà a tuo rischio e pericolo.» Fu il mio turno di scuotere la testa. Forse non si rendeva conto che le stavo puntando addosso una pistola, e forse non sapeva che era caricata con proiettili placcati in argento. Forse in un paio di secoli era diventata solo arrogante. Probabilmente era proprio così... «Non ho tempo per discutere di questo, adesso. Jean-Claude è tuo? Grande! Magnifico! Sono strafelice di saperlo. Se lo terrai alla larga da me, io sarò la donna più felice del mondo, viva o morta.» Anche se non avevo nessuna voglia di girarle la schiena, dovevo andare. Se la vampira non aveva intenzione di assalirmi, Dolph mi stava aspettando sulla scena di un delitto. Dovevo andare. «Gretchen, di cosa state parlando tu e Anita?» Jean-Claude si era avvicinato di soppiatto. Indossava - e non sto affatto scherzando - un mantello
nero a collo alto, in stile vittoriano. Il costume era completo di cilindro con nastro di seta bianca. Gretchen lo fissò con uno sguardo adorante. Non lo si sarebbe potuto definire altrimenti. La sua espressione era disgustosa, e molto umana. «Volevo conoscere la mia rivale.» Non ero la sua rivale, ma dubitavo che fosse disposta a crederlo. «Ti avevo detto di aspettare fuori per non doverla incontrare. Lo sapevi.» Jean-Claude le scagliò addosso le ultime due parole come sassate. Lei trasalì. «Non avevo cattive intenzioni...» Era quasi una bugia, ma non dissi niente. Avrei potuto riferire a JeanClaude che Gretchen mi aveva minacciata, ma mi sarebbe sembrato, chissà perché, di spettegolare. Si era data parecchio disturbo per incontrarmi da sola, per avvertirmi. Il suo amore per lui era così evidente. Non potevo chiedere a lui di aiutarmi contro di lei. Sciocco, ma vero. E, poi, non mi piaceva essere in debito verso Jean-Claude. «Be', adesso vi lascio soli, fidanzatini...» «Che menzogne ti ha raccontato sul nostro conto?» Le parole di JeanClaude fecero ribollire l'aria. La sua collera fu tale che mi sentii soffocare. Lei cadde in ginocchio, con le mani sollevate, non per proteggersi dai colpi, ma in un gesto implorante. «Ti prego... Volevo soltanto vederla, conoscere la mortale che vuole rubarti a me.» Non avrei voluto assistere a quella scena, ma fu come un incidente stradale. Non riuscii ad andarmene. «Non può rubarti nulla. Io non ti ho mai amata.» Il viso di Gretchen era così stravolto dal dolore che, nonostante il trucco, cominciò a sembrare meno umano, si smagrì, e l'ossatura spiccò come se la pelle si raggrinzisse. Jean-Claude l'afferrò per un braccio e la mise rudemente in piedi, conficcandole nel braccio le dita guantate di bianco. Se fosse stata umana, le sarebbero rimasti i lividi. «Attenta, donna. Stai perdendo il controllo.» Le labbra di lei si assottigliarono a scoprire le zanne. Sibilò, liberandosi della sua presa, poi si coprì il viso con le mani, quasi trasformate in artigli. Mi era già capitato di vedere vampiri che rivelavano la loro vera forma, ma mai involontariamente e mai in pubblico, dove chiunque avrebbe potuto assistere. «Io ti amo...» Sebbene soffocate e distorte, le parole furono pronunciate con un sentimento molto vero, molto... umano. «Vatti a nascondere, prima di calunniare tutti noi», replicò Jean-Claude.
Lei espose alla luce il viso, che non aveva più nulla di umano. La pelle pallida splendeva di luce propria, ricoperta dallo strato di trucco come da una crosta. La cipria, l'ombretto e il rossetto sembravano galleggiare sulla luce, come se la pelle non li assorbisse più. Quando girò la testa, vidi le mascelle come ombre attraverso la pelle. «Fra noi non è finita, Anita Blake.» Le parole uscirono attraverso le zanne e i denti. «Lasciaci!» ordinò Jean-Claude, in un sibilo echeggiante. Lei si lanciò verso il cielo, non con un balzo, non levitando, ma semplicemente innalzandosi, e scomparve nell'oscurità con una folata di vento. «Cristo santo...» sussurrai. «Mi dispiace, ma petite. L'avevo mandata fuori proprio perché tutto questo non accadesse...» Jean-Claude mi si avvicinò, avvolto nel suo elegante mantello. Quando un colpo di vento gelido girò l'angolo ululando, fu costretto ad afferrarsi il cilindro. Era bello sapere che almeno gli indumenti non ubbidivano a ogni suo minimo capriccio. «Devo andare. La polizia mi sta aspettando.» «Non volevo che succedesse questo, stanotte.» «Tu non vuoi mai che succeda niente, Jean-Claude, ma comunque succede.» Sollevai una mano per impedirgli di ribattere. Non volevo più sentire una sola parola. «Devo andare.» Mi girai e m'incamminai verso la mia auto. Quando fui al sicuro, sul lato opposto della strada gelata, trasferii la pistola dalla tasca alla fondina. «Mi spiace, ma petite...» Mi girai per mandarlo all'inferno, ma non era più lì. Il lampione illuminava soltanto il marciapiede deserto. 7 Poco prima di imboccare la Highway 44, sulla destra s'intravedono vecchie case maestose. Sono nascoste dietro un recinto in ferro battuto e un cancello di sicurezza. All'epoca in cui furono costruite erano il massimo dell'eleganza, come lo era il quartiere. Adesso sono un'isola nella marea montante delle case popolari, dove ragazzini dagli occhi spenti si sparano per un paio di scarpe usate. Ma i vecchi ricchi sono rimasti, decisi a vivere nel lusso a costo della vita. A Fenton, la fabbrica Chrysler è ancora quella che offre più lavoro. La statale passa tra fast food e negozi, ma l'autostrada li evita tutti, correndo
via diritta senza guardarsi indietro. L'edificio della Maritz è caratterizzato da un enorme passaggio pedonale coperto che attira l'attenzione come un corteggiatore troppo aggressivo, ma conosco di fama gli architetti, mentre non posso dire lo stesso di quelli che hanno progettato molti altri fabbricati lungo la 44. Talvolta lo stile aggressivo funziona. I monti Ozark s'innalzano su entrambi i lati della strada coi loro profili morbidi e arrotondati. Nei bei giorni d'autunno, con gli alberi che ardono di colori sgargianti, i monti sono di una bellezza sbalorditiva. In quella fredda notte di dicembre, invece, con la sola compagnia dei fari dell'auto, mi sembrarono giganti addormentati ai lati della strada. La neve scarsa biancheggiava fra gli alberi spogli. Le sagome nere dei sempreverdi erano ombre eterne alla luce della luna. Lo squarcio bianco di una cava sfigurava un versante. Alla base dei monti si annidavano le case. Fattorie pulite con le verande costruite soltanto per oziarci. Case non altrettanto pulite in legno grezzo, coi tetti di lamiera rugginosa. Recinti in mezzo a campi deserti senza una fattoria nei pressi. Un cavallo solitario stava a testa china nel freddo gelido a cercare di pascolare l'erba avvizzita dall'inverno. Sapevo che un sacco di gente teneva cavalli dalle parti di Eureka. Era gente che non poteva permettersi di vivere a Ladue o a Chesterfield, dove le case costavano più di mezzo milione, però erano complete di stalle e recinti. Invece lì avevano soltanto una tettoia, un recinto e parecchie miglia di viaggio per andare a controllare il cavallo, ma almeno si aveva la possibilità di tenerne uno. Bisognava affrontare un sacco di guai per avere un cavallo. Il bianco di un cartello stradale lampeggiò alla luce dei fari. Rallentai. Un'auto aveva sbattuto contro il palo, spianandolo come uno stelo, e il cartello, inclinato a sessanta gradi, era difficile da leggere. Probabilmente era per quello che Dolph mi aveva detto di cercare un cartello abbattuto, anziché il nome della strada. Svoltai in una strada stretta. A St. Louis erano caduti circa dieci centimetri di neve. Lì sembrava che ce ne fossero più del doppio. La strada, dove lo spazzaneve non era passato, saliva ripida e tortuosa fra le colline. Le ruote delle auto avevano scavato nella neve solchi come quelli dei carri. Se le macchine della polizia erano riuscite a salire in cima alla collina, poteva farcela anche la mia Jeep. Certo che, se avessi avuto ancora la mia vecchia Nova, avrei rischiato di trovarmi a brancolare nella neve fresca coi tacchi alti. In verità, avevo un paio di Nike nel bagagliaio, ma le scarpe da jogging non sarebbero state un gran miglioramento. Forse avrei dovuto decidermi a comprare un paio di stivali.
Di solito non nevicava così tanto a St. Louis. Quella era la più grossa nevicata che avessi visto negli ultimi quattro anni. Quindi gli stivali non erano poi così necessari. I rami nudi degli alberi si curvavano sulla strada, ondeggiando alla luce dei fari, come pure i tronchi umidi e freddi. In estate la strada sarebbe stata una specie di galleria frondosa, ma adesso sembrava fiancheggiata soltanto da ossa nere che spuntavano dalla neve bianca. Sul crinale della collina c'era un solido muro in pietra. Era alto almeno tre metri, quindi nascondeva efficacemente tutto ciò che stava sul lato sinistro della strada. Doveva essere il monastero. Un centinaio di metri più avanti, una targa era inserita nel muro accanto al cancello irto di punte acuminate. Vi si leggeva ST. AMBROSE MONASTERY in rilievo, metallo su metallo. Una strada laterale seguiva la curva della collina scomparendo alla vista. Proprio di fronte al cancello c'era un vialetto ghiaiato. Sulla destra, le tracce delle auto continuavano a salire nell'oscurità dinanzi a me, svanendo oltre la collina successiva. Se non ci fosse stato il cancello come riferimento, avrei rischiato di non vederle. I fari della Jeep le illuminarono soltanto quando svoltai. Mi chiesi che cosa diavolo ci stesse facendo lassù tanta gente. Be', non era un mio problema. Imboccai il vialetto. I rami graffiarono la vernice smagliante della Jeep come unghie sulla superficie di una lavagna. In vita mia, fino ad allora, non avevo mai posseduto un'auto nuova di zecca. Al primo urto, quando ero passata sopra una lapide nascosta dalla neve, ci ero rimasta veramente male. Comunque, una volta presa la prima botta, non ci si fa più caso... Come no! Il bosco si aprì in un prato di erba alta fino alla cintola, seccata dall'inverno e schiacciata dalla neve, sulla quale si riflettevano i lampeggianti rossi e azzurri che scacciavano l'oscurità. Un confine perfettamente rettilineo separava il prato incolto da quello falciato. In fondo alla strada stava una villa bianca completa di veranda. Come giocattoli abbandonati da un bambino, le automobili erano sparse ovunque. Mi augurai che la strada girasse tutt'intorno alla casa. Altrimenti, le macchine erano parcheggiate sul prato. E nonna Blake aveva sempre odiato chi parcheggiava sul prato. Molti veicoli, inclusa l'ambulanza, avevano il motore acceso e negli abitacoli c'era gente seduta ad aspettare. Ma cosa? Di solito è già stato fatto tutto, quando arrivo io sulla scena del crimine. C'è qualcuno che aspetta che io abbia finito di esaminare il cadavere per portarlo via, ma gli investigatori e la scientifica se ne sono già andati. Insomma, stava succedendo
qualcosa di strano. Mi fermai accanto a un'auto dello sceriffo della St. Gerard County. Un vicesceriffo stava in piedi accanto alla portiera dalla parte del conducente, appoggiato al tettuccio. Distogliendo lo sguardo dal gruppo presso la villa, si girò verso di me, e quello che vide sembrò non piacergli affatto. Un cappello Smokey Bear gli nascondeva il viso, ma lasciava esposte al freddo le orecchie e la nuca. Era pallido e lentigginoso, alto quasi un metro e novanta, con le spalle molto larghe nella scura giubba invernale. Sembrava che fosse nato grande e grosso, e che fosse convinto di essere, per quello, un tipo duro. I capelli chiari, come pure la faccia, la neve e tutto il resto, sembravano alternativamente rossi e azzurri alla luce dei lampeggianti. Smontai dalla Jeep con molta prudenza. Affondai nella neve fredda e umida, che m'impregnò le calze e mi riempì le scarpe. Raggelata, mi aggrappai alla portiera con una stretta mortale. Tacchi alti e neve non vanno d'accordo per niente. E l'ultima cosa che volevo era cadere sul culo davanti all'intero ufficio dello sceriffo della St. Gerard County. Avrei dovuto togliere prima le Nike dal bagagliaio per metterle sul sedile posteriore della Jeep, ma ormai era troppo tardi. Il vicesceriffo avanzò con molta decisione verso di me. Calzava stivali, quindi non aveva problemi con la neve. Si fermò così vicino che allungando un braccio avrebbe potuto toccarmi. Di solito non permettevo agli sconosciuti di avvicinarmisi tanto, ma per indietreggiare avrei dovuto abbandonare la portiera, e poi quello era un poliziotto, e io non avevo nessun motivo di temere la polizia. Giusto? «Qui è in corso un'indagine di polizia, signora. Devo chiederle di andarsene.» «Sono Anita Blake. Collaboro col sergente Rudolph Storr.» «Non è della polizia», disse lui, con assoluta certezza. Il suo tono mi sembrò quasi offensivo. «No, non lo sono.» «Allora se ne deve andare.» «Non può avvertire il sergente Storr che sono arrivata, per favore?» Un po' di cortesia non guasta mai. «Le ho già chiesto educatamente due volte di andarsene. Non me lo faccia ripetere per la terza volta.» Non doveva fare altro che prendermi per un braccio e spingermi dentro la Jeep. Di sicuro non intendevo minacciare a mano armata uno sbirro, in presenza di un sacco di altri sbirri a tiro di pistola. Non volevo farmi sparare, almeno per quella notte. Cosa avrei mai potuto fare? Chiusi la portiera molto lentamente e mi ci
appoggiai. Se fossi stata prudente e se non mi fossi mossa troppo, forse sarei riuscita a non cadere. Altrimenti, avrei potuto attribuire la caduta alla brutalità della polizia, magari. «Ehi! Che sta facendo?» «Per arrivare qui, ho guidato per quarantacinque minuti e ho rinunciato a un appuntamento», dissi, cercando di fare appello alla sua bontà innata. «Mi lasci parlare col sergente Storr. Se lui dirà che me ne devo andare, lo farò.» «Non m'importa niente se è arrivata qui da un altro Stato, magari volando. Le ho detto di andarsene. Subito.» Non possedeva nessuna bontà innata. Quando si protese per afferrarmi, indietreggiai per sfuggirgli, scivolai col piede sinistro sul ghiaccio e caddi col culo nella neve. Il vicesceriffo sembrò piuttosto sorpreso. Senza riflettere, mi offrì una mano per aiutarmi a rialzarmi. Io mi rimisi in piedi aggrappandomi a un paraurti della Jeep e al tempo stesso mi allontanai ulteriormente dal Vicesceriffo Bieco. Lui capì, e le rughe sulla sua fronte si approfondirono. La neve bagnata m'imbrattava la giacca e si scioglieva lungo le gambe. Cominciavo a incazzarmi. Lui girò intorno alla Jeep. Io indietreggiai, aggrappandomi con le mani al veicolo. «Se vuole possiamo anche giocare a nascondino, vicesceriffo, ma io non me ne vado senza prima avere parlato con Dolph.» «Non è il suo sergente quello che comanda qui.» Il vice si avvicinò un po' di più. Indietreggiai ancora. «Allora mi faccia parlare con chi comanda.» «Non c'è bisogno che parli con nessun altro», disse lui. Avanzò rapidamente di tre passi, e io indietreggiai ancora più velocemente. Se avessimo continuato a rincorrerci così, intorno alla Jeep, sarebbe sembrato un film dei fratelli Marx. «Sta cercando di scappare!» «Con queste scarpe? Sta scherzando?» Avevo quasi completato il giro della Jeep, quindi stavamo per tornare al punto di partenza. Voci rabbiose spiccavano sul crepitio di fondo delle radio della polizia. Una di quelle voci sembrava quella di Dolph. Non ero l'unica, dunque, ad avere problemi con la polizia locale. Sembrava però che fossi l'unica a essere rincorsa intorno a una macchina. «Basta!» ordinò il vice. «Si fermi lì!»
«E se non mi fermo?» Lui aprì la fondina e posò la mano sul calcio della pistola. Non fu necessario parlare. Quel tizio era pazzo. Forse sarei riuscita a estrarre prima di lui, però era uno sbirro. Si supponeva che fosse uno dei buoni, e io cercavo di non sparare ai buoni. E poi, non sarebbe stato facile spiegare agli altri sbirri perché avevo sparato a uno dei loro. Di solito si arrabbiavano maledettamente quando succedevano cose del genere. Insomma, non potevo sfoderare la pistola e non potevo scappare. Lottare sembrava fuori discussione. Così, feci l'una cosa che mi venne in mente. «Dolph! Zerbrowski!» gridai. «Portate subito qua i vostri culi!» La discussione animata cessò come se qualcuno avesse premuto un interruttore. Nel silenzio si udirono soltanto i crepitii delle radio. Guardai verso il gruppo, scoprendo che Dolph stava scrutando nella mia direzione. Coi suoi due metri scarsi, torreggiava su tutti quanti. Gesticolai per chiamarlo. Non freneticamente, ma assicurandomi che mi vedesse. Il vicesceriffo sfoderò la pistola. Mi ci volle tutta la forza di volontà che possedevo per non estrarre la mia. Però quel deficiente stava cercando soltanto un pretesto, e io non avevo nessuna intenzione di darglielo. Se mi avesse sparato comunque, mi sarei incazzata a morte. Aveva una 357 Magnum, che va benissimo per la caccia alla balena, ma è decisamente eccessiva per qualunque bersaglio a due gambe... umano. Così mi sentii molto umana nel fissare la canna di quella pistola. Poi alzai lo sguardo al suo viso, che non era più accigliato. Sembrava molto deciso e molto sicuro di sé, come se fosse certo di poter premere il grilletto senza essere colpito. Avrei voluto chiamare di nuovo Dolph, ma non lo feci. L'idiota avrebbe potuto premere il grilletto e io, a quella distanza, con un'arma di quel calibro, sarei stata carne morta. Non potevo fare altro che starmene là nella neve, aggrappata alla Jeep, coi piedi che mi s'intorpidivano poco a poco. Se non altro non mi aveva intimato di alzare le mani. Immagino che non volesse vedermi cadere di nuovo prima che le mie cervella imbrattassero la carrozzeria nuova fiammante. Fu il detective Clive Perry a incamminarsi nella nostra direzione. Il suo viso nero rifletteva la luce come ebano. Era alto, anche se non quanto il dannato vicesceriffo. La sua corporatura snella era avvolta in un soprabito color cammello. Sulla testa portava un cappello dello stesso identico colo-
re. Era un bel cappello, ma non si poteva abbassare abbastanza da coprire le orecchie, come capita con la maggior parte dei bei cappelli. Per tener calde le orecchie bisogna rovinarsi i capelli con uno zuccotto o con un berretto di maglia, e non è molto elegante. Naturalmente, io ero a testa nuda. Non volevo mica rovinarmi l'acconciatura. Dolph aveva ricominciato a gridare contro qualcuno. Non riuscii a distinguere esattamente il colore dell'uniforme del tizio con cui ce l'aveva. Ce n'erano almeno due fra cui scegliere. Intravidi un braccio che gesticolava violentemente. Per il resto, l'uomo era nascosto dagli altri del gruppo. Non avevo mai visto nessuno agitare i pugni davanti alla faccia di Dolph. Quando sei alto quasi due metri e hai un fisico da lottatore, la maggior parte della gente tende ad avere paura di te. E probabilmente fa bene ad averne. «Ms. Blake... Non siamo ancora pronti per lei», disse Perry. Era sempre molto formale. Era una delle persone più cortesi che avessi mai conosciuto. Non alzava mai la voce, lavorava sodo, era sempre molto rispettoso... Che cosa diavolo poteva mai aver fatto per finire nella Spook Squad? La squadra, il cui vero nome era Regional Preternatural Investigation Team, si occupava appunto di tutti i crimini connessi al soprannaturale che avvenivano nella sua giurisdizione. Era una specie di task force speciale permanente. Credo che all'inizio nessuno sperasse che sarebbe riuscita a risolvere i casi da indagare, ma la percentuale dei successi era così elevata che Dolph era stato invitato a tenere lezioni a Quantico. E istruire la sezione dell'FBI che si occupa d'indagini soprannaturali non è una sciocchezza. Osservai di nuovo il vice con la pistola spianata. Di sicuro non avrei distolto lo sguardo una seconda volta. Non pensavo che avrebbe sparato, però non potevo esserne sicura. C'era qualcosa nella sua faccia che mi diceva che era pronto a farlo e che, forse, voleva farlo. Ci sono tipi che quando hanno una pistola in pugno diventano bulli arroganti e violenti. Bulli legalmente autorizzati ad andare in giro armati. «Salve, detective Perry. A quanto pare, il vice e io abbiamo un problema.» «Vicesceriffo Aikensen, come mai impugna la pistola?» Perry parlò in tono morbido e pacato, con una voce capace di convincere un aspirante suicida a scendere da un cornicione o un gruppo di pazzi a rilasciare gli ostaggi. Aikensen girò la testa a guardare Perry. «A nessun civile è permesso ac-
cedere alla scena di un omicidio. Ordini dello sceriffo.» «Non credo che lo sceriffo Titus intendesse ordinarle di sparare ai civili, vicesceriffo.» Di nuovo Aikensen guardò Perry. «Si sta prendendo gioco di me?» Avrei avuto il tempo di sfoderare la pistola. Avevo una gran voglia di conficcargliela nelle costole e di disarmarlo, ma mi comportai bene. Mi dovetti sforzare, è vero, tuttavia non estrassi la pistola. Non ero ancora pronta ad ammazzare quel figlio di puttana. Se si mette mano alle armi, c'è sempre la possibilità che qualcuno finisca stecchito, quindi, se non si vuole uccidere nessuno, non si estrae. È semplice. Ma rimasi ferita profondamente nell'intimo quando il vice si girò di nuovo verso di me, sempre con la 357 puntata. Comunque, il mio ego aveva dovuto sopportare soltanto una batosta dolorosa, fino ad allora, quindi potevo farcela. E così pure il vicesceriffo Aikensen. «Lo sceriffo ha detto che non devo permettere a nessuno, se non al personale di polizia, di varcare il perimetro.» «Perimetro» era una bella espressione tecnica per un tizio tanto stupido. Naturalmente, era un termine militare. Probabilmente erano anni che moriva dalla voglia di usarlo. «Vicesceriffo Aikensen, questa è la nostra esperta nel soprannaturale, Anita Blake.» Lui scosse la testa. «Niente civili senza l'okay dello sceriffo.» Perry si girò a guardare Dolph, e quello che immaginai fosse lo sceriffo. «Lo sceriffo Titus non vuole permettere neppure a noi di avvicinarci al cadavere, vicesceriffo. Quante crede che siano le probabilità che voglia permetterlo a una civile?» Allora Aikensen sorrise in maniera molto spiacevole. «Scarse o nulle.» Mantenne la pistola fermamente puntata contro la mia pancia. Si stava divertendo. «Rinfoderi la pistola, e Ms. Blake se ne andrà», disse Perry. Aprii la bocca per dire: «Col cazzo!» Ma Perry scosse quasi impercettibilmente la testa e io tacqui. Aveva un piano, sicuramente migliore del mio. «Non prendo ordini da nessun detective negro.» «Allora sei geloso», intervenni io. «Cosa?» «Perché lui è detective in una città importante e tu no.» «Non devo ascoltare neanche le tue stronzate, puttana.»
«La prego, Ms. Blake, lasci che me ne occupi io...» «Tu non puoi occuparti di un cazzo», disse Aikensen. «Lei e il suo sceriffo vi state rifiutando di collaborare e vi state comportando in maniera estremamente scortese. Può insultarmi finché vuole, se questo la fa sentire meglio, ma non posso permetterle di minacciare con un'arma una nostra collaboratrice.» Allora Aikensen cambiò espressione. Vidi che la fiammella del pensiero si accendeva debolmente in lui. Anche Perry era uno sbirro, probabilmente era armato, e per giunta gli stava alle spalle. Il vice si girò di scatto, sollevando la pistola, e la sua mano si contrasse. Io sfoderai la Browning. Perry teneva le braccia e le mani aperte per mostrarsi disarmato. Aikensen ansimava rumorosamente. Con calma, senza fretta, gli puntò alla testa la Magnum impugnata a due mani. Qualcuno si accorse di noi e gridò: «Che cazzo sta succedendo?» Era ora! Puntai la pistola alla schiena del vicesceriffo. «Fermo, Aikensen, o ti faccio saltare la testa.» «Non sei armata.» Arretrai il cane con un clic. Se si usa un'arma a doppia azione non è necessario farlo prima di aprire il fuoco, ma lo scatto fa sempre un bell'effetto drammatico. «Ricordi, testa di cazzo? Non mi hai perquisita.» Intanto, parecchia gente iniziò ad accorrere gridando, ma non sarebbe mai arrivata in tempo. Era una faccenda soltanto fra noi tre, in attesa sulla neve psichedelica. «Posa l'arma, Aikensen. Subito.» «No.» «Posala o ti ammazzo.» «Anita, non c'è bisogno di sparare. Non sono in pericolo», disse Perry. Era la prima volta che mi chiamava per nome. «Non mi serve la protezione di un negro.» Aikensen contrasse i muscoli delle spalle. Non vedevo abbastanza bene le sue mani per esserne sicura, ma pensai che stesse per premere il grilletto, così cominciai a premerlo anch'io. Una voce possente gridò: «Aikensen! Posa quella dannata pistola!» Subito Aikensen puntò l'arma al cielo. Non aveva avuto nessuna intenzione di premere il grilletto. Era soltanto nervoso. E per quello avevo rischiato di ammazzarlo. Sentii che una risatina mi si formava in gola. La
soffocai, deglutendo, e allentai la pressione sul grilletto. Si rendeva conto, il Vicesceriffo Imbecille, di quanto era andato vicino a lasciarci la pelle? L'unica cosa che lo aveva salvato era il grilletto della Browning: non era eccessivamente sensibile. Là intorno, però, c'erano un sacco di armi che sparavano alla pressione più lieve. Aikensen si girò verso di me, con la pistola in pugno, ma senza puntarmela contro. Io invece lo tenevo ancora sotto mira. Così, cominciò ad abbassare la 357 per ricambiarmi. «Se l'abbassi di un altro centimetro, ti ammazzo.» «Aikensen! Ti ho detto di posare quella dannata pistola, prima che qualcuno finisca morto ammazzato!» L'uomo che aveva parlato era alto circa un metro e settanta e doveva pesare quasi novanta chili. Sembrava una salsiccia con braccia e gambe. La giubba invernale stentava a contenere il suo stomaco rotondo. Una barba rada, grigia e corta gli decorava il doppio mento. Gli occhi erano piccoli, quasi inghiottiti dalla ciccia. Sul petto gli scintillava un distintivo. Non lo aveva lasciato sulla camicia, sotto la giubba. Voleva essere certo che non sfuggisse ai poliziotti di città. Era un po' come aprirsi la cerniera delle brache per mostrare alla compagnia di essere ben dotati. «Questo negro...» «Non tolleriamo questo tipo di linguaggio, vice. Lo sai.» Dalla faccia di Aikensen, si sarebbe pensato che lo sceriffo gli aveva appena rivelato che Babbo Natale non esisteva. Avrei scommesso che lo sceriffo era un bravo ragazzo all'antica della peggior specie, ma almeno dietro quei suoi occhietti luccicanti c'era un'intelligenza, cosa che era più di quanto non si potesse dire per Aikensen. «Mettila via, ragazzo. È un ordine.» L'accento meridionale dello sceriffo divenne più marcato, o per fare spettacolo o per rimproverare severamente Aikensen. Capita a un sacco di gente che l'accento divenga più marcato sotto stress. Comunque non aveva un accento del Missouri. Doveva essere originario di uno Stato più a sud. Alla fine, con riluttanza, Aikensen rinfoderò la pistola, ma senza richiudere la fondina. Andava in cerca di guai. Quanto a me, ero contenta di non essere stata io a darglieli. Se avessi premuto il grilletto prima che lui avesse sollevato la pistola al cielo, non avrei mai scoperto che non aveva avuto intenzione di sparare. Ma se noialtri fossimo stati tutti quanti sbirri, e Aikensen un criminale, la faccenda si sarebbe risolta in tutt'altra maniera. Lo sceriffo Titus ficcò le mani nelle tasche della giacca e mi guardò.
«Adesso, può mettere via la pistola anche lei. Il nostro Aikensen non sparerà a nessuno.» Mi limitai a fissarlo, con la pistola puntata al cielo, impugnata senza stringere. Avevo avuto tutte le intenzioni di rinfoderare la Browning, prima che lui mi esortasse a farlo. Non mi piace granché che mi si dica quello che devo fare. Così, mi limitai a fissarlo. La sua espressione rimase cordiale, ma i suoi occhi persero lo scintillio. Si arrabbiò, perché non gli piaceva per niente essere sfidato. Fantastico! Era proprio la mia notte! Altri tre vicesceriffi si radunarono alle spalle di Titus. Sembravano tutti ostili e pronti a fare qualunque cosa lo sceriffo avesse ordinato loro. Aikensen si avvicinò ai colleghi, con la mano sospesa sulla rivoltella appena rinfoderata. Certa gente non impara mai. «Anita, metti via la pistola...» La voce tenorile di Dolph, solitamente gradevole, suonò aspra di rabbia. Sembrava che avesse voglia di dirmi di sparare al figlio di puttana, ma che si trattenesse perché altrimenti sarebbe stato piuttosto difficile spiegare l'accaduto ai superiori. Anche se ufficialmente non era il mio capo, lo ascoltavo sempre. Se lo era guadagnato. Così, rinfoderai la Browning. Dolph era composto di angoli smussati. Portava i capelli scuri molto corti, che lasciavano le orecchie esposte al freddo. Teneva le mani affondate nelle tasche di un lungo trench nero. Sembrava un po' troppo leggero per la stagione, ma forse aveva un interno caldo e pesante, anche se lui era un po' troppo grosso perché quel soprabito potesse contenere qualcos'altro, oltre al suo corpaccione. Con un cenno, chiamò in disparte Perry e me, poi disse sottovoce: «Raccontatemi che cosa è successo». Lo facemmo. «Credete davvero che avesse intenzione di sparare?» Perry fissò per un momento la neve calpestata, poi sollevò lo sguardo. «Non ne sono sicuro, sergente.» «Anita?» «Ero convinta che stesse per farlo, Dolph.» «Però adesso non ne sei più tanto sicura...» «L'unica cosa di cui sono sicura è che stavo per sparargli. Non era una minaccia vana, Dolph. Ma che diavolo sta succedendo? Se stanotte devo proprio finire per far fuori uno sbirro, mi piacerebbe almeno sapere per-
ché.» «Credevo che nessuno sarebbe stato tanto stupido da metter mano alle armi», disse Dolph. Curvò le spalle, tendendo il tessuto del trench. «Be', non guardare», dissi, «ma il vicesceriffo Aikensen tiene ancora la mano sulla pistola. Sta morendo dalla voglia di sfoderarla un'altra volta.» Dolph inspirò profondamente attraverso il naso ed espirò rumorosamente dalla bocca. «Andiamo a parlare con lo sceriffo Titus.» «Abbiamo già parlato con lui per più di un'ora», disse Perry. «Non ci ascolta.» «Lo so, detective, lo so...» Dolph continuò a camminare verso lo sceriffo e i suoi vice, che aspettavano. Perry e io lo seguimmo. Cos'altro avremmo potuto fare? E poi, volevo sapere perché tutti coloro che si trovavano sulla scena del crimine se ne stavano a rigirarsi i pollici senza far niente. Perry e io ci collocammo ai fianchi di Dolph come sentinelle. Senza riflettere, ci fermammo tutti e due un passo dietro di lui. Dopotutto, era il nostro capo. Però quella sottomissione istintiva all'autorità m'irritò e mi fece venir voglia di fare un passo avanti soltanto per dimostrare che non ero inferiore a nessuno. D'altronde, ero una civile, quindi non ero uguale ai poliziotti. Per quanto collaborassi, non appartenevo alle forze dell'ordine. Era quella la differenza. Aikensen stringeva la mano intorno al calcio della pistola. Era davvero pronto a minacciarci tutti quanti? Di sicuro, neppure lui poteva essere tanto stupido. Mi fissava, e il suo sguardo non esprimeva altro che rabbia. Be', si, forse era davvero tanto stupido. «Titus, di' al tuo uomo di allontanare la mano dalla pistola», intimò Dolph. Titus lanciò un'occhiata ad Aikensen, poi sospirò. «Aikensen, allontana quella dannata mano da quella dannata pistola.» «È una civile! Ha minacciato un poliziotto!» «Sei fortunato che non ti abbia sparato in culo», disse Titus. «Adesso richiudi quella fondina e datti una calmata, altrimenti ti rimando a casa.» Il suo viso divenne ancora più torvo, però richiuse la fondina e affondò le mani nelle tasche del giubbotto. Se non aveva una Derringer in tasca, potevamo stare tranquilli. Ma naturalmente era proprio il tipo di rozzo fanatico che porta sempre un'arma di scorta. In verità lo faccio anch'io, qualche volta, ma soltanto se la situazione è davvero pericolosa. Si udì un rumore di passi nella neve alle nostre spalle. Mi girai parzialmente per vedere chi stava arrivando senza perdere d'occhio Aikensen.
Tre persone in uniforme blu si affiancarono a noi. Il tizio alto che precedeva gli altri aveva sul cappello un distintivo che diceva CAPO DELLA POLIZIA. Uno dei suoi vice era alto, tanto magro da sembrare macilento, e troppo giovane per avere bisogno di radersi. Il secondo vice era, sorpresa sorpresa, una donna. Di solito sono io l'unica donna sulla scena del crimine. Quella era poco più alta di me, cioè bassa, coi capelli corti nascosti dal cappello Smokey Bear. L'unica cosa che riuscii a osservare alla luce dei lampeggianti fu che tutto in lei era pallido, dagli occhi ai capelli. A suo modo, come una fatina, era carina. Se ne stava a gambe divaricate, con le mani sul cinturone. Portava una pistola un po' troppo grossa per le sue mani. Avrei scommesso che non le sarebbe piaciuto per niente essere definita «carina». Poteva essere un altro rompiballe, come Aikensen, oppure uno spirito affine. Il capo della polizia aveva almeno vent'anni più di ciascuno dei suoi due vice. Era alto, ma non quanto Dolph. D'altronde, chi mai lo era? Aveva baffi brizzolati, occhi chiari e una bellezza rude. Era uno di quegli uomini che possono non essere molto attraenti da giovani, ma il cui viso, con l'età, acquista carattere e profondità, come Sean Connery, che era più bello a sessant'anni di quanto non lo fosse stato a venti. «Titus, perché non lasci che questa brava gente faccia il suo lavoro? Siamo tutti quanti stanchi, infreddoliti e abbiamo voglia di tornare a casa.» Gli occhietti di Titus si ravvivarono avvampando come una fiamma. Contenevano parecchia collera. «Questa è una faccenda che riguarda la contea, Garroway, non la città. Tu e la tua gente siete fuori della vostra giurisdizione.» «Holmes e Lind stavano andando al lavoro quando la radio ha diffuso la notizia della scoperta di un cadavere», disse Garroway. «Il tuo Aikensen ha detto di essere così impegnato, che avrebbe impiegato almeno un'ora ad arrivare. Così Holmes si è offerta di sorvegliare il cadavere e di garantire che la scena del crimine non fosse contaminata. I miei vice non hanno toccato niente e non hanno fatto niente. Hanno soltanto protetto la scena del crimine per la tua gente. Che cosa c'è di male, in questo?» «Il cadavere è stato trovato sul nostro territorio. Spetta a noi occuparcene, e non abbiamo bisogno di nessun aiuto», replicò Titus. «Senza contare che tu non avevi nessun diritto di chiamare la Spook Squad senza prima avvertirmi.» Garroway allargò le mani come per invitarlo a stare alla larga. «Holmes
ha visto il cadavere e li ha chiamati perché ha pensato che l'uomo non fosse stato ucciso da niente di umano. Il protocollo impone di chiamare la Regional Preternatural Investigation Team ogni volta che si sospettano attività soprannaturali.» «Be', i nostri Aikensen e Troy non credono che sia niente di soprannaturale. Un cacciatore finisce divorato da un orso e questa tua signorina tira fuori la pistola.» Holmes aprì la bocca, ma il capo sollevò una mano. «Va tutto bene, Holmes.» Lei tacque, ma non ne fu per niente contenta. «Perché non chiediamo al sergente Storr che cosa ne pensa?» disse Garroway. Ero abbastanza vicina a Dolph per sentirlo sospirare. «La tua agente non aveva nessun diritto di lasciare avvicinare qualcuno al cadavere in nostra assenza», ribadì Titus. «Signori, nel bosco c'è un cadavere e la scena del crimine non resta indenne. Standocene qui a discutere stiamo perdendo prove preziose», intervenne Dolph. «L'aggressione di un orso non è una scena del crimine, sergente», disse Titus. «Ms. Blake è la nostra esperta di soprannaturale. Se lei dice che è stato un orso, allora ce ne torniamo tutti a casa. Se invece dice che è un omicidio soprannaturale, allora facciamo il nostro lavoro e la consideriamo una scena del crimine. D'accordo?» «Ms. Blake? Ms. Anita Blake?» Dolph annuì. Titus mi scrutò, come per cercare di mettermi a fuoco. «Lei è la Sterminatrice?» «Già, così mi chiama qualcuno.» «E questa piccina avrebbe ammazzato più di una dozzina di vampiri?» Nella voce dello sceriffo si mescolarono incredulità e derisione. Scrollai le spalle. In verità ne avevo eliminati parecchi di più, ma in molti casi illegalmente. Non era qualcosa che volevo far sapere alla polizia. I vampiri hanno i loro diritti, ed eliminarli senza autorizzazione è omicidio. «Sono la sterminatrice di vampiri legalmente autorizzata della regione. Questo le crea forse qualche problema?» «Anita...» supplicò Dolph. Gli lanciai un'occhiata, poi guardai di nuovo lo sceriffo. Ero decisa a non
dire nient'altro, davvero. Ma lui mi provocò. «Non riesco proprio a credere che una cosuccia come lei possa aver fatto tutto quello che ho sentito raccontare.» «Senta, fa freddo ed è tardi... Mi lasci esaminare il cadavere, così poi ce ne andiamo tutti quanti a casa.» «Non ho nessun bisogno che una donna, una civile, mi dica come devo fare il mio lavoro.» «Ah, sì?» dissi. «Anita...» ripeté Dolph. Con una sola parola mi esortò a non dirlo, a non farlo, o tutt'e due. «Abbiamo già leccato abbastanza culi giurisdizionali per una notte sola, Dolph.» In quel momento arrivò un uomo che portava un vassoio di tazze fumanti, e il profumo del caffè si mescolò a quello della neve. L'uomo era alto. Insomma, in giro c'erano un sacco di tipi alti, quella notte. Una ciocca di capelli biondi, molto chiari, gli copriva un occhio. Portava occhiali dalla montatura metallica rotonda che rendevano il suo viso più giovane di quanto già non fosse. Uno zuccotto scuro era abbassato per coprirgli le orecchie. Indossava guanti molto spessi, un parka multicolore, jeans e scarpe da trekking. Non si curava di essere elegante, ma di proteggersi dal freddo. Quanto a me, avevo i piedi già intorpiditi, perciò fui ben lieta di prendere una tazza di caffè. Se dovevamo proprio star là fuori a discutere, qualcosa di caldo era una grande idea. «Grazie.» L'uomo sorrise. «Di nulla.» Ognuno prese una tazza, ma non tutti ringraziarono. Dove avevano lasciato l'educazione? «Sono sceriffo di questa contea da prima che lei nascesse, Ms. Blake. È la mia contea. Non ho bisogno dell'aiuto di gente come lei.» Lo sceriffo sorseggiò il caffè. Era uno di quelli che avevano ringraziato. «Gente come me? E questo che cosa vorrebbe dire?» «Lascia perdere, Anita.» Alzai lo sguardo verso Dolph. Non volevo lasciar perdere. Sorseggiai il caffè. Bastava il profumo a farmi sentire meno arrabbiata e più rilassata. Fissai Titus negli occhietti porcini, e sorrisi. «Che c'è di tanto buffo?» chiese lui. Aprii la bocca per rispondere: «Lei», ma l'uomo del caffè mi precedette.
«Sono Samuel Williams, il custode della proprietà. Vivo nella casetta dietro il Nature Center. Sono stato io a trovare il cadavere.» E posò al suolo il vassoio vuoto. «Mr. Williams, io sono il sergente Storr, e questi sono i miei collaboratori, il detective Perry e Ms. Blake.» Williams ci salutò con un cenno della testa. «Quanto a noi, Samuel, ci conosci tutti», disse Titus. «Sì, infatti», disse Williams, che non sembrava troppo entusiasta di conoscerli tutti. Poi, di nuovo con un cenno della testa, salutò il capo Garroway e i suoi vice. «Ho detto al vicecapo Holmes che non credevo che fosse stato un animale. Continuo a non crederlo, ma, se è stato un orso, allora ha massacrato quell'uomo. E qualunque belva in grado di fare una cosa del genere, la farà di nuovo, senz'altro.» Abbassò lo sguardo alla neve, poi lo sollevò di nuovo, come se riemergesse da acque profonde. «Ha parzialmente divorato quell'uomo. Gli ha teso un agguato e lo ha aggredito, come se fosse una preda qualsiasi. Se davvero è stato un orso, allora bisogna catturarlo prima che uccida qualcun altro.» «Il nostro Samuel è laureato in biologia», spiegò Titus. «Anch'io», dissi. Naturalmente la mia laurea era in biologia soprannaturale, ma dopotutto la biologia è pur sempre biologia. Giusto? «Sto lavorando al dottorato», disse Williams. «Già. Studia la merda di civetta», commentò Aikensen. Non ne fui del tutto sicura perché era difficile a dirsi, ma Williams, credo, arrossì. «Sto studiando le abitudini alimentari della Strix varia.» Sono laureata in biologia, quindi sapevo che cosa significava. Raccoglieva ed esaminava merda di strige e cibo rigurgitato. Dunque Aikensen aveva ragione, in un certo senso. «È un dottorato in ornitologia o una specializzazione sugli Strigidi?» chiesi, fiera di me stessa perché ricordavo la terminologia scientifica. Williams mi guardò con un lampo di fratellanza nello sguardo. «Ornitologia.» Titus aveva l'espressione di chi avesse appena inghiottito un verme. «Non ho bisogno di nessuna laurea per saper riconoscere l'aggressione di un orso quando ne vedo una.» «L'ultimo avvistamento d'orso di cui si abbia notizia nella St. Gerard County risale al 1941», disse Williams. «E credo che non sia mai stata riferita nessuna aggressione da parte di un orso.» L'implicazione era evidente. Come poteva Titus saper distinguere l'ag-
gressione di un orso da quella di un orco se non ne aveva mai vista nessuna? Titus rovesciò il caffè nella neve. «Stammi bene a sentire, studentello...» «Può darsi che sia stato davvero un orso», disse Dolph. Tutti lo guardammo. Titus annuì. «È appunto quello che sto cercando di spiegarvi.» «Allora le conviene far arrivare un elicottero e una muta di cani.» «Di che diavolo sta parlando?» «Una belva che ha fatto a pezzi un uomo e poi lo ha divorato potrebbe anche aggredire un'abitazione. Quell'orso potrebbe massacrare parecchia altra gente.» Dolph era impenetrabile, serio come se credesse davvero a quello che stava dicendo. «Un momento... Non voglio nessuna muta di cani, qui. Si scatenerebbe il panico se la gente pensasse che un orso inferocito si aggira per le colline. Ricorda che sembravano tutti impazziti quando scappò quel puma addomesticato, circa cinque anni fa? Sparavano anche alle ombre.» Dolph si limitò a guardarlo. Tutti noi lo guardavamo. Se era un orso, doveva comportarsi di conseguenza. Altrimenti... A disagio, con gli stivali affondati nella neve, Titus cambiò posizione. «Forse Ms. Blake dovrebbe andare a dare un'occhiata.» Si massaggiò la punta del naso infreddolito. «Non vogliamo mica che si scateni il panico per i motivi sbagliati...» Non voleva che la gente credesse che ci fosse un orso assassino in libertà, ma non lo preoccupava che la gente credesse che ci fosse un mostro in libertà. O forse lo sceriffo Titus non credeva ai mostri. Forse... Comunque, ci apprestammo a recarci sulla scena del crimine o, meglio, la possibile scena del crimine. Feci aspettare tutti per mettermi le Nike e la tuta che indosso sempre prima di esaminare la scena del crimine, o prima di trafiggere i vampiri col paletto. Detesto insanguinarmi i vestiti. E, poi, quella notte la tuta mi avrebbe tenuta più calda delle calze. Quando Titus ordinò ad Aikensen di restare accanto ai veicoli, mi augurai che durante la nostra assenza non sparasse a nessuno. 8 Sulle prime non vidi il cadavere, ma soltanto neve, che si era ammassata in uno di quei canaloni che si trovano nei boschi e che in primavera si riempiono di pioggia e di fango, in autunno di foglie e in inverno di neve.
La luce della luna scolpiva ogni traccia, ogni minimo segno, accentuandone il rilievo. Ogni impronta si riempiva, come una coppa, di ombre azzurre. Al bordo della radura mi fermai a guardare la confusione di orme. In quel guazzabuglio c'erano le tracce dell'assassino o dell'orso, ma, a meno che non si fosse trattato di un animale, non riuscivo a immaginare come fosse possibile individuare quelle significative. Forse tutte le scene del crimine erano sempre così confuse, e in quel caso la neve lo rendeva solo evidente. O forse la scena era stata notevolmente inquinata. Tutte le tracce, non soltanto quelle lasciate dagli sbirri, conducevano al cadavere. Dolph aveva detto che era stato fatto a pezzi e divorato. Ebbene, io non avevo nessuna voglia di vederlo. Stavo passando un periodo molto bello con Richard. Anche la serata era stata bella. Non era giusto concluderla esaminando cadaveri smangiucchiati. D'altronde, era probabile che anche il defunto pensasse che essere divorati non fosse granché divertente. Inspirai profondamente l'aria fredda. Quando espirai, il mio fiato si condensò in una nebbiolina. Non riuscivo a fiutare il cadavere. Se fosse stata estate, sarebbe stato già in putrefazione, quindi... Viva il freddo! «Ha intenzione di esaminare il cadavere da qui?» chiese Titus. «No», risposi. «Sembra che la sua esperta stia perdendo il sangue freddo, sergente.» Mi girai verso Titus. Il suo viso rotondo, col doppio mento, era arrogante e compiaciuto. Non avevo nessuna voglia di vedere il cadavere, è vero, ma perdere il mio sangue freddo... Mai! «Si auguri che non sia la scena di un omicidio, sceriffo, perché è stata dannatamente compromessa.» «Così non sei d'aiuto, Anita», mormorò Dolph. Aveva ragione, ma non ero sicura che me ne fregasse qualcosa. «Ha qualche suggerimento su come preservare la scena del crimine, o posso semplicemente andare a pestare dappertutto come i cinquanta milioni di persone che mi hanno preceduta?» «C'erano soltanto quattro serie d'impronte quando mi è stato ordinato di lasciare il posto», disse il vicecapo Holmes. Titus la guardò, accigliato. «Una volta stabilito che si era trattato dell'aggressione di un animale, non c'era più motivo di preservarla.» Di nuovo il suo accento meridionale divenne più marcato. «Magnifico...» Guardai Dolph. «Qualche suggerimento?»
«Vai pure. Non credo che sia rimasto granché da salvaguardare.» «Sta forse criticando i miei uomini?» chiese Titus. «No», rispose Dolph. «Sto criticando lei.» Mi girai per impedire a Titus di vedermi sorridere. Dolph non amava gli imbecilli. Li sopportava più a lungo di me, ma, quando arrivava al suo limite, conveniva correre a nascondersi, perché nessun culo burocratico veniva risparmiato. Scesi nel canalone. Dolph non aveva bisogno del mio aiuto per servire a Titus la sua stessa testa su un piatto. Sul ciglio del canalone la neve crollò, io scivolai sulle foglie sottostanti e per la seconda volta, quella notte, finii col culo al gelo. Ma ero su un pendio, così precipitai fino al cadavere, inseguita dalle risate. Rimasi seduta nella neve a fissare il cadavere. Avevano tutto il diritto di ridere del mio scivolone. Era divertente. Il cadavere, però, non lo era affatto. Giaceva sulla schiena, nella luce della luna che, riflessa dalla neve, illuminava tutto a giorno. La sottile torcia elettrica che avevo nella tasca della tuta non mi serviva. O forse non volevo usarla, perché vedevo abbastanza, per il momento. Alcuni squarci slabbrati straziavano il lato destro del viso. Un artiglio aveva spaccato la fronte, spargendo sangue e pezzi di bulbo oculare sulla guancia. La mascella era schiantata come se fosse stata afferrata e stritolata da una mano enorme. Il volto aveva un aspetto incompiuto, come se ne mancasse metà. Era una ferita che doveva essere stata maledettamente dolorosa, ma non letale. La gola era stata squarciata, e quella era stata probabilmente la ferita mortale. La carne era stata strappata e la spina dorsale biancheggiava opaca, come se il poveretto avesse inghiottito un fantasma e non fosse riuscito a digerirlo. La tuta mimetica era tagliata in corrispondenza dello stomaco. Un rivolo di luce lunare creava un'ombra densa all'interno di quel tessuto lacerato. Non riuscivo a vedere che genere di danno fosse stato inflitto al ventre, ma dovevo. Preferisco esaminare i cadaveri di notte perché l'oscurità attenua i colori. In qualche modo, sembra tutto meno reale. Basta illuminare il cadavere e i colori esplodono: il sangue è cremisi; le ossa luccicano; i fluidi non sono semplicemente scuri, ma verdi, gialli, marroni. La luce permette di differenziare, oppure, nel migliore dei casi, concede una miscela indistinta. Infilai i guanti da chirurgo, che divennero una fredda seconda pelle. An-
che se li avevo tenuti in una tasca interna, erano più freddi delle mie mani. Accesi la torcia elettrica sottile come una penna. Il suo piccolo raggio giallastro fu attenuato dall'intensa luce lunare, ma fendette le ombre come un coltello. Gli abiti erano stati rimossi come strati di cipolla: tuta, calzoni, camicia, biancheria termica. La carne era squarciata. Il raggio della torcia scintillò sui pezzi e sui grumi di carne e di sangue congelati. Molti organi interni erano scomparsi. Proiettai la luce sulla neve circostante senza vedere nulla. La carne e gli organi erano svaniti. Dall'intestino, un fluido scuro era filtrato in tutta la cavità, ma era ormai congelato. Quando mi curvai, non fiutai nessun odore. Il freddo è una cosa meravigliosa. I bordi della ferita erano slabbrati. Non era opera di un coltello, a meno che non si trattasse di una lama mai vista prima. Il medico legale avrebbe potuto stabilirlo con certezza. Una costola spezzata sporgeva verticalmente come un punto esclamativo. La illuminai con la torcia. Non recava tracce di artigli, bensì... di denti. Avrei scommesso una settimana di paga che era stata spezzata con un morso. La ferita alla gola era incrostata di neve. Cristalli di ghiaccio rossastro si erano formati sulla faccia. L'occhio che non era stato strappato era coperto da una patina di sangue gelato. I bordi della ferita alla gola rivelavano che era stata prodotta non da artigli, ma da zanne. Anche la mascella frantumata recava evidenti impronte di zanne. Di sicuro, non si trattava di denti umani. Ciò significava che non erano di necrofago, né di vampiro, né di zombie, né di qualunque altro mostro di origine umana. Fui costretta a frugare sotto la tuta per sfilare il metro a nastro dalla tasca. Sarebbe stato più elegante sbottonarla, ma faceva troppo freddo. Le ferite al viso erano state prodotte da artigli più grandi di quelli di un orso, anzi più grandi di quelli di qualunque animale. Mostruosamente grandi. Un morso alla mascella era quasi perfetto, come se il mostro avesse affondato le zanne, ma senza cercare di strappare. Aveva morso per stritolare, per... impedire alla vittima di urlare. Non si può fare molto chiasso, con tutta la parte inferiore del viso spappolata. Quel morso aveva qualcosa di molto deliberato. La gola era squarciata, ma non all'eccesso, non più di quanto bastava per uccidere. Soltanto quando aveva straziato il ventre, il mostro aveva perduto il controllo. In quel momento, però, la vittima era già priva di vita. Ci avrei scommesso. Allora il mostro si era preso tutto il tempo che gli era occorso per divorare lo stomaco. Per cibarsi. Perché? C'era l'impronta di un corpo, vicino al cadavere. Conteneva le tracce di chi vi si era inginocchiato, me inclusa, però la torcia rivelava sangue as-
sorbito dalla neve. La vittima era rimasta a giacere bocconi prima che qualcuno la girasse supina. Le orme dimostravano che quasi ogni centimetro di neve era stato calpestato, tranne le chiazze di sangue. Se può farne a meno, la gente non cammina nel sangue, anche se non si tratta di una scena del crimine. Il sangue, comunque, non era così abbondante come sarebbe stato lecito aspettarsi, visto che tagliare la gola a qualcuno è una faccenda parecchio sanguinolenta. Naturalmente, però, quella gola non era stata tagliata: era stata squarciata dalle zanne di un mostro. Il sangue non era spruzzato sulla neve, bensì nelle fauci. Inoltre aveva intriso i vestiti. Se fossimo riusciti a scovarlo, avremmo scoperto che il mostro era coperto di sangue. La neve invece era sorprendentemente indenne tenuto conto del massacro che era stato commesso. A circa un metro dal cadavere, ma accanto all'impronta del corpo, c'era una densa pozza di sangue. La vittima era stata lasciata lì abbastanza a lungo da sanguinare parecchio, prima di essere girata sullo stomaco, dove era rimasta tanto che il congelamento aveva saldato la pelle alla neve. Altro sangue si era raccolto sotto il cadavere nel periodo in cui era rimasto bocconi. Adesso giaceva supino, e non c'era sangue fresco. La vittima era stata girata per l'ultima volta soltanto quando era morta ormai da parecchio tempo. «Chi ha girato il cadavere?» gridai. «Era così quando sono arrivato», rispose Titus. «Holmes?» chiese il capo Garroway. «Era supino quando siamo arrivati qui.» «Williams ha spostato il cadavere?» «Non gliel'ho chiesto», rispose lei. Magnifico... «Qualcuno lo ha spostato. Sarebbe bene sapere se è stato Williams.» «Vado a chiederglielo», replicò Holmes. «Patterson...» ordinò Titus. «Vai con lei.» «Non ho bisogno...» «Vai, Holmes», intervenne Garroway. I due vice si allontanarono. Ripresi a esaminare il cadavere. Dovevo considerarlo tale, non come una persona. Altrimenti avrei cominciato a chiedermi se avesse lasciato una moglie, qualche figlio, e non volevo saperlo. Era soltanto un cadavere, soltanto carne. Proiettai la luce della torcia sulla neve calpestata, restando quasi carponi,
strisciando sulla neve. Io e Sherlock Holmes. Se il mostro aveva aggredito la vittima alle spalle, doveva essercene qualche traccia nella neve. Forse non un'impronta nitida e integra, ma almeno qualcosa. Trovai soltanto tracce di calzature. Eppure chiunque avesse compiuto quel macello non doveva avere indossato scarpe. Anche se un intero branco di sbirri incompetenti aveva calpestato tutta la scena del crimine, avrei dovuto trovare almeno qualche traccia parziale di artiglio o di zampa. Niente. Forse i ragazzi della scientifica avrebbero avuto maggior fortuna. O almeno lo speravo. Se non c'erano impronte, era possibile che avesse volato? Un gargoyle, forse? E l'unico grosso predatore alato che aggredisce l'uomo, esclusi i draghi, ma non è originario del Paese, e avrebbe fatto un lavoro molto più sporco, o forse più pulito. Un drago avrebbe semplicemente inghiottito la vittima in un solo boccone. I gargoyle attaccano e uccidono gli umani, ma accade di rado. E poi, il branco più vicino era a Kelly, in Kentucky, e apparteneva a una piccola sottospecie che aggrediva gli umani, è vero, però senza mai uccidere, e si nutriva principalmente di carogne. In Francia esistono tre specie di gargoyle di dimensioni equivalenti o superiori a quelle umane. I gargoyle francesi divorano gli uomini. In America, però, non ne sono mai esistiti di così grossi. Di quale altro mostro poteva trattarsi? Sugli Ozark vivevano alcuni piccoli troll orientali, ma non tanto vicino a St. Louis. Comunque, avevo visto le fotografie delle loro vittime e non c'era nessuna corrispondenza. Lo scempio era stato commesso da artigli troppo ricurvi e troppo lunghi. Il ventre sembrava essere stato svuotato da una creatura dotata di muso. Invece i troll, che sono primati, hanno un aspetto molto umano. Un piccolo troll non avrebbe aggredito un uomo, a meno di non esservi costretto. Un grande troll di montagna avrebbe potuto farlo, ma quei troll erano estinti da oltre vent'anni ed erano soliti spezzare gli alberi e servirsene per ammazzare le vittime a bastonate, prima di mangiarle. Insomma, non credevo che avessimo a che fare con un mostro così esotico come un gargoyle o un troll. Se avessi trovato le tracce, avrei avuto la certezza che si fosse trattato di un licantropo. Si sa che i troll indossano indumenti umani, rubati o trovati tra i rifiuti. Dunque un troll avrebbe camminato nella neve, mentre un gargoyle avrebbe volato. E un licantropo? Non potendo usare scarpe, avrebbe camminato a piedi nudi. Dunque? Avrei voluto darmi una manata sulla fronte, ma non lo feci. Far così sul-
la scena del crimine significa insanguinarsi i capelli. Guardai in alto. Gli umani non lo fanno quasi mai. Siamo condizionati da milioni di anni di evoluzione a ignorare il cielo, perché lassù non esistono predatori abbastanza grossi da minacciarci. Ma questo non significa che non ce ne possa essere qualcuno in grado di balzarci addosso da un nascondiglio elevato. Un ramo d'albero si protendeva sopra la valletta. Con la luce della torcia scoprii graffi bianchi recenti sulla corteccia fosca. Un licantropo si era appollaiato lassù in attesa che una preda umana passasse di sotto. Imboscata, premeditazione, omicidio... «Dolph, puoi venire quaggiù un momento?» Con prudenza, Dolph scese il declivio innevato. Immaginai che non volesse ripetere la mia esibizione. «Sai cos'è stato?» «Un licantropo.» «Spiega.» Aveva sfilato di tasca il fido taccuino e teneva la penna fra le dita, pronto a scrivere. Gli spiegai quello che avevo scoperto e le mie conclusioni. «Non ci sono più stati lupi mannari assassini da quando è stata formata la squadra. Sei sicura?» «Sono sicura che è un licantropo, ma non ho detto che è un lupo mannaro.» «Spiega.» «Tutti i lupi mannari sono licantropi, ma non tutti i licantropi sono lupi mannari. I lupi mannari sono affetti da una malattia che si sviluppa quando si sopravvive a un'aggressione, oppure a causa di una dose adulterata di vaccino.» Lui mi guardò. «Si può prendere dal vaccino?» «Succede.» «Buono a sapersi. Come si può essere licantropi e non lupi mannari?» «Molto spesso si tratta di una condizione ereditaria. Lo spirito famigliare protettore assume forma animale: un cane, un felino gigantesco... Nella maggior parte dei casi è di origine europea. Una persona ogni generazione ha i geni e si trasforma.» «La trasformazione è connessa alla luna come nel caso dei lupi mannari?» «No. Lo spirito famigliare protettore si manifesta quando la famiglia ne ha bisogno, in caso di guerra o di minaccia fisica in genere. La trasformazione in cigno è connessa alla luna, ma si tratta di una condizione ereditaria.»
«E basta?» «Può essere anche la conseguenza di una maledizione, però succede molto di rado.» «Perché?» Scrollai le spalle. «Bisogna trovare una strega, o qualcosa del genere, che sia dotata di una magia abbastanza potente da lanciare su qualcuno la maledizione della licantropia. Ho letto gli incantesimi di licantropia individuale. Le pozioni sono così piene di narcotici che puoi credere di essere un animale. Ma potresti anche credere di essere il Chrysler Building oppure morire. I veri incantesimi sono molto più complessi e di solito richiedono un sacrificio umano. La maledizione è a un livello superiore rispetto all'incantesimo. In realtà, non è affatto un incantesimo.» Cercai di trovare un modo per farmi capire, dato che Dolph, in quel campo, era molto ignorante e non conosceva il gergo. «Una maledizione è come un estremo atto di volontà. Raccogli tutto il tuo potere, la tua magia o quello che è, e lo concentri su una sola persona; poi, imponendole la tua volontà, la convinci di essere maledetta. Lo fai sempre di persona, in modo che l'altro sappia che la maledizione è stata effettivamente lanciata. Secondo alcune teorie è necessario che la vittima ci creda perché la maledizione abbia effetto. Ma questa non sono affatto sicura di berla.» «Le streghe sono le uniche che possono lanciare maledizioni?» «Di tanto in tanto qualcuno entra in conflitto con una fata, una delle antiche Daoine sidhe, ma bisogna essere in Europa, cioè in Inghilterra, in Irlanda o in certe zone della Scozia. Qui in America dev'essere una strega.» «Dunque abbiamo a che fare con un licantropo, ma non sappiamo di che tipo e neanche come sia diventato così...» «No. Le poche tracce che sono rimaste non ci permettono di stabilirlo.» «Se incontrassi personalmente il licantropo in forma umana, sapresti dire di che tipo è?» «Quale animale?» «Già.» «No.» «Sapresti dire se è vittima di una maledizione o di una malattia?» «No.» Lui mi fissò. «Di solito te la cavi molto meglio.» «Me la cavo molto meglio coi morti, Dolph. Dammi un vampiro o uno zombie e ti dico anche il suo numero di previdenza sociale. In parte è grazie a un talento naturale, ma in gran parte dipende dall'esperienza. E io non
ho molta esperienza coi licantropi.» «A quali domande puoi rispondere?» «Per scoprirlo, devi chiedere.» «Credi che quello con cui abbiamo a che fare sia licantropo da poco tempo?» «No.» «Perché no?» «La prima volta ci si trasforma nelle notti di luna piena. Adesso è troppo presto per chi è appena diventato licantropo. Potremmo anche avere a che fare con uno che è al secondo o al terzo mese, ma...» «Ma cosa?» «Se si tratta di un licantropo che non è ancora in grado di controllarsi e che uccide indiscriminatamente, dovrebbe essere ancora qui, a caccia.» Dolph guardò intorno nell'oscurità, tenendo il taccuino e la penna con la mano sinistra, in modo da lasciare la destra libera per la pistola. Fu un movimento automatico. «Non sudare, Dolph. Se avesse voluto divorare altra gente, avrebbe assalito Williams o i vice.» Il suo sguardo frugò ancora il buio circostante, prima di tornare su di me. «Dunque è un licantropo in grado di controllarsi?» «Penso di sì.» «Allora perché ha ucciso quest'uomo?» Mi strinsi nelle spalle. «Perché si uccide? Lussuria, avidità, ira...» «Dunque ha usato la sua forma animale come arma per commettere un omicidio.» «Sì.» «È ancora in forma animale?» «Quando ha agito non era completamente trasformato: era per metà lupo e per metà uomo.» «Un lupo mannaro.» Scossi la testa. «Non sono in grado di stabilire quale tipo di animale. Ho detto lupo per fare un esempio. Potrebbe essere un mammifero qualsiasi.» «Soltanto un mammifero?» «Dalle ferite direi di sì. So che esistono uccelli mannari, ma non infliggono ferite di questo genere.» «Esistono anche uccelli mannari?» «Ma non è stato uno di loro.» «Qualche ipotesi?»
Mi accosciai accanto al cadavere e lo fissai, cercando d'indurlo a rivelarmi i suoi segreti. Se avessi aspettato tre giorni, cioè il tempo necessario perché l'anima volasse finalmente via dal corpo, avrei potuto resuscitarlo e interrogarlo a proposito del suo assassino, ma non aveva più la gola, e neppure i morti possono parlare se sono privi del necessario apparato vocale. «Perché Titus aveva pensato a un orso?» chiesi. «Non ne ho idea.» «Chiediamoglielo.» Dolph annuì. «Accomodati pure.» Mi sembrò piuttosto sarcastico. Io stessa, in effetti, se avessi dovuto discutere per ore con lo sceriffo, sarei diventata molto, ma molto sarcastica. «Suvvia, Dolph... Meno di così non possiamo saperne.» «Invece sì, se dipendesse da Titus.» «Vuoi che glielo chieda o no?» «Chiedi, chiedi...» Mi volsi al gruppetto che attendeva sul ciglio del canalone. «Sceriffo Titus!» Lui guardò giù verso di me. Aveva una sigaretta fra le labbra, però non l'aveva ancora accesa. Interruppe il gesto con cui stava per accostare l'accendino alla bocca. «Desidera qualcosa, Ms. Bíake?» La sigaretta oscillò, mentre parlava. «Perché ha pensato che fosse stato un orso?» Lui richiuse l'accendino e con la stessa mano si sfilò la sigaretta dalle labbra. «Perché lo vuole sapere?» Avrei voluto dirgli di limitarsi a rispondere alla mia dannata domanda, ma non lo feci. Un punto per me. «Pura curiosità.» «Non è stato un puma, altrimenti lo avrebbe strapazzato di più con gli artigli.» «Perché non un lupo?» «I lupi cacciano in branco. Questo mi sembrava un predatore solitario.» Fui costretta a concordare con le sue valutazioni. «Credo che lei non ci abbia detto tutto, sceriffo. Sembra che ne sappia parecchio sugli animali che non sono originari della zona.» «Di tanto in tanto vado a caccia, Ms. Blake. Se si vuole prendere la preda, bisogna conoscerne le abitudini.» «Dunque è arrivato all'orso per eliminazione?» «Si potrebbe dire così...» Titus rimise la sigaretta fra le labbra e riaprì
l'accendino. La fiammella guizzò a illuminargli il viso. Quando lo richiuse, l'oscurità sembrò diventare più densa. «E lei che cosa crede che sia, Signora Esperta?» Il fumo della sigaretta si diffuse nell'aria fredda. «Un licantropo.» Anche nel buio sentii il peso del suo sguardo. Soffiò una spettrale nube di fumo verso la luna. «Così crede lei...» «Lo so.» Lo sceriffo sbuffò con una specie di hmm acuto. «È terribilmente sicura di sé, vero?» «Se vuole scendere quaggiù, sceriffo, le mostro quello che ho scoperto.» Lui esitò, poi si strinse nelle spalle. «Perché no?» Con gli stivali pesanti, scese il pendio come un bulldozer, lasciandosi dietro due scie di neve smossa. «Okay, Signora Esperta... Mi sbalordisca!» «Lei è un rompiballe, Titus.» Dolph sospirò, e il suo fiato si condensò in una nuvoletta bianca. Titus giudicò la battuta molto divertente. Ridendo, si curvò in avanti e si picchiò una coscia. «È davvero molto spiritosa, Ms. Blake! E adesso mi dica che cos'ha scoperto.» Lo feci. Lui aspirò profondamente dalla sigaretta, ravvivando la brace nell'oscurità. «Be', credo che non sia stato un orso, dopotutto.» Non aveva intenzione di discutere. Un'autentica benedizione. «No, non è stato un orso.» «Un puma?» chiese, quasi speranzoso. «Sa benissimo che non è stato un puma.» «Un licantropo...» «Già.» «L'ultima volta che un licantropo assassino razziò questa contea fu dieci anni fa...» «Quanti ne uccise?» Lui si riempì i polmoni di fumo, poi lo soffiò fuori lentamente. «Cinque.» Annuii. «Non conosco questo caso. Non avevo ancora cominciato a quell'epoca.» «Faceva le superiori?» «Sì.» Gettò la sigaretta nella neve e la schiacciò sotto uno stivale. «Speravo proprio che fosse un orso...»
«Anch'io.» 9 La notte era fredda e buia. Le due sono un'ora desolata in qualunque stagione, ma a metà dicembre sono il cuore gelido dell'eterna notte. O forse ero semplicemente io a sentirmi scoraggiata. La luce della scala che saliva al mio appartamento brillava come una luna intrappolata. Sospese nella foschia, tutte le luci avevano qualcosa di vagamente irreale. Dato che ero la persona più abile nel distinguere un licantropo da un innocuo imbecille, Titus mi aveva chiesto di restare, nell'eventualità che venisse fermato qualcuno. Sarebbe stato molto meglio che tagliargli una mano per verificare se avesse la pelliccia sul rovescio dell'epidermide. In un caso così, se sbagli, che fai? Ti scusi? Erano state trovate alcune tracce di licantropo che conducevano alla scena dell'omicidio. Erano stati presi i calchi in gesso e io avevo consigliato di mandarne copia alla facoltà di biologia della Washington University. Ero stata tentata di suggerire che la indirizzassero specificamente al dottor Louis Fane, che insegnava biologia in quella università ed era uno dei migliori amici di Richard. Era un tipo simpatico, oltre che un ratto mannaro. Un oscuro e profondo segreto che avrebbe potuto essere messo a repentaglio se avessi cominciato a spedirgli calchi di orme di licantropo. Comunque, visto che sarebbero state indirizzate all'intera facoltà, era garantito che anche Louis le avrebbe viste. Era stato quello il mio maggior contributo, quella notte. Gli uomini dello sceriffo stavano ancora battendo la zona quando me n'ero andata. Avevo il cercapersone acceso. Se avessero trovato un umano nudo nella neve, mi avrebbero chiamata. Se però il cercapersone avesse suonato prima di riuscire a dormire almeno un po', mi sarei incazzata. Quando chiusi la portiera dell'auto, si udì come un'eco. Un'altra portiera fu chiusa rumorosamente. Ero stanca, ma istintivamente esplorai con gli occhi il piccolo parcheggio per individuare l'altro veicolo. A quattro macchine dalla mia, vidi Irving Griswold, infagottato in un parka arancione fosforescente, con una sciarpa a righe intorno al collo. I capelli castani formavano una specie di aureola ricciuta intorno al cocuzzolo calvo. Occhiali tondi erano posati sulla punta del nasino a patata. Sembrava allegro e innocuo, però era un lupo mannaro. Era proprio la notte dei licantropi... Irving era un cronista del St. Louis Post-Dispatch. Di solito, gli articoli
che riguardavano me e l'Animators Inc. portavano la sua firma. Sorrise, incamminandosi verso di me. Il mio cordiale amico cronista. Come no? «Che vuoi, Irving?» «È questo il modo di accogliere chi ha trascorso le ultime tre ore seduto in macchina ad aspettarti?» «Che vuoi, Irving?» Forse, se avessi continuato a ripetere ininterrottamente la domanda, sarei riuscita a sfinirlo. Il sorriso sbiadì sul suo visino rotondo. Assunse un'espressione seria e preoccupata. «Dobbiamo parlare, Anita.» «Ci vorrà molto?» Esitò, come se ci stesse pensando, poi annuì. «Può darsi.» «Allora sali. Preparo un po' di vero caffè.» «Vero caffè, cioè l'opposto di un caffè finto?» Mi avviai verso la scala. «Ti preparo una tazza di caffè così forte che ti cresceranno i peli sul petto.» Lui rise. Mi resi conto di aver fatto una battuta senza volere. Sapevo che Irving era un licantropo e l'avevo già visto in forma di lupo, ma per un attimo lo avevo dimenticato. Era un amico, e non sembrava affatto soprannaturale quando era in forma umana. Sedemmo al tavolo della mia piccola cucina a sorseggiare caffè aromatizzato alla vaniglia. La mia giacca era appesa alla spalliera della sedia, così erano visibili la pistola e la fondina ascellare. «Credevo che avessi un appuntamento, stasera, Blake.» «Lo avevo.» «Gran serata, eh?» «Una ragazza non può mai essere troppo prudente.» Irving soffiò sul caffè prima di sorseggiarlo delicatamente. Aveva lanciato occhiate tutt'intorno, senza lasciarsi sfuggire nessun particolare. Per parecchi giorni avrebbe conservato un ricordo tanto preciso dell'appartamento, che sarebbe stato in grado di descriverlo in ogni dettaglio, fino alle Nike Airs e ai calzini da jogging abbandonati vicino al divano. «Che c'è, Irving?» «Ottimo caffè.» Evitava il mio sguardo. Era un brutto segno. «Cosa c'è che non va?» «Richard ti ha detto niente di Marcus?» «È il vostro capobranco, vero?» Irving parve sorpreso. «Te ne ha parlato?»
«Ho saputo proprio stanotte del vostro Alfa chiamato Marcus. Pare che sia in corso una lotta per la successione e che Marcus voglia la morte di Richard, il quale sostiene di non voler combattere.» «Oh, ha combattuto, eccome», disse Irving. Toccò a me essere sorpresa. «Allora perché non è Richard il capobranco?» «Richard non se l'è sentita di andare sino in fondo. Lo aveva sconfitto, Blake. Lo teneva con gli artigli alla gola.» Irving scosse la testa. «Però ha pensato che, quando Marcus si fosse ripreso, avrebbero potuto parlare, arrivare a un compromesso...» Emise un suono rude. «Il tuo ragazzo è un idealista.» Idealista. Era più o meno come dire stupido. Jean-Claude e Irving erano d'accordo, e non succedeva spesso. «Spiega.» «Combattendo si può salire nella gerarchia del branco. Se vinci, sali di un gradino. Se perdi, resti dove sei.» Bevve un lungo sorso di caffè, a occhi chiusi, come assorbendo il calore. «Fino al momento in cui non affronti il capobranco...» «Lasciami indovinare: è un duello mortale.» «Se non uccidi, non diventi il nuovo capo.» Scossi la testa, con la tazza del caffè davanti. Non l'avevo ancora toccata. «Perché mi stai dicendo tutto questo? Perché adesso?» «Marcus vuole incontrarti.» «Perché Richard non me lo ha detto?» «Richard non vuole coinvolgerti.» «Perché no?» Irving rispondeva alle mie domande, ma le sue risposte non mi aiutavano granché. Irving scrollò le spalle. «Richard non vuole concedere un accidente di niente a Marcus. Se Marcus dice nero, Richard dice bianco.» «E perché Marcus vuole incontrarmi?» «Non lo so.» «Certo...» «Davvero, Blake. Non so che cosa stia succedendo. È qualcosa di grosso, e nessuno ne parla con me.» «Perché no? Sei un licantropo.» «Sono anche un cronista. Anni fa commisi l'errore di pubblicare un articolo. Il licantropo con cui avevo parlato smentì tutto, sostenendo di non avermi mai autorizzato a citarlo. Comunque, lui perse il lavoro e gli altri avrebbero voluto che anch'io rivelassi la mia licantropia e venissi li-
cenziato.» Irving si curvò sulla tazza del caffè, con gli occhi persi in lontananza. «Marcus si oppose, dicendo che sarei stato molto più utile come cronista. Da allora, nessuno si fida più veramente di me.» «Non è gente molto incline al perdono», commentai. Sorseggiai il caffè e scoprii che si stava raffreddando. Se lo avessi bevuto abbastanza in fretta, sarebbe stato passabile. «Non perdonano mai e non dimenticano mai», confermò Irving. Sembrava un pessimo tratto caratteriale, però era anche uno dei miei principi basilari, quindi non avrei certo potuto lagnarmene granché. «Dunque Marcus ti ha mandato qui a parlare con me. Di cosa?» «Vuole incontrarti, per parlarti di una questione d'affari.» Mi alzai per riempirmi di nuovo la tazza, e questa volta misi un po' meno zucchero. A causa della frustrazione stavo cominciando a vincere la stanchezza e a perdere il sonno. «Può telefonare in ufficio per prendere appuntamento.» Irving scosse la testa. «Marcus è un medico molto famoso. Sai che cosa succederebbe se si diffondesse anche solo un vago sospetto sulla sua vera natura?» Comprensibile. Certi lavori si possono conservare anche se si è licantropi, ma quello del medico non fa parte della lista. In Texas, una paziente aveva fatto causa a un dentista sostenendo di avere contratto la licantropia da lui. Assurdo. Non si prende la licantropia da mani umane, neanche da quelle di un dentista. Eppure la causa non era stata respinta. La gente non ha molta simpatia per le palle di pelo che curano i denti scintillanti dei loro bambini. «Okay. Allora può mandare in ufficio qualcun altro. Sicuramente c'è una persona di cui Marcus si fida.» «Richard ha proibito a chiunque di parlare con te.» Lo fissai. «Proibito?» Irving annuì. «Se qualcuno che gli è inferiore nella gerarchia del branco ti parlasse, lo farebbe a suo rischio e pericolo.» Iniziai a sorridere, poi mi fermai. Era serio. «Non stai scherzando, vero?» Lui sollevò una mano mostrando tre dita. «Parola di scout.» «Allora perché sei qui? Vuoi salire nella gerarchia del branco?» Lui impallidì. Davvero: impallidì. «Io? Combattere Richard? Che diavolo... No!» «Allora a Richard non dispiace se parli con me?»
«Oh, gli dispiace eccome!» Mi accigliai. «Marcus ti sta proteggendo?» «Richard ha impartito un ordine specifico. Marcus non può interferire.» «Però ti ha ordinato di venire da me...» «Sì.» «Allora che cosa può impedire a Richard di spaccarti la faccia?» Irving sorrise. «Ho pensato che tu mi avresti protetto.» Risi. «Che figlio di puttana!» «Forse. Però ti conosco, Blake. Non ti piace che Richard ti nasconda le cose. Di sicuro, non ti piace che ti voglia proteggere. E poi, ti sono amico da anni. Non credo che staresti a guardare, mentre il tuo ragazzo mi massacra.» Irving mi conosceva meglio di Richard, e non era un pensiero confortante. Mi ero forse lasciata ingannare da un bel viso e da un simpatico senso dell'umorismo? Non ero riuscita a vedere il vero Richard? Scossi la testa. Era mai possibile che mi stessi lasciando ingannare completamente? Speravo proprio di no. «Allora, ho la tua protezione?» Irving sorrideva ancora, però nel suo sguardo c'era qualcosa. Forse paura. «Hai bisogno che lo proclami ufficialmente?» «Sì.» «È la regola della società dei licantropi?» «È una delle regole.» «Hai la mia protezione. In cambio, però, voglio informazioni.» «Ti ho già detto che non so niente.» «Spiegami che cosa significa essere un licantropo, Irving. A quanto pare, Richard è deciso a tenermi all'oscuro. E a me non piace rimanere all'oscuro.» Irving sorrise. «L'ho sentito dire.» «Se sarai la mia guida nel mondo mannaro, terrò Richard alla larga da te.» «Affare fatto.» «Marcus quando vorrebbe incontrarmi?» «Stanotte.» Irving ebbe la creanza di mostrarsi imbarazzato. Scossi la testa. «Niente da fare. Adesso vado a dormire. Posso incontrare Marcus domani, ma stanotte no.» Lui abbassò gli occhi sul caffè, sfiorando la tazza con la punta delle dita. «Vuole che sia stanotte.» Alzò di nuovo lo sguardo. «Perché credi che mi
sia accampato qua fuori, in macchina?» «Non sono agli ordini di tutti i mostri della città. Non so neppure perché Faccia Pelosa vuole incontrarmi.» Mi appoggiai allo schienale e incrociai le braccia. «Non ho nessuna intenzione di tornare fuori, stanotte, a giocare coi licantropi.» Irving si agitò sulla sedia, facendo ruotare lentamente la tazza del caffè sul tavolo. Intanto evitò il mio sguardo. «Che c'è adesso?» «Marcus mi ha detto di organizzare un incontro con te. Se avessi rifiutato, mi avrebbe... punito. Se sapesse che sono qui, Richard s'incazzerebbe. Sono intrappolato fra due maschi Alfa, e non sono all'altezza.» «Mi stai chiedendo di proteggerti da Marcus, oltre che da Richard?» «No, no», replicò, scuotendo la testa. «Tu sei in gamba, Blake, ma non sei al livello di Marcus.» «Lieta di sentirlo.» «Proprio non vuoi incontrare Marcus stanotte?» «Se rifiuto ti metto nei guai?» Fissò il caffè. «Lo crederesti se dicessi di no?» «No.» Mi guardò con estrema serietà negli occhi marroni. «Si arrabbierà parecchio, ma sopravvivrò.» «Però ti punirà fisicamente...» «Già...» Pronunciò quell'unica parola, sottovoce, timidamente. Non era da Irving. «Lo vedrò a una condizione, e cioè che tu sia presente all'incontro.» Il suo volto sbocciò in un sorriso. «Sei una vera amica, Blake.» Tutta la tristezza era sparita, scacciata dal roseo splendore della possibilità di scoprire che cosa diavolo stava succedendo. Anche in mezzo ai guai, Irving restava un cronista. Ecco chi e che cosa era, prima e più della licantropia. Soltanto per il suo sorriso sarebbe valsa la pena andare a quell'incontro. Comunque, volevo sapere se Richard fosse davvero in pericolo, e incontrare l'uomo che lo minacciava era l'unico vero modo per scoprirlo. Inoltre, non mi piaceva che qualcuno minacciasse un mio amico. I proiettili placcati d'argento non uccidono un vampiro se poi non gli si taglia la testa e non gli si strappa il cuore. Però ammazzano un licantropo: nessuna ferita, nessuna guarigione. Lo ammazzano e basta. Forse Marcus non lo aveva dimenticato. In ogni caso, se mi avesse costretta, avrei potuto ricordarglielo io.
10 Irving chiamò Marcus dal mio appartamento. Sapeva soltanto che Marcus gli aveva ordinato di telefonare per annunciargli il nostro arrivo. Io andai in camera da letto, mi tolsi la tuta, che si poteva lavare solo a secco, e mi cambiai, indossando jeans neri, una polo rossa, Nike nere con bande azzurre e calze vere e proprie. In inverno non è il caso di mettere i calzini da jogging. Stavo per prendere il pesante maglione verde che avevo steso sul letto, ma esitai, e non perché era stampato ad alberi di Natale stilizzati e poteva non essere il capo più elegante da indossare. Non me ne importava un accidente di niente. In realtà, ero indecisa se portare o no una pistola di riserva, ovvero l'accessorio cui sono più affezionata in assoluto. Nessun licantropo mi aveva ancora minacciata, ma la vecchia Gretchen, la vampira, lo aveva fatto, eccome, e, anche se non era una Master, ci andava vicino, senza contare che avevo ancora fresco il ricordo di come lo sbirro mi aveva tolto la Browning. Avevo troppi nemici soprannaturali per andare in giro disarmata. Così presi la mia fondina interna Uncle Mike's Sidekick, che è molto comoda e non rovina la linea dei jeans, a meno che non la si osservi davvero con attenzione. La mia prima pistola di riserva è una Firestar calibro 9, piccola, leggera, bella a vedersi. Posso portarla alla cintura senza che m'impedisca di sedermi. Il maglione mi scendeva a mezza coscia, quindi l'avrebbe nascosta perfettamente, ma non a una eventuale perquisizione. La fondina permetteva una rapida estrazione incrociata, anche se probabilmente non ne avrei avuto bisogno. Probabilmente... Tuttavia, il maglione non nascondeva del tutto la fondina ascellare. Ho visto gente nascondere la fondina sotto maglioni o felpe molto ampi, però si perde qualche secondo a frugarci sotto. Quanto a me, preferisco avere un aspetto meno elegante e sopravvivere. Il maglione era troppo lungo per la mia giacca di pelle, così tornai al mio trench nero. Alla Philip Marlowe. Non portai munizioni di riserva, perché prevedevo che ventun colpi sarebbero stati sufficienti per una notte. Lasciai a casa anche i pugnali. Fui sul punto di convincermi a rinunciare persino alla Firestar. Di solito non cominciavo a portare due pistole prima che qualcuno cercasse di ammazzarmi. Scrollai le spalle. Perché aspettare? Se non mi fosse servita, avrei avuto tutto il tempo di sentirmi sciocca l'indo-
mani. Se invece ne avessi avuto bisogno, mi sarei giudicata tutt'altro che sciocca. Irving mi aspettava seduto sul divano, come un bravo ragazzo. Sembrava uno scolaretto in castigo. «Qualcosa non va?» «Marcus non voleva che fossi presente all'incontro. Gli ho detto che non saresti venuta senza di me perché non ti fidi di lui.» Alzò gli occhi a guardarmi. «Si è incazzato parecchio.» «Ma tu hai tenuto duro...» «Sì.» «E allora perché non sei contento?» Scrollò le spalle. «Quando è di malumore, incontrare Marcus non è una bella esperienza, Blake.» «Guido io. Tu indicami la strada.» «Marcus ha detto di andare con due macchine, perché io dovrò restare, dopo l'incontro, per una chiacchieratina...» «Andiamo, Irving! Io guido, tu mi dici la strada. Quando me ne vado io, te ne vai anche tu.» «Apprezzo l'offerta, Blake, ma non ti conviene metterti contro Marcus.» «Se devo proteggerti da Richard, tanto vale includere Marcus nell'accordo.» Scosse la testa. «No, ti seguo con la mia macchina.» Sollevò una mano. «Basta discutere, Blake. Sono un lupo mannaro. Devo vivere nella comunità. Non posso permettermi di inimicarmi Marcus: non per una chiacchierata.» Avrei voluto discutere, ma non lo feci. Irving conosceva i suoi problemi meglio di me. Se opporsi a Marcus per quel motivo avrebbe peggiorato la situazione, allora ero disposta a lasciar perdere. Però non mi piaceva. Il Lunatic Cafe era a University City. L'insegna era una mezzaluna splendente col nome del ristorante in neon azzurro. A parte il nome e la bella insegna, non sembrava molto diverso da tutti gli altri locali della zona universitaria. Era venerdì notte e non c'era parcheggio. Stavo cominciando a pensare che Marcus sarebbe stato costretto a uscire per trovare un posto alla mia macchina, quando una Impala se ne andò, liberando i due posti che aveva sequestrato. Ne occupai uno abbondante con la Jeep, lasciando comunque abbastanza spazio per un altro veicolo. Irving aspettava davanti al ristorante, con le mani affondate nelle tasche
e la sciarpa ridicola che scendeva fin quasi a sfiorare il marciapiede. Sembrava distratto e per nulla contento. M'incamminai verso di lui col trench aperto che ondeggiava come un mantello. Comunque, la gente normale non avrebbe notato la pistola. Avrebbe visto soltanto una donna di bassa statura con uno sgargiante maglione natalizio. La gente per cui la portavo, invece, l'avrebbe notata e avrebbe capito che ero armata. Irving spinse la porta senza dire una parola. Non mi piaceva vederlo così mogio, quasi depresso, come un cane bastonato. Per quello, prima ancora di conoscerlo, Marcus non mi piaceva per niente. Varcata la soglia fummo avvolti da un mormorio di voci così sonoro da sembrare la risacca dell'oceano. Le posate d'argento tintinnavano. Una risata acuta e allegra si levò dal rumore come una mano che spuntasse dalle onde prima di essere nuovamente inghiottita e scomparire. Lungo una parete correva il bancone del bar, in legno scuro e lucido, vecchio e amorevolmente conservato. Il resto della sala era occupato da tavolini rotondi che potevano accogliere comodamente quattro persone. Erano tutti occupati, alcuni da più di quattro clienti. Le porte erano tre: una accanto al bar, una sulla destra, una al centro. Altri tavoli erano collocati nelle salette interne. Un tempo l'edificio era stato un'abitazione privata. Ci trovavamo in quello che era stato il soggiorno. Gli archi che davano accesso alle salette sembravano il risultato del parziale abbattimento delle pareti. Nonostante ciò, il locale era claustrofobico. Al bar c'erano tre file di persone in attesa che i tavoli si liberassero e la sala era piena da scoppiare di gente allegra e sorridente. Una donna uscì da dietro il bancone asciugandosi le mani con una salvietta infilata nel grembiule, poi ci accolse con un gran sorriso, tenendo con una mano un paio di menu. Stavo per informarla che non avevamo nessuna intenzione di cenare, ma Irving mi prese per un braccio e strinse. La sua tensione mi si trasmise come una vibrazione. Dato che mi aveva afferrato il braccio destro, mi girai per dirgli di lasciarmi, ma l'espressione del suo viso mi bloccò. Fissava la donna sorridente come se le fosse appena spuntata una seconda testa. Mi girai verso la donna e la guardai di nuovo, questa volta per davvero. Era alta e snella, coi capelli lunghi e lisci, di un cupo castano ramato che rifletteva le luci scintillando. Il viso era un triangolo dolce, col mento forse un po' troppo aguzzo, ma nell'insieme bello. Gli occhi erano di uno strano
castano ambrato che si abbinava perfettamente ai capelli. Il suo sorriso si allargò senza che le labbra scoprissero i denti. Capii che era una licantropa in grado di passare per umana, come Richard. Guardandomi intorno, compresi perché mi sentivo così tesa. Non era soltanto a causa dell'affollamento e del chiasso, come mi era sembrato in un primo momento. La maggior parte della clientela allegra e sorridente era composta di licantropi, la cui energia ribollente colmava la sala, mascherandosi dietro l'apparenza di quella di una folla comune, e opprimeva l'atmosfera come l'incombere di una tempesta. Mentre stavo in piedi accanto all'entrata, alcuni visi si sollevarono a fissarmi con occhi umani che avevano sguardi inumani. Quegli sguardi mi esaminarono e mi valutarono. Quanto ero dura? Avevo un buon sapore? Mi rammentarono il modo in cui Richard aveva osservato la folla al Fox. Sentendomi come una pecorella a un convegno di lupi, fui improvvisamente contenta di avere portato la seconda pistola. «Benvenuta al Lunatic Cafe, Ms. Blake», mi salutò la donna. «Sono Raina Wallis, la proprietaria. Se vuole seguirmi, la stanno aspettando.» Parlò sorridendo, con una luce calda nello sguardo. La stretta di Irving intorno al mio braccio divenne quasi dolorosa. Accostai la testa alla sua per sussurrargli: «Mi stai bloccando il braccio destro». Lui mi fissò, battendo le palpebre, poi lanciò un'occhiata alla Browning e infine mi lasciò, mormorando: «Scusa...» Raina si avvicinò e Irving trasalì. «Non ho intenzione di morderti, Irving. Almeno, non adesso...» Sottovoce, emise una risata bassa e spumeggiante, da camera da letto e da scherzi intimi, che trasformò il suo aspetto e il suo sguardo, rendendola all'improvviso più voluttuosa e più sensuale. Assolutamente soprannaturale. «Non dobbiamo fare aspettare Marcus.» Si girò e si allontanò, serpeggiando fra i tavoli. Guardai Irving. «C'è qualcosa che vuoi dirmi?» «Raina è la nostra femmina Alfa. Se la punizione sarà molto severa, me la infliggerà lei. È molto più creativa di Marcus.» Con un cenno, Raina c'invitò all'arco accanto al bar. Era accigliata, e il suo bel viso sembrava un po' meno bello e un po' più stronzo. Percossi affettuosamente una spalla di Irving. «Non le permetterò di farti del male.» «Non puoi impedirlo.» «Lo vedremo.» Annuì, ma non come se mi credesse, poi si avviò e io lo seguii. Una
donna gli toccò una mano mentre passava e gli sorrise. Era più o meno della mia corporatura, delicata, coi capelli lisci e neri che le incorniciavano il viso come pizzo. Irving le strinse le dita e continuò a camminare. Gli occhi grandi e scuri della donna incontrarono i miei senza esprimere nulla. Avevano sorriso a Irving, ma con me furono neutri, come gli occhi di un lupo che avevo visto una volta in California. Avevo girato intorno a un albero e me l'ero trovato davanti. Fino a quel momento non avevo mai capito davvero che cosa significasse l'indifferenza. Gli occhi chiari mi avevano fissata, in attesa. Se lo avessi minacciato, il lupo mi avrebbe aggredita. Se lo avessi lasciato in pace, se ne sarebbe andato. Aveva lasciato a me la scelta. A lui non interessava come si sarebbe risolta la situazione. Continuai a camminare, ma sentii una sorta di prurito fra le scapole. Sapevo che, se mi fossi girata, avrei scoperto che gli occhi di tutti, o quasi, erano fissi su di me, su di noi. Il peso di quello sguardo collettivo era qualcosa di fisico. Provai l'impulso di girarmi di scatto e fare «Bù!» ma resistetti. Avevo l'impressione che tutti quanti mi stessero fissando con occhi neutri, inumani, e non volevo vederli. Raina ci condusse a una porta chiusa in fondo al ristorante, l'aprì e con un gesto teatrale c'invitò a varcare la soglia. Irving mi precedette. Io entrai senza distogliere lo sguardo da lei. Le passai così vicino che avrebbe potuto afferrarmi e, dati la sua velocità e i suoi riflessi, molto probabilmente ci sarebbe riuscita e avrebbe avuto la meglio. I licantropi sono più veloci degli esseri umani, però, a differenza dei vampiri, non creano illusioni. Sono puramente e semplicemente superiori. Comunque, non ero sicura di quanto fossero rapidi quando erano in forma umana. D'altra parte, nel l'osservare il volto sorridente di Raina, non ero sicura neppure di volerlo scoprire. Ci trovammo in uno stretto corridoio, con una porta a ciascuna estremità. Una aveva un vetro che permetteva di vedere la notte fredda. L'altra, chiusa, era un punto interrogativo. Raina richiuse l'uscio alle nostre spalle e vi si addossò. Sembrò crollare, e rimase a testa china, coi capelli sciolti che le cadevano a nascondere il viso. «Tutto bene?» chiesi. Lei emise un sospiro profondo e tremulo, poi alzò la testa. Rimasi senza fiato, incapace di credere ai miei occhi. Era favolosa, con gli zigomi alti e scolpiti, gli occhi più grandi e meno distanziati. Non sembrava più la stessa, ma piuttosto una sorella o una pa-
rente molto somigliante della persona che avevo visto poco prima. «Che cos'ha fatto?» Emise di nuovo la sua bassa risata sensuale. «Sono un'Alfa, Ms. Blake. Posso fare moltissime cose che per la maggior parte dei licantropi sono impossibili.» Ero pronta a scommetterci. «Ha spostato volontariamente le ossa, come in una specie di chirurgia estetica fai-da-te!» «Molto bene, Ms. Blake, molto bene...» Gli occhi ambrati fulminarono Irving, mentre il sorriso abbandonava il suo volto. «È proprio necessario che lui partecipi all'incontro?» «Sì.» Raina increspò le labbra come se avesse appena assaggiato qualcosa di aspro. «Marcus ha detto di chiedere, e poi di accompagnarla.» Scrollò le spalle e si scostò dalla porta. Era più alta di sei o sette centimetri. Mi rammaricai di non avere osservato con maggiore attenzione le sue mani. Aveva trasformato anche quelle? «Perché l'alterazione del corpo?» chiesi. «L'altro è il mio aspetto diurno. Questo è quello reale.» «Perché il travestimento?» «Nel caso che debba fare qualcosa di nefasto.» Nefasto? Raina s'incamminò lungo il corridoio verso l'altra porta chiusa. Aveva un'andatura armoniosa e atletica come quella di un grosso felino. O forse di un grosso lupo? Bussò alla porta. Io non sentii nulla, ma lei l'aprì e si fece da parte, con le braccia incrociate sotto il seno, e ci sorrise. I suoi sorrisi stavano cominciando a non piacermi. Entrammo in una sala per banchetti, coi tavoli apparecchiati disposti a ferro di cavallo di fronte a un palco con quattro sedie e un leggio, sul quale stavano due uomini. Uno era alto più di un metro e novanta, snello ma muscoloso, come un giocatore di basket. Aveva i capelli neri, corti, e portava un pizzo sottile. Stava in piedi, con una mano posata sul polso opposto, in atteggiamento da atleta, o da guardia del corpo. Indossava jeans neri attillati e un maglione nero scollato che aderiva alle spalle larghe. La scollatura rivelava un ciuffo di peli neri sul petto. Stivali neri da cowboy e un grosso orologio completavano l'abbigliamento da energumeno. L'altro non era alto più di un metro e settanta. Aveva i capelli biondi, di una sfumatura strana, con colpi di sole castani, corti ma perfettamente cu-
rati, che sarebbero risultati molto belli se fossero stati un po' più lunghi. Il viso, con la mascella quadrata e una fossetta sul mento, era ben rasato. La fossetta non riusciva a renderlo simpatico come avrebbe dovuto. Era una faccia autoritaria, con le labbra sottili scolpite per ordinare e imporre ubbidienza, senza discussioni. Indossava una giacca di lino azzurro su pantaloni neri e un dolcevita dello stesso azzurro della giacca. Le scarpe erano nere, così lustre da scintillare. Doveva essere Marcus. «Alfred.» Una sola parola, un ordine. L'energumeno smontò dal palco con un balzo armonioso e si avvicinò, avvolto da una nube di energia vitale che gli roteava e gli ribolliva intorno come calore. Non si vedeva, ma una cosa era maledettamente sicura: si percepiva. Alfred mi si avvicinò come se avesse un'intenzione precisa. Mi addossai alla parete, in modo da non perdere di vista nessuno, inclusa Raina. Irving indietreggiò insieme con me, restando un po' in disparte, ma più vicino a me che agli altri. Aprii il trench, in modo da mostrare chiaramente la pistola. «E meglio che tu abbia intenzioni amichevoli, Alfred.» «Alfred», ripeté l'altro. Di nuovo, una sola parola, la stessa intonazione, ma questa volta Alfred si bloccò e rimase immobile a fissarmi. I suoi occhi non erano affatto neutri, bensì ostili. Di solito la gente non mi trovava antipatica a prima vista. D'altronde... Be', neanch'io ero entusiasta di lui! «Non ci siamo mostrati violenti nei suoi confronti, Ms. Blake», disse Marcus. «Ma certo... Il nostro Alfie, qui, è l'incarnazione della violenza repressa a stento. Voglio sapere che intenzioni ha, prima che si avvicini di un altro passo.» Marcus mi guardò come se avessi fatto qualcosa d'interessante. «Una descrizione molto pertinente, Ms. Blake. Dunque lei riesce a vedere la nostra aura?» «Se vuole chiamarla così.» «Alfred non vuole farle del male. Si limiterà a perquisirla. È la consuetudine, con chi non è licantropo. Le assicuro che non c'è niente di personale.» Il fatto stesso che mi volessero disarmata mi decise a non cedere le armi. Ostinazione, o spiccato istinto di sopravvivenza? «Forse accetterei di farmi perquisire, se prima mi spiegasse perché sono qui.» Diversione, in attesa di decidere che cosa fare.
«Non discutiamo d'affari alla presenza della stampa, Ms. Blake.» «Be', io non parlo senza Irving.» «Non intendo mettere a repentaglio tutti noi soltanto per soddisfare un'oziosa curiosità.» Marcus stava sulla piattaforma come un generale che sorvegliasse le truppe. «L'unica ragione per cui sono qui, è che Irving è mio amico. Insultandolo non otterrà la mia simpatia.» «Non mi interessa la sua simpatia, Ms. Blake. Voglio il suo aiuto.» «Vuole il mio aiuto?» Non mi sforzai di nascondere la sorpresa. Lui annuì brevemente. «Che genere di aiuto?» «Lui deve andarsene.» «No.» Raina si scostò dalla parete e cominciò a girarci intorno come uno squalo, ma senza avvicinarsi. «La punizione di Irving potrebbe cominciare subito...» insinuò, con voce bassa e profonda, in tono cupo e vibrante. «Non sapevo che i lupi facessero le fusa», replicai. Lei rise. «I lupi fanno molte cose! Sono certa che lo sa!» «Non capisco a cosa allude.» «Oh, suvvia! Da donna a donna...» Raina appoggiò una spalla alla parete e incrociò le braccia, con espressione amichevole. Ero pronta a scommettere che mi avrebbe staccato un dito con un morso senza smettere di sorridere in quel modo. Si curvò confidenzialmente in avanti, come per scambiare segreti. «Richard è bravo come sembra, vero?» La fissai negli occhi divertiti. «Non saprei...» «Ti racconto i miei dettagli piccanti, se tu mi racconti i tuoi...» «Raina, basta!» Marcus si era avvicinato al bordo del palco. Non sembrava contento. Lei gli sorrise pigramente. Provocava più lui che me, e si divertiva molto. «Irving deve andarsene e Alfred deve perquisirla. Punto e basta.» «Le propongo un accordo», dissi. «Irving adesso se ne va, ma se ne torna a casa. Niente punizione.» Marcus scosse la testa. «Ho stabilito che deve essere punito. La mia parola è legge.» «Cos'è, è morto il papa e ne hanno fatto uno nuovo?» «Simon», rispose Raina. La fissai, sbattendo le palpebre.
«Ha ucciso Simon. Ecco com'è diventato capobranco.» A domanda sciocca... «Se vuole il mio aiuto, Irving se ne deve andare libero e illeso. Niente punizione.» «Non farlo, Anita», intervenne Irving. «Peggiorerai soltanto le cose.» Raina rimase appoggiata alla parete accanto a me. «Ha ragione, sai? Adesso è mio, ma se lo farai arrabbiare davvero, Marcus lo consegnerà ad Alfred. Io mi limiterei a torturare la sua mente e il suo corpo. Alfred invece lo spezzerebbe.» «Irving se ne va senza punizioni. Io resto e lascio che Alfred mi perquisisca. Altrimenti ce ne andiamo.» «Non tutti e due, Ms. Blake. Lei è libera di andare, ma Irving è mio. Resterà, con o senza di lei, e riceverà una lezione», intervenne Marcus. «Che cos'ha fatto di male?» chiesi. «Non sono affari suoi.» «Allora si scordi il mio aiuto.» «Se è così, può anche andarsene.» Marcus saltò agilmente giù dal palco e s'incamminò verso di noi, senza smettere di parlare. «Irving, però, resta. Lei è qui soltanto per stanotte, Ms. Blake, ma lui deve convivere con noi. Non può permettersi le sue spacconate.» Nel pronunciare l'ultima frase arrivò a breve distanza da Alfred. Da vicino si vedevano le rughe sottili che aveva intorno agli occhi e alla bocca, nonché una certa flaccidità delle guance e del collo. Aggiunsi una decina d'anni alla sua probabile età. Doveva essere sulla cinquantina. «Non posso lasciare qua Irving sapendo quello che gli farete.» «Oh, non hai la minima idea di quello che gli faremo», disse Raina. «Comunque, noi guariamo alla perfezione.» Si scostò dalla parete, si avvicinò a Irving e cominciò a girargli intorno, tanto vicino da sfiorarlo a tratti con le spalle e coi fianchi. «Persino il più debole di noi può sopportare ferite molto gravi.» «Che cosa volete, in cambio della garanzia che a Irving non sarà fatto nessun male?» chiesi. Marcus mi guardò, con espressione guardinga. «La promessa che ci aiuterà e che si lascerà perquisire da Alfred. È la mia guardia del corpo. Deve lasciare che faccia il suo lavoro.» «Non posso promettere di aiutarla senza sapere di che cosa si tratta.» «Allora niente accordo.» «Anita, posso sopportarlo, qualunque cosa mi facciano. Posso farcela. Non è la prima volta.»
«Mi hai chiesto di proteggerti da Richard... Be', diciamo semplicemente che il pacchetto include anche questo...» «Hai chiesto la sua protezione?» Raina si scostò da lui, con evidente sorpresa sul suo bel viso. «Soltanto da Richard», confermò Irving. «Mossa astuta», replicò Raina. «Però comporta certe implicazioni...» «Lei non fa parte del branco. Riguarda soltanto Richard, perché escono insieme...» Irving sembrava piuttosto preoccupato. «Quali implicazioni?» domandai. «Chiedere protezione a un membro del branco», rispose Marcus, «significa riconoscergli che è superiore nella gerarchia senza avere lottato con lui. E, se lui accorda la protezione, allora si acconsente ad aiutarlo nelle sue battaglie. Se lui viene sfidato, si è vincolati dall'onore ad aiutarlo.» Guardai Irving, che sembrava in preda a un malessere improvviso. «Non è una di noi. Non è vincolata dalla legge.» «Quale legge?» chiesi. «La legge del branco», disse Marcus. «Rinuncio alla sua protezione», dichiarò Irving. «Troppo tardi», disse Raina. «A causa sua ci troviamo di fronte a un dilemma, Ms. Blake. Un membro del branco ha riconosciuto che lei gli è superiore nella gerarchia, dunque l'ha riconosciuta come dominante. Secondo le nostre leggi, dobbiamo accettare questo vincolo.» «Non posso far parte del branco», dissi. «No, ma può essere dominante.» Sapevo che cosa significava quella parola nel mondo reale, però Marcus la stava usando come se significasse molto di più. «Che cosa significa 'dominante'?» «Significa che deve proteggere Irving da tutti gli sfidanti.» «No!» esclamò Irving. Passò davanti a Raina e si fermò di fronte a Marcus, risoluto, fissandolo negli occhi, senza nessuna sottomissione. «Non ti permetterò di servirti di me a questo modo! È quello che hai sempre voluto. Sapevi che le avrei chiesto di proteggermi da Richard. Ci contavi, vero, perfido bastardo intrigante?» Un cupo brontolio sfuggì dalla perfetta dentatura bianca di Marcus. «Se fossi in te, amico, starei attento a non esagerare.» «Se ti offende, lo tolgo di mezzo.» Le prime parole di Alfred non furono affatto confortanti.
La situazione ci stava sfuggendo di mano. «Irving è sotto la mia protezione, Alfred. Se ho capito bene la legge, prima di far male a lui devi vedertela con me. Giusto?» Alfred si volse a posare su di me i suoi gelidi occhi neri. Annuì. «Ma, se mi ammazzi, non potrò più aiutare Marcus...» L'energumeno sembrò perplesso. Avevo seminato confusione fra i nemici... Marcus sorrise. «Ha trovato un punto debole nella mia logica, Ms. Blake. Se davvero intende proteggere Irving rispettando la legge alla lettera, allora la sua morte è sicura, perché nessun umano può avere la meglio su uno di noi. Anche il più infimo la ucciderebbe.» Tralasciai il commento. Perché discutere, visto che comunque stavo vincendo? «Dato che lei non può accettare sfide e che non ci permette di punirlo, Irving è al sicuro.» «Grande. E adesso?» «Irving può andarsene, e non sarà punito. Lei resta ad ascoltare la nostra richiesta. Potrà decidere liberamente se aiutarci o no. Comunque Irving non soffrirà per le conseguenze della sua scelta.» «È molto generoso da parte sua.» «Sì, Ms. Blake, lo è.» Nei suoi occhi c'era un'espressione di estrema serietà. Forse Raina aveva tendenze sadiche e Alfred era incline alle esplosioni di violenza, ma Marcus pensava soltanto agli affari. Era una specie di capomafia mannaro. «Lasciaci, Irving.» «Non abbandono Anita.» Marcus si rivolse a lui con un ringhio. «La mia pazienza ha un limite!» Irving s'inginocchiò, chinò la testa e curvò la schiena in segno di sottomissione. Lo presi per un braccio e lo rimisi in piedi. «Alzati, Irving. Questo simpatico lupo mannaro non ti farà niente.» «E perché mai, Ms. Blake?» chiese Marcus. «Perché Irving è sotto la mia protezione e, se Alfred non può battersi con me, è sicuro come l'inferno che non può farlo neanche lei.» Marcus gettò la testa all'indietro in una risata latrante. «Lei è intelligente e coraggiosa! Sono caratteristiche che ammiriamo.» La risata si spense, scomparendo dal suo viso, ma indugiò nei suoi occhi come un sogno piacevole. «Non mi sfidi troppo apertamente, Ms. Blake. Non sarebbe saluta-
re.» L'ultima traccia di divertimento sparì dal suo sguardo. Mi trovai a fissare occhi che nulla avevano di umano. Aveva un aspetto umano, parlava come un essere umano, ma non era umano. Conficcai le dita nella spalla di Irving protetta dal parka. «Vai, Irving. Vattene di qui.» Lui mi sfiorò un braccio. «Non ti abbandonerei mai in una situazione di pericolo...» «Per stanotte io sono al sicuro, ma tu no. E adesso, Irving, per favore, vattene.» Il suo viso lasciò trapelare il conflitto interiore che lo straziava, ma alla fine, dopo un'altra torva occhiata da parte di Marcus, se ne andò. La porta si richiuse e io rimasi sola con tre licantropi, dopo essere rimasta sola con quattro. La situazione stava migliorando. «Adesso Alfred deve perquisirla.» Tanti saluti al miglioramento. «Prego.» Rimasi immobile, senza allargare le braccia e senza appoggiarmi al muro. Non avevo nessuna intenzione di facilitargli il compito, a meno che non mi fosse chiesto esplicitamente. Alfred mi sfilò la Browning, poi mi tastò le braccia, le gambe e persino la base della schiena, ma non il ventre. Forse era un gentiluomo, o forse era soltanto trascurato. Comunque, non si accorse della Firestar. Avevo otto pallottole d'argento e loro non lo sapevano. Dopotutto, la situazione stava davvero migliorando. 11 Marcus occupò una sedia sul palco. Alfred rimase in piedi dietro di lui, da bravo guardaspalle. «Si accomodi, Ms. Blake. Forse dovremo parlare a lungo.» Non volevo sedermi con Alfred alle spalle, perciò occupai l'ultima sedia. Forse diedi l'impressione di voler mantenere le distanze, lasciando un posto vuoto a separarci, ma almeno ero fuori della portata di Alfred. La sicurezza viene prima delle buone maniere. Raina sedette alla destra di Marcus, posandogli una mano sopra una coscia. Marcus stava seduto allo stesso modo con cui faceva tutto: rigidamente. Mia zia Mattie sarebbe stata fiera del suo contegno. Ma lui non spostò la mano di Raina, anzi la coprì con una delle sue. Amore? Solida-
rietà? Non mi sembrava una grande coppia. Entrò un'altra donna. Aveva i capelli biondi e corti, lisciati col gel. Indossava un tailleur rosso a sfumature rosa, come un petalo di fiore, e una camicetta bianca con una di quelle cravatte che davano un tocco femminile, ma un po' sciocco. «Christine», disse Marcus. «Sono lieto che tu sia qui.» La donna annuì e sedette al tavolo, a un'estremità del ferro di cavallo, vicino al palco. «Avevo forse altra scelta?» «Dobbiamo restare uniti, Christine.» «Purché comandi tu, giusto?» Marcus fece per replicare, ma intanto cominciarono a entrare parecchi altri individui, singolarmente, oppure a gruppetti di due o di tre, così lasciò perdere. Lui e la bionda avrebbero potuto proseguire la discussione in seguito, e io sarei stata pronta a scommettere che l'avrebbero fatto. La critica della donna non sembrava affatto una novità. Riconobbi una persona: Rafael, il re dei ratti. Era alto, bruno e bello, coi capelli neri e corti, con marcati lineamenti latini e un'espressione arrogante. Sarebbe parso severo quanto Marcus, se non fosse stato per le labbra morbide e sensuali, che rovinavano un po' l'effetto. Quando Rafael mi salutò con un cenno della testa, gli risposi allo stesso modo. Lo accompagnavano due ratti mannari in forma umana, che però non riconobbi. Dieci o dodici persone erano sedute ai tavoli quando Marcus si alzò e andò sul podio. «Amici miei, vi ho invitati qua, stanotte, per incontrare Anita Blake, che i vampiri chiamano Sterminatrice. Credo, infatti, che lei possa aiutarci.» «Che cosa può fare per noi una cacciatrice di vampiri?» chiese un uomo alto, che sedeva solo, protetto ai lati da sedie vuote. Aveva i capelli bianchi e corti, tagliati in una foggia strana che ricordava quella di Mia Farrow negli anni '60, ma più morbidi. Indossava una camicia bianca, cravatta rosa, giacca sportiva bianca, calzoni crema. Sembrava un burlone arricchito, ma aveva colto nel segno. «Non abbiamo bisogno dell'aiuto di un'umana», aggiunse un uomo che sedeva insieme con una compagna. I suoi capelli erano lunghi fin quasi alle spalle, ed erano così ondulati da sembrare pelliccia, o forse... Nah! Aveva sopracciglia folte sopra gli occhi scuri, lineamenti marcati e sensuali. Se le labbra del re dei ratti potevano invogliare al bacio, quelle di quell'uomo sembravano create apposta per fare nefandezze in luoghi tenebrosi.
L'abbigliamento si addiceva al suo viso. Posati sul tavolo, gli stivali erano neri e morbidi come velluto. I calzoni erano di pelle nera e lucida. Una canottiera gli lasciava il busto in gran parte nudo. Il braccio destro era avvolto di cinghie di cuoio dalle dita al gomito. Le nocche erano irte di borchie aguzze. I peli del torace erano scuri e ricci come i capelli. Sul tavolo accanto a lui era gettato uno spolverino nero. La donna alla sua destra gli sfregò una guancia contro una spalla, come una gatta che lasciasse il proprio odore. I lunghi capelli neri le cadevano ondulati sulle spalle. Quello che vedevo del suo abbigliamento era aderente, nero e in gran parte di cuoio. «Qui siamo umani, Gabriel», rispose Marcus. Gabriel emise un brontolio sgarbato. «Tu credi pure quello che vuoi, Marcus. Ma noi sappiamo cosa siamo e cosa lei non è.» Col pugno guantato indicò me. Non sembrò un gesto particolarmente amichevole. Rafael si alzò, interrompendo la discussione. C'era qualcosa nel suo atteggiamento, nonostante l'abbigliamento ordinario, che attirava l'attenzione, come se indossasse una corona. La sua presenza era molto più imponente e autorevole di una tonnellata di cuoio nero. Marcus emise un cupo brontolio. Troppi capi nella stessa stanza. «Marcus parla per Anita Blake, oltre che per i lupi?» «Sì», disse Marcus. «Parlo per Ms. Blake.» Mi alzai. «Non so che cosa stia succedendo, ma so parlare da sola.» Marcus si girò come una tempesta bionda in miniatura. «Io sono il capobranco! Io sono la legge!» Alfred si spostò a fronteggiarmi, aprendo e chiudendo le grosse mani. «Calmati, faccia pelosa. Tu non sei il mio capo e io non sono un membro del branco.» Alfred avanzò. Io smontai dal palco con un salto. Avevo la pistola, ma avrebbe potuto essermi più utile in seguito. Se l'avessi sfoderata subito, forse più tardi non l'avrei più avuta. Anche lui smontò dal palco, ma con un balzo enorme, come se avesse saltato da un trampolino. Mi lasciai cadere sul pavimento e rotolai, sentendo lo spostamento d'aria del suo passaggio. Urtai contro il palco, portai la mano alla Firestar e lui mi fu addosso. Più veloce di un proiettile, più veloce di qualunque cosa avessi mai visto. Con una mano mi afferrò la gola e strinse. Snudò i denti con un basso ringhio prolungato, come un Rottweiler. Impugnavo la Firestar, ma dovevo ancora sfoderarla, puntarla e premere
il grilletto. Non ce l'avrei mai fatta. Mi avrebbe squarciato la gola molto prima che potessi riuscirci. Tenendomi per la gola, mi sollevò di peso, conficcandomi le dita nelle carni quel tanto che bastava a dimostrarmi la forza delle sue mani. Per squarciarmi la gola non avrebbe dovuto fare altro che stringere. Io continuai a impugnare la Firestar. Sarei morta così, con la pistola in pugno. «Adesso Alfred combatte le battaglie al posto tuo?» chiese Christine, la bionda con la cravatta. «Un capobranco deve accettare personalmente tutte le sfide al suo dominio, oppure rinunciare al suo potere. È una delle nostre leggi, Marcus.» «Non ricordare a me le mie leggi, donna.» «Lei ha sfidato la tua autorità, non quella di Alfred. Se la ucciderà, sarà lui il nuovo capobranco?» Il tono di Christine fu vagamente beffardo. «Lasciala, Alfred.» Alfred lanciò un'occhiata a Marcus, poi guardò me. Strinse un po' di più e mi sollevò, obbligandomi a stare in punta di piedi. «Ho detto lasciala!» Alfred mi lasciò cadere. Barcollando, mi appoggiai al palco e sfoderai la Firestar. Non fu un bel gesto, ma ormai la pistola era puntata contro Alfred. Se mi avesse aggredita di nuovo l'avrei ammazzato, e ne sarei stata contenta. «Credevo che l'avessi perquisita», commentò Marcus. «Infatti.» Alfred indietreggiò, con le mani protese, come per parare un colpo. Mi spostai rapidamente, costeggiando il palco, in modo da sorvegliare Marcus. Notai che Raina era sempre seduta al suo posto; sembrava divertita. Allontanandomi da tutti, indietreggiai verso una parete. Se Marcus era più veloce di Alfred, avevo bisogno di tenerlo a distanza. Cento miglia sarebbero bastate, ma non era possibile. Così, avrei dovuto accontentarmi di mettermi con le spalle alla parete più lontana. «Ordinagli di disarmarla», disse Raina, sorridente, seduta a gambe accavallate, con le mani sopra un ginocchio. «Ha sbagliato. Deve rimediare.» Marcus annuì. Alfred volse di nuovo lo sguardo a me. Mi addossai saldamente alla parete, come se avessi potuto, con una pressione abbastanza forte, aprirci una porta. Alfred avanzò furtivamente, con lentezza, come un maniaco da film. Gli puntai la pistola al petto. «Se mi attacca, lo ammazzo», dissi.
«I tuoi piccoli proiettili non possono ferirmi», replicò Alfred. «Munizioni di sicurezza Glaser placcate in argento», specificai. «Ti aprirò nel petto un buco abbastanza grosso da infilarci un pugno.» Esitò. «Posso guarire da qualunque ferita, anche se prodotta dall'argento.» «Non da una ferita mortale. Se ti spappolo il cuore, sei morto.» Si girò a guardare Marcus, che aveva la faccia stravolta dalla rabbia. «Le hai permesso di portare un'arma fra noi!» «Se hai paura della pistola, Marcus, vai tu a disarmarla», disse Christine. E questa volta non fui del tutto certa che mi stesse aiutando. «Non abbiamo nessuna intenzione di nuocerle, Ms. Blake, ma ho promesso agli altri che lei non avrebbe portato armi. Ho dato la mia parola. Se consegna la pistola ad Alfred, possiamo farla finita.» «No.» «Lei mi sta sfidando, Ms. Blake, e io non posso permettere a nessuno di contestare la mia autorità.» Marcus si era alzato e stava al bordo del palco, quindi era più vicino a me di quanto non lo fosse Alfred. Non ero sicura che fosse un miglioramento. «Se smonta da quel palco, sparo.» «Alfred.» Di nuovo soltanto il nome, ma fu sufficiente. L'energumeno montò sul palco e gli si affiancò, fissandolo in viso. «Padrone?» «Disarmala, Alfred. Non può sfidarci.» «Lo farà ammazzare, Marcus.» «Non credo.» Alfred avanzò di un passo, ponendosi davanti a Marcus. Il suo viso era privo di espressione, gli occhi impenetrabili. «Non vale la pena morire per una stupidaggine così, Alfie.» «Lui ordina, io ubbidisco. È così.» «Non farlo», ripetei. Alfred avanzò di un passo. Inspirai lentamente. Con la coda dell'occhio vedevo tutti gli altri, ma ero concentrata soltanto su Alfred, e più precisamente sul suo cuore. «Non sto bluffando.» Percepii la sua tensione e capii che avrebbe attaccato. Era sicuro di essere più rapido di me e della mia pistola. Ma nessun movimento poteva essere più veloce. O almeno lo speravo. Come prima, Alfred spiccò un lungo balzo arcuato. Mi piegai su un gi-
nocchio, mirando. Il proiettile lo centrò a mezz'aria. Fu scosso da uno spasmo e si afflosciò al suolo. Lo sparo echeggiò nel silenzio. Mi alzai, continuando a puntargli contro la pistola, e avanzai. Non si mosse. Se respirava, non si vedeva. M'inginocchiai e gli premetti la pistola contro la spina dorsale. Nessun movimento. Gli toccai il collo. Nessuna pulsazione. Con la sinistra, gli sfilai la Browning dalla cintura, quindi puntai la Firestar contro tutti gli altri. Non ero altrettanto brava a sparare con la sinistra e non volevo perdere tempo a cambiare mano. Marcus smontò dal palco. «Fermo», intimai. Si bloccò, fissandomi. Sembrava sconvolto, come se non si fosse aspettato tanta determinazione. Rafael si avvicinò. «Posso esaminarlo?» «Certo.» Ma indietreggiai, sottraendomi, almeno teoricamente, alla portata dei licantropi. Rafael girò Alfred sulla schiena. Il sangue sgorgato dalla ferita al petto si era raccolto sul pavimento. Vividi rivoletti cremisi scendevano dagli angoli della bocca, fra la barba. Non era stato più veloce di un proiettile, dopotutto. Marcus mi guardò, al di sopra del cadavere. Invece della collera che mi aspettavo, sul suo viso vidi dolore. Era afflitto per la morte di Alfred. Io avevo premuto il grilletto, ma lui aveva obbligato Alfred ad attaccarmi. Lo sapeva lui, e lo sapevo io. Lo sapevamo tutti. «Non era necessario ucciderlo...» disse, sottovoce. «Non mi ha lasciato altra scelta.» Abbassò gli occhi sul corpo di Alfred, poi guardò di nuovo me. «No, suppongo di no... Lo abbiamo ucciso insieme, lei e io.» «Per il futuro, Marcus, in modo che non ci siano altre incomprensioni fra noi, sappia che io non bluffo mai.» «Così aveva detto.» «Ma lei non mi ha creduto.» Osservò la pozza di sangue che si allargava sul pavimento. «Adesso le credo.» 12 Il corpo sul pavimento riproponeva un antico problema. Che fare del ca-
davere? Scelsi l'approccio tradizionale. «Chiamo gli sbirri.» «No», obiettò Marcus. Quell'unica parola ebbe più forza di tutto quello che aveva detto da quando Alfred era morto. «È andato, gente. Se l'avessi colpito con un proiettile normale, sarebbe guarito, ma era d'argento. Dobbiamo chiamare gli sbirri.» «Sei tanto ansiosa di andare in galera?» chiese Rafael. «Non voglio andare in galera, però l'ho ucciso.» «Credo che in questo tu abbia avuto un piccolo aiuto.» Christine si era avvicinata e stava in piedi, col suo tailleur petalo di rosa, a fissare il cadavere. Un rivolo di sangue serpeggiava verso le sue comode scarpe scollate nere. Di sicuro lo vide, ma non si mosse. Il sangue girò intorno a una scarpa e proseguì nel suo corso. Raina si avvicinò a Marcus da dietro, gli passò un braccio intorno alle spalle e gli appoggiò il viso al collo, in modo da sussurrargli qualcosa all'orecchio. Non mosse le labbra, ma poco prima era stato proprio il suo commento pungente a far precipitare la situazione. Soltanto un piccolo commento. Marcus le accarezzò un braccio, chinando la testa a baciarle il polso. Guardai intorno. Rafael era ancora inginocchiato accanto al cadavere. Quando si accorse che del sangue gli si avvicinava al ginocchio si affrettò ad alzarsi, sfiorando con la punta delle dita il pavimento insanguinato. Avrei voluto dirgli di portarsi le dita alla bocca, ma tacqui. Se le succhiò per pulirle. I suoi occhi neri guizzarono su di me. Abbassò la mano come se fosse imbarazzato, quasi lo avessi sorpreso a espletare un'intima funzione fisiologica. E forse era proprio così. I due licantropi vestiti di cuoio girarono intorno ai tavoli come per prendermi alle spalle. Indietreggiai. Avevo ancora le pistole in pugno. L'uomo dal guanto borchiato mi guardò, con un sorriso che gl'increspava gli angoli della bocca. I capelli neri e ricci gli cadevano arruffati sugli occhi, che erano di uno strano grigio liquido e brillavano di una luminosità inquietante. Non accennò a scostarsi il ciuffo dagli occhi. Al suo posto mi avrebbe dato fastidio, ma forse era soltanto perché non ero abituata a essere coperta di pelliccia. Si avvicinò maggiormente al cadavere, quindi anche a me. Puntai le pistole. Da quella distanza non avevo bisogno di mirare. Eppure impugnare due pistole non mi rendeva più sicura, anzi mi sentivo sciocca. Al tempo stesso, non volevo perdere tempo a rinfoderarne una. Nel caso della Fire-
star, avrei dovuto sollevare il maglione per infilarla nella fondina interna, e non ero del tutto certa di riuscirci senza abbassare lo sguardo. L'abitudine avrebbe potuto avere il sopravvento. È come guidare. Non ti accorgi di avere abbassato lo sguardo finché non vedi l'autotreno che ti arriva addosso. E, se Gabriel era veloce quanto Alfred, una frazione di secondo sarebbe stata sufficiente. Il suo sorriso si allargò. Si passò la punta della lingua sulle labbra, sopra e sotto, da un angolo all'altro. Gli occhi ardevano di eccitazione. Niente di magico: soltanto l'eccitazione che può accendere lo sguardo di qualunque uomo: lo sguardo con cui un uomo ti fissa chiedendosi che aspetto hai quando sei nuda e, magari, se hai voglia di fargli un bel pompino. E una descrizione un po' volgare, lo so, ma precisa. Non era lo sguardo di chi aveva voglia di fare l'amore. Era lo sguardo di chi aveva semplicemente voglia di scopare. Persino «fare sesso» sarebbe stata un'espressione inadeguata. Repressi l'impulso di distogliere lo sguardo. I suoi occhi mi facevano accapponare la pelle. Sentivo la sua eccitazione strisciare sul mio viso. Non riuscivo a guardarlo senza arrossire. Mio padre mi aveva dato una buona educazione. Lui avanzò di un passo, un movimento breve, con cui arrivò quasi a portata di mano. Il cadavere di Alfred era ancora caldo e lui giocava con me. Puntai le pistole un po' più decisamente contro di lui. «Non rifacciamolo.» «Gabriel!» intervenne Christine. «Lasciala stare!» Lui si girò a guardarla. «'Tigre! Tigre! divampante fulgore / nelle foreste della notte, / quale fu l'immortale mano o l'occhio / ch'ebbe la forza di formare / la tua agghiacciante simmetria?'» «Basta, Gabriel...» Christine arrossì. Una strofa di Blake era bastata a metterla in imbarazzo. Perché quella poesia? Era forse una tigre mannara? Ma chi era il gattino? Forse lo erano tutti e due. Lui si girò di nuovo verso di me. Vidi qualcosa scivolare nelle profondità del suo sguardo. Una sfumatura di perversione che lo induceva a desiderare di compiere il passo successivo. «Mettimi alla prova, stanotte, e andrai a far compagnia al tuo amico steso sul pavimento.» Rise, spalancando la bocca a mostrare la dentatura felina. I canini allungati non erano zanne, ma neppure denti umani. «Ms. Blake è sotto la mia protezione», annunciò Marcus. «Tu non le farai nessun male.»
«Hai lasciato che Alfred quasi mi sgozzasse, poi lo hai spinto ad attaccarmi», replicai. «Non tengo in gran conto la tua protezione, Marcus. Credo di potermela cavare benissimo da sola.» «Senza quelle pistole non faresti tanto la dura», disse la bruna vestita di pelle. Parole di sfida, ma c'era una piccola folla fra me e lei. «Non ho nessuna intenzione di rinunciarci per fare a botte con te. So di essere inferiore senza pistole. Per questo le porto.» «Rifiuta la mia protezione?» chiese Marcus. «Sì.» «Sei una stupida», commentò Raina. «Può darsi. Però sono ancora io quella con le pistole.» Gabriel rise di nuovo. «Non crede che tu possa proteggerla, Marcus. E ha ragione.» «Metti in dubbio la mia superiorità?» Mostrandomi la schiena, Gabriel si girò a fronteggiare Marcus. «Sempre.» Marcus avanzò, ma Raina lo trattenne. «Stanotte abbiamo già mostrato abbastanza panni sporchi a Ms. Blake, non credi?» Marcus esitò, mentre Gabriel si limitava a fissarlo. Infine annuì. Gabriel emise un misto di risa e di fusa, poi s'inginocchiò accanto al cadavere e immerse le dita nel sangue. «Si raffredda in fretta.» Si pulì la mano sul maglione di Alfred, prima di toccare la ferita al petto. Ne accarezzò il bordo come per raccogliere crema da una tazza. Sollevò la mano e se la portò alla bocca, mentre il sangue gli colava lungo il braccio, poi si leccò le dita insanguinate. «Basta», intervenne Marcus. La donna s'inginocchiò accanto al cadavere, dalla parte opposta, quindi si mise carponi, col sedere all'aria, come una leonessa all'abbeverata, e cominciò a leccare la pozza di sangue con colpi di lingua rapidi e sicuri. «Cristo...» sussurrai. Un movimento spazzò la sala come il vento in un campo di grano. Tutti balzarono in piedi per avvicinarsi al cadavere. Indietreggiai fino alla parete, poi, con le spalle al muro, cominciai a strisciare verso la porta. Se stava per scatenarsi una frenesia affamata, non volevo essere l'unica umana presente. Non mi sembrava salutare. «No!» La voce ruggente di Marcus echeggiò in tutta la sala. Si avvicinò al cadavere, allontanando tutti gli altri con un gesto. Persino Gabriel rotolò sul fianco sinistro per alzarsi a sedere nel sangue. La donna si allontanò
strisciando all'indietro. Gabriel invece rimase dove si trovava, anche se il Master dei lupi mannari gli era così vicino da toccarlo. Alzò lo sguardo a fissarlo, ma senza paura. «Non siamo animali. Non divoriamo i nostri morti.» «Siamo animali.» Gabriel protese una mano insanguinata verso Marcus. «Fiuta il sangue, e dimmi che non ne vuoi...» Marcus allontanò la testa di scatto, deglutendo tanto rumorosamente che lo sentii. Gabriel si alzò in ginocchio per avvicinare di nuovo il sangue al suo viso. Con una percossa Marcus scacciò la mano, ma al contempo indietreggiò per allontanarsi dal cadavere. «Sì, fiuto il sangue.» Parlò con voce molto rauca, in una sorta di cupo brontolio. «Ma sono un essere umano, e questo significa che non devo cedere ai miei impulsi.» Si girò, si fece largo tra la folla e rimontò sul palco. Ansimava come se avesse corso. Avevo già girato parzialmente intorno al palco, quindi potevo vederlo in faccia. Aveva la pelle imperlata di sudore. Dovevo andarmene. L'uomo dai capelli bianchi, quello che aveva parlato per primo chiedendo come avrebbe potuto aiutarli una cacciatrice di vampiri, era rimasto in disparte, con le braccia conserte sul tavolo, e mi guardava. Visto che era lontano, poteva guardarmi quanto voleva. Io minacciavo tutti a pistole spianate. Non c'era nessuno, in quella sala, con cui avrei voluto avere a che fare senza un'arma. Ero quasi arrivata alla porta, ma per aprirla mi serviva una mano libera. Rinfoderai la Firestar e passai la Browning nella destra. Feci scivolare la mano sinistra lungo la parete fino alla maniglia della porta e la girai. Socchiusi l'uscio. Ero abbastanza lontana da tutti per poter girare loro la schiena e spalancarla. Lo feci, ma mi bloccai sulla soglia. Il corridoio era pieno di licantropi in fila per quattro. Tutti mi fissavano con occhi sgranati e frenetici. Premetti la bocca della Browning sul petto del più vicino. «Indietro.» Lui mi fissò come se non avesse capito. Gli occhi erano marroni e del tutto umani, ma ricordavano l'espressione di quelli di un cane che cercasse di capire l'inglese. Ci provava, ma semplicemente non ci riusciva. Ci fu un movimento alle mie spalle. Con una spinta violenta della schiena, spalancai del tutto la porta, sbattendola contro la parete, e puntai la pistola verso la sala. Se i licantropi nel corridoio mi avessero assalita, sarebbe stata la mia fine. Avrei potuto stenderne qualcuno, ma non tutti.
L'uomo dai capelli bianchi sollevò le mani aperte per mostrarsi disarmato, ma ciò non fu molto rassicurante. Lo fu, invece, l'assenza di sudore sul suo viso. Non aveva lo sguardo vitreo come i licantropi che affollavano il corridoio. Sembrava molto... umano. «Il mio nome è Kaspar Gunderson. Ti serve aiuto?» Lanciai un'occhiata all'orda in attesa, prima di guardare nuovamente lui. «Certo.» Kaspar sorrise. «Accetti il mio aiuto, ma non quello di Marcus?» Sembrava divertito. «Marcus non offre aiuto. Impartisce ordini.» «Verissimo.» Rafael gli si affiancò. «Nessuno di noi prende ordini da Marcus, anche se lui lo vorrebbe.» Un suono a metà fra il gemito e l'ululato provenne dalla folla nel corridoio. Mi spostai un po' lungo il muro, puntando la pistola contro l'orda. I pericoli erano troppi. Dovevo decidermi a fidarmi di qualcuno. Rafael e l'altro sembravano più promettenti della folla. Un grido acuto e lacero giunse dalla sala. Appiattii la schiena contro la parete e mi volsi di nuovo alla sala. Che diavolo stava succedendo? Intravidi violenti movimenti di lotta fra i licantropi. La donna bruna gettò indietro la testa e strillò. «Sta combattendo», annunciò Kaspar. «Sì, ma non vincerà senza l'aiuto di un maschio dominante», commentò Rafael. «Gabriel non interverrà.» «No», disse Rafael. «Si sta godendo lo spettacolo.» «Non è ancora luna piena», dissi. «Che diavolo sta succedendo?» «E stato l'odore del sangue. Gabriel lo ha bevuto, e anche Elizabeth. Adesso, se Marcus non riuscirà a controllarli, si nutriranno tutti, a turno», spiegò Rafael. «E questo è grave?» chiesi. Rafael si limitò a guardarmi. Con le mani si strinse gli avambracci tanto violentemente che la pelle impallidì. Le unghie lo ferirono, formando piccole mezzelune di sangue. Trasse un profondo respiro purificante e annuì. Quando staccò le mani dalle braccia, tutti i tagli si riempirono di sangue, ma soltanto alcuni gocciolarono. Ferite lievi, dolore lieve. Talvolta il dolore aiuta a resistere all'invasione mentale di un vampiro. Parlò con voce tesa, ma limpida, pronunciando ogni parola con grande
attenzione, come se ciò gli richiedesse uno sforzo enorme. «Una leggenda veritiera è quella secondo cui, dopo essersi trasformato, un licantropo deve nutrirsi.» Mi fissò con occhi privi di bianco, neri, rotondi e scintillanti. «Stai per diventare mannaro e aggredirmi?» Scosse la testa. «La bestia non mi domina. Ho il controllo di me stesso.» L'altro se ne stava placidamente accanto a noi. «Perché tu non hai nessun problema?» «Non sono un predatore. Il sangue non mi turba.» Dal corridoio provenne un gemito. Un giovane che non poteva avere più di vent'anni entrò nella sala strisciando carponi, continuando a emettere il gemito, ripetutamente, come un mantra. Sollevò la testa a fiutare l'aria, si girò di scatto a fissarmi e strisciò verso di me. I suoi occhi avevano il colore del cielo di primavera. Erano innocenti come una mattina d'aprile, ma la loro espressione non lo era affatto. Mi guardava come se si stesse chiedendo che sapore avessi. Se fosse stato umano, avrei creduto che stesse pensando al sesso, ma forse stava pensando soltanto al cibo. Gli puntai la pistola alla fronte. Il suo sguardo ignorò la pistola, concentrandosi su di me. Non fui neppure sicura che l'avesse vista, la pistola. Mi toccò una gamba senza che gli sparassi. Dopotutto, non manifestava intenzioni ostili. Non ero sicura di che cosa diavolo stesse succedendo, ma non potevo certo sparargli per avermi toccata. Avrebbe dovuto fare qualcosa per meritarsi una pallottola nel cranio, persino da me. Spostai lievemente la pistola da destra a sinistra davanti ai suoi occhi, che non la seguirono. Mi afferrò i jeans con le mani, obbligandomi a inginocchiarmi. La sua testa era poco sopra la mia cintura e gli occhi azzurri mi fissavano. Mi abbracciò alla vita e mi affondò il viso nello stomaco, come per annusarmi. Gli picchiettai la testa con la canna della pistola. «Non ti conosco abbastanza per lasciarmi annusare da te, amico. Alzati.» Infilò la testa sotto il mio maglione e mi mordicchiò un fianco. S'irrigidì, contraendo le braccia. D'improvviso il suo respiro divenne affannoso. E io d'improvviso mi spaventai. Quelli che per qualcuno sono preliminari, per qualcun altro sono stuzzichini. «Toglietemelo di dosso prima che gli spari.» Rafael gridò, in un ruggito tale da sovrastare il caos crescente: «Marcus!» Quell'unica parola echeggiò e il silenzio si diffuse. Tutti si volsero a guardarlo, tutti col viso imbrattato di sangue. Elizabeth, la bruna, non si
vedeva. Soltanto Marcus non era insanguinato. Era immobile sul palco, ma vibrava come un diapason. Il suo viso era contratto come per uno sforzo enorme. Ci fissò con lo sguardo di chi stesse per affogare, ma fosse deciso a non gridare prima di sprofondare. «Jason ha qualche difficoltà a controllarsi», disse Rafael. «È un tuo lupo. Richiamalo.» Gabriel si alzò, il viso ricoperto di sangue, e snudò le zanne lampeggianti in una risata. «Mi sorprende che Ms. Blake non l'abbia ancora ucciso!» Col mento insanguinato, Raina si alzò a sua volta. «Ms. Blake ha rifiutato la protezione di Marcus. È dominante. Lasciamo che scopra che cosa significa rifiutare il nostro aiuto.» Jason continuava ad abbracciarmi con forza, il viso premuto contro il mio stomaco. Sentivo il suo respiro attraverso la camicia, caldo, e troppo pesante per quello che stava succedendo. «Mi hai chiamata qui per chiedere il mio aiuto, Marcus, ma la tua ospitalità fa schifo.» Il capobranco mi guardò con ira. Nonostante la distanza, notai un tic nervoso sul suo viso. Una contrazione, come se qualcosa di vivo cercasse di uscire attraverso la pelle. «Ormai è troppo tardi per discutere d'affari, Ms. Blake. La situazione ci è sfuggita di mano.» «Non sto scherzando. Toglimelo di dosso, Marcus. Un morto è abbastanza per stanotte.» Raina gli si avvicinò, protendendo una mano insanguinata. «Lascia che riconosca il tuo dominio e la necessità del tuo aiuto.» Marcus mi fissò. «Riconosca il mio dominio, e richiamerò Jason.» «Se comincia a trasformarsi, lo ammazzo. Sai che lo farò, Marcus. Richiamalo.» «Perché io le accordi la mia protezione, lei deve riconoscere la mia superiorità.» «Vaffanculo, Marcus. Non ti sto chiedendo di salvare me, ma lui. Oppure non te ne frega niente dei membri del tuo branco?» «Rafael è un capobranco», disse Raina. «Che lo salvi lui.» Un tremito scosse il giovane, che rinserrò dolorosamente la presa e si alzò, sempre con le mani allacciate dietro la mia schiena. Se avesse stretto di più, gli sarei passata attraverso. Era alto circa come me, quindi i nostri visi erano molto vicini. Gli occhi erano colmi di una brama smodata. Chinò la testa come per baciarmi, ma fu scosso da un altro tremito. Affondò il viso nei miei capelli, sfiorandomi il collo con le labbra.
Gli premetti la bocca della Browning sul petto. Se avesse cercato di mordermi, sarebbe morto. Ma, mentre Alfred era stato un bullo, Jason sembrava semplicemente incapace di controllarsi, come per effetto di una costrizione. Se avessi aspettato troppo, sarei morta, ma non potevo sparargli prima di essere stata aggredita. E poi, dopo aver fatto fuori Alfred, cominciavo a sentirmi una dal grilletto un po' troppo facile. Non molto, soltanto un poco. Quindi potevo lasciare ancora un po' di corda a Jason. Coi denti, questi mi sfiorò il collo e mi afferrò la pelle. Le mie pulsazioni accelerarono. Aumentai la pressione sul grilletto. Non potevo aspettare che mi squarciasse la gola. «Rafael, no!» esclamò Kaspar. Jason alzò la testa di scatto, con gli occhi stralunati. Rafael era in piedi accanto a noi e gli offriva un braccio, sul quale il sangue scorreva da alcuni graffi profondi. «Sangue fresco, lupo», disse. Jason si scostò da me con tale violenza da proiettarmi contro la parete. Tutto ciò che m'impedì di perdere conoscenza fu che sbattei le spalle prima della testa. Caddi a sedere sul pavimento, puntando la pistola per puro istinto. La forza di quel gesto mi lasciò con lo stomaco svuotato dalla paura. Gli avevo permesso di annusarmi il collo, anche se avrebbe potuto farmi a pezzi con quelle mani solo apparentemente umane. Forse sarei riuscita a ucciderlo, ma poi sarei morta anch'io. Jason si accoccolò dinanzi a Rafael. Come un'onda sospinta dal vento, un'increspatura gli percorse la schiena. Cadde, raggomitolandosi, la schiena che pulsava sotto la camicia. Rafael rimase in piedi dinanzi a lui, lasciando colare il sangue sul pavimento. «Spero che tu capisca che cosa ho fatto per te.» Mi restava abbastanza fiato per parlare. «Vuoi che gli spari?» Un'espressione strana apparve sul suo viso, spegnendo i neri occhi rotondi. «Mi offri la tua protezione?» «Protezione... Tu aiuti me, io aiuto te.» «Grazie, ma devo finire quello che ho cominciato. E credo che tu debba andare, prima di esaurire i proiettili d'argento.» Kaspar mi offrì una mano per aiutarmi a rialzarmi. La accettai. Aveva la pelle insolitamente calda, ma niente di più. Non sembrava posseduto dalla smania di toccarmi o di divorarmi. Una gradita novità. Dal corridoio i licantropi stavano entrando nella sala, a due a due, a tre a tre, a decine. Alcuni avanzarono come sonnambuli verso il cadavere all'estremità opposta. Splendido. Altri si orientarono su Rafael e su Jason, che
si contorceva sul pavimento. Comunque, il re dei ratti aveva detto che se la sarebbe cavata. Cinque o sei, invece, si dedicarono a me e a Kaspar, fissandoci con occhi bramosi. Una ragazza cadde carponi e cominciò a strisciare verso di me. «Puoi fare qualcosa?» domandai. «Sono un cigno. Mi considerano cibo.» Ci volle tutto il mio autocontrollo per non girarmi a guardarlo. Mi concentrai sulla licantropa che strisciava verso di me. «Un cigno, eh? Magnifico... Hai qualche suggerimento?» «Feriscine uno. Rispettano il dolore.» La ragazza si protese verso di me. Osservando il braccio snello, non feci fuoco. Le munizioni di sicurezza Glaser sono abbastanza potenti da staccare un braccio di netto, e non ero affatto sicura che i licantropi fossero in grado di guarire dalle amputazioni. Mirai a un grosso maschio che stava dietro la ragazza e gli sparai nella pancia. Cadde strillando, col sangue che sgorgava fra le dita. La ragazza si girò, balzando ad affondargli il viso nello stomaco. Mentre lui l'allontanava con un manrovescio, gli altri si fecero sotto. «Andiamocene, finché possiamo», suggerì Kaspar, accennando alla porta. Non ebbe bisogno di ripetermelo. D'improvviso apparve Marcus. Troppo concentrata sulla minaccia immediata, non lo avevo visto arrivare. Staccò due uomini dal ferito, scagliandoli lontano come se fossero giocattoli, poi sfilò dalla giacca azzurra di lino una cartelletta e me la porse. Con una voce che assomigliava più che altro a un brontolio, disse: «Kaspar potrà rispondere alle sue domande». E si girò con un ringhio a proteggere dagli altri licantropi l'uomo che avevo ferito. Kaspar mi spinse oltre la porta. Lanciai un'ultima occhiata a Jason, trasformato in un ammasso semiliquido di pelliccia e ossa. Rafael si era tramutato nel ratto mannaro nero che avevo conosciuto alcuni mesi prima. Era evidente la corona marchiata a fuoco sul suo avambraccio, simbolo della sua sovranità. Non sanguinava più. La trasformazione lo aveva guarito. La porta sbatté, senza che riuscissi a capire chi fosse stato a chiuderla. Io e Kaspar restammo soli nel corridoio. Dalla sala non giungeva più nessun suono. Il silenzio era così profondo da rintronarmi. «Non riesco a sentirli.» «La sala è isolata acusticamente», spiegò Kaspar.
Logico. Fissai la cartella, che recava un'impronta digitale insanguinata. La tenni cautamente per il bordo, in attesa che il sangue si asciugasse. «Dobbiamo sederci a discutere d'affari?» «Conoscendo Marcus, le informazioni sono sicuramente complete. Come burocrate è molto meticoloso.» «Come capobranco, però, non è granché.» Lanciò un'occhiata alla porta. «Non lo direi qui, se fossi in te.» Un punto a suo favore. Lo guardai. I suoi capelli, fini come quelli di un bambino, erano quasi bianchi e sembravano piume. Scossi la testa. Era impossibile. Mi sorrise. «Coraggio, tocca pure...» Lo feci. Passandogli le dita fra i capelli, scoprii che erano davvero soffici e morbidi come piume. Il suo cuoio capelluto emanava calore come se fosse in preda alla febbre. «Cristo...» Qualcosa di pesante urtò la porta e la vibrazione si trasmise al pavimento. Indietreggiai, esitando a puntare la Browning in quella direzione, poi scelsi un compromesso e infilai una mano nella tasca del trench. Era il mio unico indumento che avesse tasche abbastanza profonde da nascondere la Browning. Kaspar aprì la porta del ristorante. C'erano ancora alcuni clienti, umani che mangiavano bistecca e contorno, ignari del potenziale annientamento da cui li separavano soltanto due porte. Provai una smania orribile di gridare loro di scappare subito per aver salva la vita, ma se lo avessi fatto non avrebbero capito, senza contare che il Lunatic Cafe esisteva da anni senza che vi si fosse mai verificato un solo incidente, almeno a quanto mi risultava. D'altronde, poco prima avevo ucciso un uomo, un lupo mannaro, o quello che era, e non credevo che sarebbero rimaste prove sufficienti per gli sbirri, a parte, forse, qualche osso ben masticato. Chi poteva mai sapere, dunque, quali altri crimini segreti fossero stati commessi lì? Kaspar mi consegnò un biglietto da visita bianco, con una scritta scintillante a caratteri gotici: Kaspar Gunderson, antiquariato e collezionismo. «Se avrai qualche domanda, cercherò di rispondere.» «Anche se le domande riguarderanno quello che sei?» «Anche in quel caso.» Parlando, attraversammo il locale. Al bar mi offrì la mano. L'uscita era vicina. Per quella notte il divertimento era quasi finito, grazie a Dio.
Il sorriso mi si congelò sul volto nel riconoscere un cliente. Edward sedeva al banco a sorseggiare un drink freddo in un bicchiere alto. Non mi degnò di un'occhiata, ma sapevo che mi aveva vista. Kaspar reclinò la testa. «Qualcosa non va?» «No, no...» La mia risposta fu tanto affrettata che non suonò credibile neppure a me stessa, così cercai di produrmi nel mio miglior sorriso professionale. «È soltanto che la notte è stata lunga...» Lui non mi credette e io me ne fregai. Non sono mai stata brava a improvvisare. Kaspar lasciò perdere, ma con lo sguardo, nell'uscire, scrutò la clientela alla ricerca di chi o che cosa mi aveva turbata. Edward aveva un aspetto simpatico e assolutamente ordinario. Era alto un metro e settantadue, corporatura snella, capelli biondi e corti. Quella notte indossava una giacca a vento nera, jeans e scarpe dalla suola morbida. Assomigliava un po' a Marcus ed era, a suo modo, altrettanto pericoloso. Mi ignorò senza sforzo, quindi forse non voleva essere notato. Nel passargli accanto avrei voluto chiedergli che cosa diavolo stesse facendo lì, ma non volevo far saltare la sua copertura. Edward era un assassino specializzato in vampiri, licantropi e altri umanoidi soprannaturali. Aveva cominciato ad ammazzare esseri umani, ma era troppo facile per lui, che invece amava le sfide. Fuori, nella fredda oscurità, indugiai a chiedermi che cosa fare. Con una mano tenevo la cartella insanguinata, con l'altra impugnavo ancora la Browning e stava per venirmi un crampo, in seguito al deflusso dell'adrenalina. L'avevo impugnata per troppo tempo senza far fuoco. La rinfoderai e mi misi la cartella sottobraccio. I licantropi erano impegnati a divorarsi a vicenda. Probabilmente sarei riuscita ad arrivare alla macchina persino senza armi in pugno. Edward non uscì. Stava braccando qualche licantropo, ma chi? Dopo quello che avevo appena visto, non ero sicura che dar loro la caccia fosse un'idea così cattiva. Naturalmente, anche Richard era uno di loro, e io non volevo affatto che qualcuno lo braccasse. Dovevo assolutamente chiedere a Edward delle spiegazioni, ma, visto che Richard non era lì, non c'era fretta. Gli altri avrebbero potuto correre i loro rischi. Dedicai un pensiero fugace a Rafael, decidendo che non c'era motivo di preoccuparsi. Conosceva Edward, anche se non sapeva esattamente che cosa faceva per vivere. A metà strada mi fermai sul marciapiede. Era il caso di avvertire Edward
che Rafael avrebbe potuto riconoscerlo e avvisare gli altri? La testa mi doleva. Per quella notte, la Morte avrebbe dovuto cavarsela da sola. Per i vampiri, io ero la Sterminatrice, ma Edward era la Morte incarnata. Dopotutto, io non li avevo mai bruciati col lanciafiamme. Ripresi a camminare. Edward era adulto, faceva paura, sapeva badare a se stesso e di sicuro quelli che si trovavano nella sala interna del Lunatic Cafe non avevano bisogno del mio aiuto. Anche in caso contrario, non ero affatto certa di avere voglia di aiutarli. Ciò mi riportò alla cartella. Per che cosa potevano mai avere bisogno di me? Che cosa potevo fare, io, che non potessero fare loro? Quasi preferivo non scoprirlo. Tuttavia non gettai la cartella nel primo cestino che incontrai. La verità era che, se non ne avessi letto il contenuto, sarei stata assillata dal dubbio. Si dice che la curiosità ammazza la gatta... Be', mi auguravo che non succedesse lo stesso ai risveglianti. 13 Alle 5.35 del mattino ero sotto le coperte con la cartella. Il mio pupazzo preferito, il pinguino Sigmund, era seduto accanto a me. In passato avevo cercato la compagnia di Sigmund soltanto quando qualcuno stava tentando di farmi fuori, ma ultimamente dormivo con lui quasi sempre. Era stato un anno tremendo. La Browning Hi-Power era nella sua seconda casa, cioè nella fondina assicurata alla testiera del letto. Qualche volta dormo senza il pinguino, ma mai senza la pistola. La cartella conteneva sei fogli diligentemente dattiloscritti a spaziatura doppia. Il primo conteneva una lista di otto nomi, ciascuno affiancato da quello di un animale. Il secondo e il terzo fornivano notizie sugli individui nominati nell'elenco. Otto licantropi erano scomparsi. Volatilizzati. Niente cadaveri, nessuna traccia di violenza. Niente di niente. I famigliari non sapevano nulla, nessun licantropo sapeva niente. Rilessi i nomi. Margaret Smitz era il numero sette, lupo. Era la moglie di George Smitz? Peggy è il diminutivo di Margaret. Non chiedetemi come si ricavi Peggy da Margaret, ma è così. Gli altri fogli contenevano suggerimenti da parte di Marcus a proposito delle persone con cui avrei dovuto parlare. Piccolo bastardo fanatico del comando! Spiegava anche perché aveva chiesto il mio aiuto. Pensava che gli altri licantropi avrebbero parlato più liberamente con me che con lui o
con chiunque dei suoi lupi. Senza scherzi. Ero una specie di compromesso. Dato che non si fidavano della polizia, a chi altri si sarebbero mai potuti rivolgere gli svantaggiati della luna che avevano bisogno di aiuto? Be', naturalmente alla vostra cara amica risvegliante. Non ero sicura di cosa avrei potuto fare per loro. Un motivo c'era se avevo mandato George Smitz da Ronnie. Non ero una detective. In vita mia non mi ero mai occupata di casi di persone scomparse. Il giorno dopo, anzi quello stesso mattino, quando ci saremmo incontrate, avrei informato Ronnie di tutto. La scomparsa della moglie di George era un caso singolo, ma quella di otto licantropi costituiva uno schema di comportamento. Marcus e la sua gente sarebbero dovuti andare alla polizia, tuttavia non avevano fiducia nella legge umana e, visto che fino agli anni '60 i licantropi erano stati perseguitati e bruciati sul rogo, non li si poteva certo biasimare per essere guardinghi. Misi la cartella nel cassetto del comodino. Dallo stesso cassetto presi un biglietto da visita bianco, sul quale era stampato soltanto un numero di telefono. Edward me lo aveva dato due mesi prima, offrendomi per la prima volta in assoluto la possibilità di contattarlo prima che fosse lui a farsi vivo, cosa che, di solito, succedeva quando non avevo nessuna voglia di vederlo. Era il numero di una segreteria telefonica attiva ventiquattr'ore su ventiquattro. La voce disse: Al segnale lasciate un messaggio. Si udì un trillo basso e prolungato. «Sono Anita. Che diavolo ci fai in città? Chiamami al più presto.» Di solito non ero così brusca quando lasciavo messaggi, ma... Era Edward. Mi conosceva. E poi, non apprezzava le smancerie. Regolai la sveglia, spensi la luce e mi avvolsi nelle coperte, col mio fido pinguino accanto. Il telefono squillò prima che potessi riscaldarmi. Decisi di aspettare che rispondesse la segreteria, ma all'ottavo squillo cedetti. Avevo dimenticato di attivarla. «È meglio che sia importante», dissi. «Hai detto di chiamarti al più presto...» Era Edward. Portai il ricevitore sotto le coperte. «Ciao, Edward.» «Ciao.» «Perché sei in città? E perché eri al Lunatic Cafe?» «E tu perché c'eri?» «Sono quasi le sei del mattino e non ho ancora dormito. Non ho tempo per i giochetti.»
«Cosa c'era nella cartella che avevi? Era sporca di sangue fresco. Di chi era quel sangue?» Sospirai. Non sapevo bene che cosa dirgli. Poteva essermi di grande aiuto, ma poteva anche ammazzare la gente che dovevo aiutare. Scelte, sempre scelte. «Non posso dirti un cazzo senza prima essere sicura che non sto mettendo in pericolo nessuno.» «Sai bene che non caccio gli esseri umani, se è questo che ti preoccupa.» «Dunque sei a caccia.» «Sì.» «Di cosa, questa volta?» «Di licantropi.» Che sorpresa! «Chi?» «Non ho ancora un nome.» «Allora come fai a sapere chi devi ammazzare?» «Ho un film.» «Un film?» «Vieni da me in albergo domani. Ti mostro il film e ti dico tutto quello che so.» «Di solito non sei tanto disponibile. Dov'è la trappola?» «Nessuna trappola. Semplicemente, potresti essere in grado d'identificarli.» «Non conosco molti licantropi...» «Benissimo. Vieni comunque a vedere il film.» Sembrava molto sicuro di sé. D'altronde, lo era sempre. «Okay. Dove stai?» «All'Adams Mark. Sai dov'è?» «Sì. Quando?» «Lavori domani?» «Sì.» «Allora dimmi tu quando ti fa comodo.» Era troppo gentile. «Di quanto tempo hai bisogno, per la tua piccola proiezione?» «Due ore, forse meno.» Scossi la testa, e subito mi resi conto che non poteva vedermi. «Potrò passare soltanto dopo il mio ultimo lavoro. Prima non farò pause.» «A che ora?» «Diciamo fra mezzanotte e mezzo e l'una.» Bastò dirlo per farmi sentire stanca. Ancora una volta avrei dormito poco o niente.
«Ti aspetto.» «Un momento. Con che nome ti sei registrato?» «Camera 212. Devi soltanto bussare.» «Ce l'hai un cognome, vero?» «Certo. Buonanotte, Anita.» La comunicazione fu interrotta e il ricevitore cominciò a ronzare come uno spirito inquieto. A tentoni, lo rimisi sulla forcella, poi attivai la segreteria telefonica. Regolai il volume della suoneria al minimo e mi raggomitolai sotto le coperte. A meno di non esservi costretto, Edward non condivideva mai le informazioni di cui era in possesso. Eppure si era dimostrato disposto a collaborare. Era stato troppo disponibile. C'era sotto qualcosa. E, conoscendo Edward, si trattava sicuramente di qualcosa di sgradevole. Licantropi scomparsi senza lasciare traccia... Sembrava proprio il tipo di gioco al quale Edward si sarebbe divertito molto a partecipare. Per qualche motivo, però, non credevo affatto che fosse lui il responsabile delle sparizioni. Gli piaceva che gli fosse riconosciuto il merito delle sue imprese omicide, purché la polizia non potesse collegarlo direttamente alle vittime. Però un responsabile c'era. I cacciatori di taglie specializzati in licantropi assassini non mancavano. Forse Edward li conosceva e sapeva se erano disposti a commettere un omicidio. Se tutti gli otto scomparsi erano morti, infatti, si trattava di omicidio, visto che nessuno di loro, a quanto ne sapevo, era ricercato. Forse la polizia avrebbe potuto fornirmi ulteriori informazioni, ma non intendevo coinvolgerla. Se nella sua giurisdizione i licantropi scomparivano, Dolph ne era sicuramente al corrente. I gorghi del sonno mi risucchiarono poco a poco. Con la torcia elettrica illuminai la vittima. Vidi il volto congelato nella neve, un bulbo oculare schiacciato come un chicco d'uva. La mascella stritolata cercò di muoversi per parlare. Dalla bocca martoriata provenne un sibilo: «Anita...» Il mio nome fu ripetuto più e più volte. Mi svegliai abbastanza per girarmi su un fianco, poi il sonno mi sommerse come una densa e pesante marea nera. Se sognai di nuovo, non me lo ricordo. 14 Ogni anno mi domando che cosa regalare per Natale a Judith, la mia matrigna. In quattordici anni dovremmo avere imparato a conoscerci, ormai. Eppure Judith e io non riusciamo a superare un abisso d'incomprensioni e
malintesi. Lei vorrebbe che fossi una figlia modello, molto femminile, mentre io vorrei riuscire ad amarla come la mia defunta madre. E, dato che il mio desiderio non si potrà mai realizzare, ho sempre fatto in modo che neppure il suo diventasse realtà. D'altronde, lei ha Andria, che è perfetta. E una figlia perfetta è sufficiente, in una famiglia. Andai con Ronnie a fare acquisti natalizi dopo aver corso sulle viscide strade invernali alle nove del mattino. Ci ero riuscita, benché avessi dormito soltanto tre ore, e correre mi aveva fatto bene. Il vento gelido che mi aveva schiaffeggiato il viso era stato ancor più tonificante. Così, coi capelli ancora umidi dopo la doccia, ero del tutto sveglia e piena di energia, almeno per il momento, quando arrivammo al centro commerciale. Ronnie era alta un metro e settantacinque, e portava i capelli biondi tagliati alla paggio da quando la conoscevo. In effetti, devo ammettere che anch'io, da allora, non avevo mai cambiato acconciatura. Indossava jeans, stivali da cowboy e una corta giacca a vento sopra un maglione a girocollo color lillà. Non era armata. Non credeva che gli elfi del centro commerciale si sarebbero scatenati in un'orgia di violenza. Io ero già in tenuta da lavoro perché subito dopo le compere avrei dovuto andare in ufficio. La fondina ascellare era assicurata alla cintura nera che sosteneva la gonna blu marino. La gonna era troppo corta per i miei gusti, ma Ronnie aveva insistito. Lei era un po' più attenta di me alla moda. D'altra parte, chi non lo è? La giacca era blu notte come gli occhi di Jean-Claude, adorna di disegni orientaleggianti ancora più scuri, quasi neri. La camicetta scollata era blu come la giacca. Con scarpe nere a tacco alto ero molto appariscente. Ronnie aveva scelto anche la giacca. L'unico difetto era che non nascondeva molto bene la Browning, che s'intravedeva mentre camminavo. Comunque nessuno, fino a quel momento, era scappato urlando a chiamare la vigilanza. Ma forse qualcuno lo avrebbe fatto, se si fosse saputo che la mia bella giacca nascondeva anche un pugnale assicurato a ciascun avambraccio. Ronnie guardava i gioielli esposti da Krigle, mentre io fissavo i suoi occhi. Erano grigi. Lo stesso colore degli occhi di Gabriel, il licantropo che avevo conosciuto la notte precedente. Però avevano qualcosa di diverso. Erano umani. Quelli di Gabriel, invece, non lo erano, neppure quando lui era in forma umana. «Che c'è?» Scossi la testa. «Ripensavo alla notte scorsa...» «Che ne pensi del tuo ragazzo, dopo la notte scorsa?» La gioielleria era
piena di clienti che aspettavano in tripla fila. Eravamo riuscite a farci strada fino al bancone, ma io sapevo che non avrei comprato niente, perciò ero rimasta accanto a Ronnie a scrutare la gente. Tutte le facce sembravano ostili, ma non era niente di personale. Erano tutti impegnati a fare acquisti quando mancavano soltanto due settimane a Natale. Nel negozio affollato di gente che si urtava e spingeva, cominciai a soffrire un po' di claustrofobia. «Hai intenzione di comprare qualcosa?» Ronnie girò la testa verso di me e sollevò lo sguardo. «Non hai risposto alla mia domanda.» «Se usciamo da questo bordello, forse lo farò.» Raddrizzò la testa e con un cenno m'invitò a precederla. Cominciai a farmi largo verso l'uscita. Sono bassa e, in quel momento, ero troppo elegante per incutere timore, ma i clienti si fecero da parte, forse perché videro la pistola. Fuori respirai profondamente. Le gallerie del centro commerciale erano affollate, ma non quanto i negozi. Lì, almeno, non ero costretta a sopportare spinte e strusciamenti. Se qualcuno mi si fosse avvicinato troppo, avrei potuto mandarlo al diavolo. «Vuoi sederti?» Miracolosamente, c'era una panchina con due posti liberi. Ronnie me lo aveva chiesto perché avevo i tacchi alti. Quanto a lei, poteva restare in piedi senza problemi perché i suoi stivali erano abbastanza comodi. Comunque, io non avevo ancora male ai piedi. Forse mi stavo abituando a portare i tacchi... Scossi la testa. «Andiamo alla Nature Company. Forse ci troverò qualcosa per Josh.» «Quanti anni ha? Tredici?» chiese Ronnie. «Quindici. Il mio fratellino era già alto come me, l'anno scorso. Ormai sarà un gigante. Judith dice che sta crescendo così in fretta che deve cambiare continuamente i jeans.» «Che sia un suggerimento? Potresti regalargli un paio di jeans.» «No, voglio comprargli qualcosa di divertente, non vestiti.» «Molti adolescenti sarebbero contenti di ricevere vestiti in regalo.» «Non Josh. O non ancora, comunque. Sembra che abbia preso da me.» «Cosa intendi fare con Richard?» «Non vuoi lasciar perdere, eh?» «Non t'illudere.» «Non so ancora che cosa ho intenzione di fare. Dopo quello che ho visto la notte scorsa, e dopo quello che mi ha detto Jean-Claude... Semplicemente, non lo so.»
«Sai bene che Jean-Claude lo ha fatto apposta, per cercare di allontanarvi.» «Lo so, e ha funzionato. Adesso ho l'impressione di non conoscere più Richard. È come se avessi baciato uno sconosciuto.» «Non permettere a faccia zannuta di rovinare il vostro rapporto.» Sorrisi. Jean-Claude sarebbe stato contento di essere chiamato «faccia zannuta». «Non glielo permetterò.» Ronnie mi tirò debolmente un pugno alla spalla. «Non ti credo.» «Se ci lasceremo, non sarà per colpa di Jean-Claude. Se Richard mi ha mentito per mesi...» Non terminai la frase. Non era necessario. Intanto eravamo arrivate alla Nature Company, che brulicava di clienti come un vaso pieno di lucciole, ma non era altrettanto fulgido e gioioso. «Su che cosa, esattamente, avrebbe mentito Richard?» «Non mi ha detto della sua contesa con Marcus.» «Tu invece gli dici tutto...» «Be', no.» «Non ti ha mentito, Anita. Semplicemente non te ne ha parlato. Lascia che si spieghi. Forse aveva le sue buone ragioni.» Mi girai a guardare Ronnie. Il suo viso era così pieno di preoccupazione, che subito distolsi gli occhi. «È in pericolo da mesi e non me lo ha detto. Io invece avevo bisogno di saperlo.» «Forse non ha potuto dirtelo. Lo saprai soltanto quando glielo chiederai.» «La notte scorsa, Ronnie, ho visto i licantropi.» Scossi la testa. «E tutto quello che ho visto non era umano. Non ci andava neppure vicino.» «Dunque Richard non è umano... Be', nessuno è perfetto.» La guardai. Sorrideva. Fui costretta a sorridere anch'io. «Gli parlerò.» «Chiamalo, prima di uscire dal centro commerciale, e invitalo a pranzo, oggi stesso.» «Sei molto insistente.» Ronnie si strinse nelle spalle. «Ho imparato dalla migliore.» «Grazie. Cos'hai saputo da George Smitz?» «Niente di nuovo da aggiungere ai documenti che mi hai mostrato, a parte il fatto che lui, a quanto pare, non sa che la moglie è una degli otto licantropi scomparsi. Crede che sia l'unica. Io ho una sua foto, e tu hai bisogno di quelle degli altri. La prima cosa utile, in un caso di persona scomparsa, è una fotografia. Senza foto, potresti incrociare per strada la persona che cerchi senza riconoscerla.»
«Chiederò le foto a Kaspar.» «Non a Richard?» «Sono piuttosto arrabbiata con lui. Non voglio chiedergli aiuto.» «Sei meschina.» «È una delle mie qualità migliori.» «Controllerò attraverso i soliti canali, ma, se sono tutti licantropi, scommetto che non sono semplicemente scomparsi.» «Credi che siano morti?» «Tu no?» «Sì.» «Ma chi mai potrebbe eliminare otto licantropi senza lasciare tracce?» «Questo preoccupa anche me...» Toccai un braccio di Ronnie. «D'ora in poi dovrai essere sempre armata.» Sorrise. «Lo prometto, mammina.» Scossi la testa. «Affrontiamo un altro negozio? Se trovo un regalo per Josh, sono a metà dell'opera.» «Devi comprare un regalo anche per Richard, sai?» «Scusa?» «Devi comprare un regalo al tuo ragazzo. È così che si fa.» «Merda!» Ero un po' arrabbiata con Richard, però Ronnie aveva ragione. Dovevo comprargli qualcosa. E se lui mi avesse comprato un regalo? Mi sarei sentita in colpa. Se invece io gli avessi comprato un regalo e lui no, allora avrei potuto sentirmi superiore, o arrabbiata. Quasi quasi, sperai che non mi comprasse niente. Stavo cercando una scusa per scaricare Richard? Forse. Naturalmente, era possibile che lui mi spiegasse tutto, offrendomi una valida scusa su un piatto d'argento... Pardon, d'oro. Ero pronta a uno scontro risolutivo, e ciò non prometteva nulla di buono. 15 La cliente con cui avevo appuntamento all'una, Elvira Drew, sorseggiava il caffè tenendo la tazza fra le dita dalle unghie eleganti, che uno smalto chiaro, incolore quando non era direttamente illuminato, faceva scintillare come madreperla. Anche in tutto il resto dimostrava di avere buon gusto. Il tailleur era di quel colore interessante che un momento sembra azzurro e l'attimo dopo verde. Lo chiamano verdeazzurro, ma non è un termine adeguato. Diciamo che il tessuto era quasi verde e, per scintillare così, come
se avesse vita propria, doveva essere molto costoso. Probabilmente costava più quel tailleur di tutto il mio guardaroba. I lunghi capelli biondi e lisci cadevano elegantemente sulla schiena. Era l'unica nota stonata. All'abito, alla manicure, alle scarpe in tinta, al trucco quasi invisibile, avrebbe dovuto intonarsi un'acconciatura raffinata. Il fatto che portasse i capelli sciolti, quasi disordinati, me la rendeva più simpatica. Quando alzò gli occhi, capii perché aveva speso tanto per quel vestito. Erano dello stesso, sbalorditivo verdeazzurro. La combinazione mozzava il fiato. Seduta di fronte a lei a sorseggiare caffè, ero contenta di essere elegante anch'io. Se mi fossi vestita come facevo di solito, mi sarei sentita come la cugina di campagna. Quel giorno, invece, potevo reggere il confronto. «Che cosa posso fare per lei, Ms. Drew?» Sorrise, e il sorriso non fu affatto deludente. Sembrava consapevole dell'effetto che quel gesto aveva sulla gente. Avrei quasi avuto paura di vederlo in presenza di un uomo. Se era così abbagliante con me, il pensiero di come avrebbe potuto essere con Jamison o con Manny quasi mi atterrì. «Sono una scrittrice. Sto lavorando a un libro sui licantropi.» Il mio sorriso appassì. «Davvero? E come mai ha pensato di rivolgersi all'Animators Inc.?» «Ogni capitolo del libro è dedicato a un diverso animale mannaro. Vorrei raccontare la storia di ogni genere, la biografia dei rappresentanti più famosi e il profilo personale di un licantropo tuttora vivente.» Quando il viso cominciò a dolermi, mi resi conto che ormai il mio sorriso doveva assomigliare a una specie di ghigno. «Sembra un progetto molto interessante. In cosa posso esserle d'aiuto?» Continuando a fissarmi con quegli occhi stupendi, ammiccò e parve perplessa. Era brava a sembrare perplessa. Avevo visto l'intelligenza nel suo sguardo soltanto un attimo prima, perciò l'apparenza da oca bionda era falsa. Avrebbe funzionato se fossi stata un uomo? Speravo proprio di no. «Mi manca una testimonianza. Ho bisogno di incontrare un ratto mannaro. Ma potrà essere un'intervista assolutamente confidenziale.» L'oca bionda scomparve con la stessa celerità con cui era apparsa. Aveva capito subito che non ci ero cascata. Aveva detto che l'intervista avrebbe potuto essere, e non che sicuramente sarebbe stata, del tutto confidenziale. Sospirai e rinunciai al sorriso. «Che cosa le fa credere che io sia in grado di trovarle un ratto mannaro?»
«Mr. Vaughn mi ha garantito che, se esiste, in questa regione, una persona in grado di aiutarmi, quella è lei.» «Davvero ha detto così?» Sorrise, con gli occhi sfavillanti. «Sembrava molto sicuro.» «Il mio capo promette un sacco di cose, Ms. Drew, molte delle quali non è in grado di mantenere.» Mi alzai. «Se vuole essere così gentile da aspettare qua un momento, vado a consultare Mr. Vaughn.» «Sì, certo. Aspetto qui.» Il suo sorriso rimase affabile, ma qualcosa nei suoi occhi mi lasciò intendere che aveva capito esattamente quale genere di consulto avevo in mente. L'anticamera era tutta arredata in verde chiaro, dalla carta da parati con sottili disegni orientali al tappeto folto. In ogni spazio libero prosperavano piante, perché Bert pensava che rendessero l'ufficio più accogliente. Quanto a me, pensavo invece che lo facessero assomigliare alla giungla finta di un set cinematografico da quattro soldi. Mary, la nostra segretaria del turno di giorno, alzò lo sguardo dalla tastiera del computer con un sorriso. Aveva più di cinquant'anni, coi capelli un po' troppo biondi per essere naturali. «Ti serve qualcosa, Anita?» Il suo sorriso era cordiale. Quasi mai l'avevo vista di cattivo umore, e quella era una qualità importante, per un'addetta alla ricezione. «Vorrei vedere il capo.» Reclinò la testa, lo sguardo improvvisamente guardingo. «Perché?» «Lo vedrò comunque, oggi. Ho chiesto a Craig di fissarmi un appuntamento.» Consultò l'agenda. «Craig l'ha fatto, e Bert l'ha cancellato.» Il sorriso scomparve. «È davvero molto impegnato, oggi.» Se le cose stavano così... Mi incamminai verso l'ufficio di Bert. «È con un cliente...» disse Mary. «Fantastico.» Bussai e aprii la porta senza attendere risposta. La scrivania occupava gran parte dell'ufficio azzurro, che era il più piccolo dei tre, ma era riservato esclusivamente a Bert. I miei colleghi e io utilizzavamo gli altri a rotazione. All'università, Bert aveva giocato a football, e si vedeva ancora. Spalle larghe, mani forti, alto un metro e novantatré, e perfettamente consapevole di esserlo. La sua abbronzatura da marinaio era svanita durante l'inverno, perciò i suoi bianchi capelli a spazzola risaltavano un po' meno. Gli occhi erano di un grigio strano, simile al colore di un vetro sporco, e in quel momento mi fissavano con ira. «Sono impegnato con un cliente, Anita.»
Lanciai un'occhiata all'uomo che gli sedeva di fronte. Era Kaspar Gunderson. Era vestito completamente di bianco, e ciò esaltava ogni sua caratteristica. Non riuscivo proprio a capire come mi fosse stato possibile guardarlo e crederlo umano. Sorrise. «Ms. Blake, presumo.» E mi offrì la mano. La strinsi. «Se fosse così gentile da aspettare fuori soltanto per qualche istante, Mr...» «Gunderson.» «Mr. Gunderson. Ho bisogno di parlare con Mr. Vaughn.» «Credo che si possa rimandare a più tardi, Anita», disse Bert. «No, non si può.» «Sì che si può.» «Davvero vuoi discutere davanti a un cliente, Bert?» Fissandomi, Bert socchiuse gli occhietti grigi. Fece il suo sguardo cattivo, che con me, però, non funzionava mai. Poi sorrise, teso. «Insisti?» «Esatto.» Inspirò a lungo, profondamente, quindi espirò con lentezza, come se stesse contando fino a dieci. Si rivolse a Kaspar col suo miglior sorriso professionale, breve e abbagliante come un lampo. «Se vuole scusarci per qualche minuto, Mr. Gunderson... Non ci vorrà molto.» Kaspar si alzò, mi salutò con un cenno della testa e uscì. Chiusi la porta dietro di lui. «Perché diavolo sei entrata qui, così, mentre stavo parlando con un cliente?» Bert si alzò. Aveva le spalle tanto larghe, che quasi sfioravano le pareti opposte dell'ufficio. Avrebbe dovuto sapere che cercare d'intimidirmi con la sua stazza era inutile. Ero sempre stata la bimba più piccola del quartiere, quindi era da moltissimo tempo che i tipi grandi e grossi non mi facevano nessuna paura. «Ti avevo detto di non mandarmi più clienti per incarichi che esulano dalle mie competenze.» «Le tue competenze le stabilisco io. Sono il tuo capo, ricordi?» Si appoggiò alla scrivania, con le mani aperte. Mi ci appoggiai anch'io allo stesso modo, dalla parte opposta. «Ieri mi hai appioppato un caso di persona scomparsa. Che cazzo ne so io delle persone scomparse?» «Sua moglie è una licantropa.» «E questo significa che dobbiamo prenderci i suoi soldi?»
«Se sei in grado di aiutarlo, sì.» «Be', l'ho passato a Ronnie.» Bert si raddrizzò. «Visto? Lo hai aiutato. Non avrebbe mai trovato Ms. Sims senza il tuo aiuto.» Sembrava di nuovo ragionevole, e io non volevo affatto che lo fosse. «Adesso c'è Elvira Drew nel mio ufficio. Che diavolo dovrei fare con lei?» «Conosci qualche ratto mannaro?» Sedette e intrecciò le mani sullo stomaco lievemente prominente. «Questo non c'entra.» «Ne conosci qualcuno, vero?» «E se dicessi di sì?» «Organizza un incontro. Sicuramente ce n'è uno che vuole diventare famoso.» «Molti licantropi faticano parecchio a nascondere la loro natura. Renderla di dominio pubblico significa mettere a repentaglio il lavoro e il matrimonio. L'anno scorso, in Indiana, ci fu il caso di un padre cui, dopo cinque anni, fu tolto l'affidamento dei figli perché sua moglie aveva scoperto che era un licantropo. Nessuno vuole correre rischi del genere.» «In televisione ho visto licantropi intervistati in diretta.» «Questa è l'eccezione, Bert, non la regola.» «Dunque non vuoi aiutare Ms. Drew?» «No, non voglio.» «Non cercherò di appellarmi alla tua avidità, anche se ci ha offerto un sacco di soldi. Ma pensa a quanto sarebbe utile ai tuoi amici licantropi un libro positivo sulla loro condizione. La buona pubblicità fa sempre piacere. Prima di rifiutare, parla coi tuoi amici e senti il loro parere.» «Non te ne sbatte niente della causa dei licantropi. Ti interessano soltanto i soldi.» «Questo è vero.» Bert era un bastardo senza scrupoli e non gliene fregava un accidente di niente che si sapesse. Era difficile avere la meglio in una discussione quando ricorrere agli insulti era inutile. Sedetti di fronte a lui, che sembrava soddisfatto, come se avesse già vinto. Be', non avrebbe dovuto illudersi. «Non mi piace ricevere un cliente senza prima sapere che cosa diavolo vuole. Basta con le sorprese. D'ora in poi dovrai informarmi preventivamente.» «Tutto quello che vuoi.» «Sei arrendevole... Cos'è successo?»
Il suo sorriso si allargò, mentre i suoi occhietti scintillavano. «Mr. Gunderson ci ha offerto un bel malloppo per avere i tuoi servigi. Il doppio della tariffa normale.» «Sono un sacco di soldi. Cosa vuole che faccia?» «Che resusciti un suo antenato. È vittima di una maledizione di famiglia. Una strega gli ha detto che forse potrebbe liberarlo, se lui riuscisse a parlare con l'antenato da cui ha avuto origine la maledizione.» «Perché la tariffa doppia?» «All'origine della maledizione c'è uno di due fratelli, e lui non sa quale deve consultare.» «Dunque dovrei resuscitarli entrambi.» «Soltanto uno, se saremo fortunati.» «Ma tu incasserai comunque la tariffa doppia...» Bert annuì vigorosamente, felice come un'avida vongola. «Questo rientra perfettamente nelle tue competenze. Inoltre, neppure tu saresti disposta a lasciare che un tizio viva per sempre con le piume al posto dei capelli, se potessi evitarlo, vero?» «Perfido bastardo...» Ma la mia voce suonò stanca persino alle mie orecchie. Bert si limitò a sorridere. Sapeva di avere vinto. «D'ora in poi m'informerai in anticipo su tutti i clienti che non vogliono semplicemente resuscitare zombie o eliminare vampiri?» «Se avrai il tempo di leggerli, io avrò certamente il tempo di redigere rapporti su tutti i clienti che riceverò.» «Non ho bisogno di leggere rapporti su tutti i clienti, ma soltanto su quelli che mandi a me.» «Ma come, Anita? Sai bene che la scelta è basata soltanto su chi è di turno di volta in volta, e quindi è del tutto casuale!» «Che tu sia maledetto, Bert.» «Non credi che Ms. Drew abbia aspettato già abbastanza?» Mi alzai. Era inutile. Era stato più abile e aveva avuto la meglio. Lo sapeva lui e lo sapevo io. Non mi restava altro da fare che ritirarmi in buon ordine. «Il tuo impegno delle due è cancellato. Dirò a Mary di mandarti Gunderson.» «Dimmi, Bert, c'è qualcuno che non accetteresti mai come cliente?» Sembrò riflettere per un po', poi scosse la testa. «Soltanto chi non può pagare.»
«Sei un avido figlio di puttana.» «Lo so.» Era inutile. Non potevo averla vinta. Così andai alla porta. «Sei armata.» Bert sembrò scandalizzato. «E allora?» «Credo che di giorno, nei nostri uffici, tu possa ricevere i clienti anche senza portare armi.» «Io invece non lo credo affatto.» «Lascia la pistola nel cassetto della scrivania, come facevi una volta.» «No.» Aprii la porta. «Non voglio che tu sia armata quando ricevi i clienti, Anita.» «È un problema tuo, non mio.» «Posso fare in modo che diventi anche tuo.» Arrossì, e la sua voce vibrò di collera. Forse saremmo arrivati allo scontro, dopotutto. Richiusi la porta. «Vuoi licenziarmi?» «Sono il tuo capo.» «Possiamo discutere dei clienti, ma le armi non sono negoziabili.» «Le armi spaventano i clienti.» «Quelli che sono tanto schizzinosi mandali da Jamison.» «Anita.» Bert si alzò come una tempesta furente. «Non ti voglio armata in ufficio!» Sorrisi dolcemente. «Vaffanculo, Bert.» E tanti saluti alla ritirata in buon ordine. 16 Nel chiudere la porta mi resi conto di non avere ottenuto nulla, a parte far incazzare Bert. Non male, per un'ora di lavoro, ma neanche un gran successo. Avrei detto a Ms. Drew che forse avrei potuto aiutarla, visto che, dopotutto, Bert aveva ragione sulla buona pubblicità. Nel passargli davanti, salutai Gunderson con un cenno della testa. Lui rispose con un sorriso. Senza sapere bene perché, non credevo affatto che intendesse davvero incaricarmi di resuscitare un paio di morti. Comunque, non avrei tardato a scoprire quali fossero i suoi veri scopi. Ms. Drew sedeva con le gambe accavallate e le mani in grembo. Il ritratto della pazienza elegante. «Forse sono in grado di aiutarla, Ms. Drew. Non ne sono sicura, ma forse conosco qualcuno che potrà esserle utile.»
Si alzò e mi porse una mano dalle unghie perfettamente curate. «Sarebbe meraviglioso, Ms. Blake. Apprezzo davvero molto il suo aiuto.» «Ha lasciato un recapito telefonico a Mary?» «Sì», sorrise. Sorrisi anch'io. Le aprii la porta e lei mi passò davanti, avvolta da una nube di profumo costoso. «Mr. Gunderson, si accomodi, prego.» Alzandosi, il licantropo posò sul tavolino accanto al Ficus benjamina la rivista che aveva sfogliato per ingannare l'attesa. Non aveva quell'armoniosa agilità da danzatore che caratterizzava gli altri licantropi. D'altronde, i cigni non sono particolarmente agili quando camminano, a differenza di quando volano o nuotano. «Si sieda, Mr. Gunderson.» «Ti prego, chiamami Kaspar.» Mi appoggiai al bordo della scrivania, fissandolo dall'alto in basso. «Che ci fai qui, Kaspar?» Sorrise. «Marcus vuole scusarsi per la notte scorsa.» «In tal caso, avrebbe dovuto presentarsi di persona.» Il suo sorriso si allargò. «Pensa che l'offerta di un cospicuo compenso in denaro possa rimediare alla nostra mancanza di ospitalità.» «Si sbaglia.» «Non vuoi cedere neanche di un centimetro, vero?» «No.» «Non vuoi aiutarci?» Sospirai. «Ci sto già lavorando. Non sono sicura, però, di poter fare qualcosa. Chi, o cosa, potrebbe mai avere neutralizzato otto licantropi senza incontrare resistenza?» «Non ne ho idea. Nessuno di noi sa trovare una spiegazione. Ecco perché ci siamo rivolti a te.» Grande, ne sapevano meno di me. Non era confortante. «Marcus mi ha lasciato una lista di gente da interrogare.» Gliela consegnai. «Qualche commento? Qualche nome da aggiungere?» Si accigliò, unendo le sopracciglia inarcate. Erano bianche e non erano di peli. Sbattei le palpebre, cercando di concentrarmi. Il fatto che avesse le piume sembrava preoccuparmi molto più di quanto avrebbe dovuto. «Questi sono tutti rivali di Marcus che aspirano al suo potere. Li hai visti quasi tutti al Cafe.» «Credi che sospetti davvero di loro o che voglia soltanto metterli nei
guai?» «Non lo so.» «Marcus ha detto che avresti potuto rispondere alle mie domande... Sai davvero qualcosa che io non so?» «Direi che sulla comunità dei licantropi ne so molto più di te.» Mi sembrò un po' offeso. «Scusa. Credo che Marcus speri di trarre dei vantaggi dalle indagini. Non è colpa tua se sta tessendo le sue trame.» «Marcus cerca spesso di manipolare le situazioni. Lo hai visto anche tu la notte scorsa...» «La sua abilità di manipolatore non mi ha impressionato granché, finora.» «È convinto che, se i licantropi avessero un solo capo, diventeremmo abbastanza potenti da rivaleggiare coi vampiri.» Quanto a quello, poteva anche avere ragione. «Scommetto che vorrebbe essere lui, quel capo.» «Naturalmente.» L'interfono ronzò. «Scusa un momento.» Premetti il pulsante. «Che c'è, Mary?» «Richard Zeeman sulla linea due. Dice di aver ricevuto un tuo messaggio.» Esitai prima di rispondere. «Passamelo.» Sollevai il ricevitore, ben sapendo che Kaspar stava seduto ad ascoltare. Avrei potuto chiedergli di uscire, ma stavo cominciando a stufarmi di approfittare dei clienti. «Ciao, Richard.» «Ho trovato il tuo messaggio in segreteria», disse Richard in tono molto guardingo. «Dobbiamo parlare, credo.» «Sono d'accordo.» Accidenti, quanto eravamo cauti quel pomeriggio! «L'arrabbiata dovrei essere io... Come mai la tua voce mi sembra così strana?» «Ho saputo della notte scorsa.» Aspettai che aggiungesse qualcosa, ma il silenzio si protrasse all'infinito, così lo riempii. «Senti, ho un cliente, adesso. Vuoi che ci vediamo per parlare?» «Mi piacerebbe molto.» Lo disse come se in realtà la prospettiva non lo allettasse affatto. «Verso le sei stacco per mangiare qualcosa. Possiamo vederci al cinese
su Olive?» «Non mi sembra molto intimo...» «Cos'avevi in mente?» «Da me.» «Ho soltanto un'ora, Richard. Non ho tempo di guidare fin là.» «Da te, allora...» «No.» «Perché no?» «No e basta.» «Un luogo pubblico non è adatto. Lo sai anche tu.» Era vero. «E va bene... Ci vediamo da me, poco dopo le sei. Cosa vuoi che prenda?» «Ci penso io. Ti va maiale mooshu e granchio ragoon?» «Ma sì.» Eravamo usciti insieme così spesso che ormai conosceva i miei gusti. Eppure chiedeva comunque. Un grosso punto a suo favore. «Allora ci vediamo verso le sei e un quarto.» «D'accordo.» «Ciao, Anita.» «Ciao.» Riagganciammo. Il mio stomaco era strettamente annodato per la paura. Se ci fosse stato lo scontro, quello della rottura, avrei preferito che non avvenisse nel mio appartamento, però Richard aveva ragione. Non sarebbe stato bello gridare di licantropi e di massacri in un ristorante affollato. Non sarebbe stato un bel momento comunque. «Richard è arrabbiato per la notte scorsa?» chiese Kaspar. «Sì.» «C'è qualcosa che posso fare per aiutarti?» «Devo sapere tutto sugli scomparsi. Rivalità, chi li ha visti per l'ultima volta... Cose di questo genere.» «Marcus ha detto che a tutte le domande direttamente attinenti agli scomparsi dovrebbe rispondere soltanto lui.» «Fai sempre quello che dice?» «Non sempre, ma a questo proposito è stato molto deciso, Anita, e io non sono un predatore. Non posso difendermi da Marcus.» «Davvero ti ucciderebbe per avere disubbidito ai suoi ordini?» «Forse no, ma soffrirei molto, e molto a lungo.» Scossi la testa. «Non sembra migliore della maggior parte dei Master che ho conosciuto.» «Non conosco personalmente nessun Master. Sono costretto a prenderti
in parola.» Non potei non sorridere. Conoscevo più mostri dei mostri. «E Richard sa qualcosa?» «Forse. In caso contrario potrebbe aiutarti a raccogliere informazioni.» Avrei voluto chiedergli se Richard fosse crudele quanto Marcus. In altre parole, volevo sapere se la natura del mio ragazzo fosse sostanzialmente bestiale. Ma non lo feci. Se volevo sapere di Richard, dovevo chiedere a Richard. «Se non hai altre informazioni, Kaspar, io ho parecchio lavoro da sbrigare...» La frase sembrò sgarbata persino a me. Sorrisi per cercare di attenuarne l'impatto, ma non la revocai. Volevo dimenticare tutto quel casino e la sua presenza non mi aiutava. Si alzò. «Se ti serve aiuto, per qualsiasi cosa, ti prego di chiamarmi.» «Ma potrai fornirmi soltanto l'aiuto approvato da Marcus, giusto?» Il suo viso pallido arrossì lievemente, diventando rosa come zucchero colorato. «Temo di sì...» «Non credo che ti chiamerò.» «Non ti fidi di Marcus?» Risi, ma fu una risata aspra, per niente allegra. «E tu?» Sorrise, poi abbozzò un cenno con la testa. «Suppongo di no.» Infine mi seguì alla porta. Con la mano sulla maniglia, mi girai a chiedere: «È davvero una maledizione di famiglia?» «Quella che mi affligge?» «Sì.» «Non è di famiglia, ma... Sì, è una maledizione.» «Come nelle fiabe?» «Spesso le fiabe sono molto meno macabre delle storie che le ispirano.» «Ne conosco qualcuna.» «Anche l'originale norvegese della Principessa cigno?» «Non direi, no.» «Be', nell'originale è di gran lunga peggiore.» «Mi dispiace...» «Anche a me.» Si avvicinò alla porta, obbligandomi ad aprirla per lasciarlo uscire. Mi sarebbe piaciuto molto sentire quella storia, ma nei suoi occhi c'era una sofferenza così profonda da ferire come una coltellata. Davanti a un tale dolore, non potevo insistere. Lui varcò la soglia e io lo lasciai passare. Dovevo proprio ritrovare il li-
bro di testo sulla veridicità delle fiabe che avevo studiato al corso di letteratura comparata. Era passato parecchio tempo da quando avevo letto La principessa cigno. 17 Erano più o meno le sei e mezzo quando percorsi il corridoio che conduceva al mio appartamento. Quasi mi aspettavo di trovarci Richard seduto ad aspettare, ma era deserto. La tensione che mi si era accumulata nello stomaco si allentò un poco. Una tregua, anche soltanto di pochi minuti, era pur sempre una tregua. Avevo già infilato la chiave nella serratura, quando la porta che si trovava alle mie spalle si aprì. Mollai le chiavi, lasciandole ciondolare, e portai la mano destra alla Browning. Fu l'istinto, non un movimento ponderato. La impugnavo, però non l'avevo ancora estratta, allorché Mrs. Pringle apparve sulla soglia. Lasciai la presa e sorrisi. Non si rese conto, credo, di quello che avevo fatto, perché il suo sorriso non vacillò neppure per un istante. Era alta e magra per l'età. Portava i capelli bianchi raccolti in una crocchia. Non si truccava mai e non si vergognava affatto di avere più di sessantacinque anni. Sembrava contenta della vecchiaia. «Anita, sei un po' in ritardo, stasera...» Custard, il suo volpino di Pomerania, guaiva in sottofondo come un disco incantato. Mi accigliai. Erano le sei e mezzo, quindi semmai ero tornata presto. Prima che potessi dire qualcosa, Richard apparve alle spalle di Mrs. Pringle. I capelli gli cadevano intorno al viso in una massa di folti ricci castani. Indossava uno dei miei maglioni preferiti, di un cupo verde foresta, morbidissimo al tocco. Custard latrava dietro di lui, a pochi centimetri dalla sua gamba, come se stesse raccogliendo il coraggio per azzannarlo repentinamente. «Basta, Custard», disse Mrs. Pringle. Poi alzò gli occhi su Richard. «Non l'ho mai visto comportarsi così con qualcuno... Anita può confermarle che gli sono simpatici quasi tutti.» Mi guardò in cerca d'aiuto, imbarazzata dal comportamento aggressivo del cane nei confronti dell'ospite. Annuii. «È vero. Neanch'io lo avevo mai visto così aggressivo.» Guardai Richard, il cui viso era impenetrabile. «Qualche volta fa così con gli altri cani, per cercare d'imporsi», riprese Mrs. Pringle. «Forse lei ha un cane, Mr. Zeeman? Può darsi che Custard ne
senta l'odore.» «No», rispose Richard. «Non ho nessun cane.» «Ho visto questo bel ragazzo seduto in corridoio con un sacchetto di cibo, così ho pensato che forse non gli sarebbe dispiaciuto aspettare dentro. Mi spiace che Custard gli abbia reso la visita così sgradevole.» «Mi fa sempre piacere parlare di lavoro con altri insegnanti», disse lui. «Che gentile!» Il volto di Mrs. Pringle si aprì in un sorriso meraviglioso. Aveva incontrato Richard soltanto un paio di volte, in corridoio, ma lo aveva preso subito in simpatia. Gli era piaciuto immediatamente, prima ancora di sapere che era un insegnante. Un giudizio affrettato. Richard le girò intorno per uscire in corridoio. Custard lo seguì, abbaiando furiosamente. Sembrava un dente di leone troppo ambizioso, ma era un dente di leone incazzato. Avanzò a piccoli balzi, latrando a ogni salto. «Custard! Torna qui!» Aprii la porta a Richard, che teneva in braccio un sacchetto bianco e una giacca. Il cane partì di corsa per azzannargli una caviglia. Richard chinò la testa a fissarlo. Custard si fermò a pochi centimetri dalla sua gamba e alzò gli occhi canini a fissarlo con un'espressione che non gli avevo mai visto prima. Era uno sguardo pensoso, come se si stesse chiedendo se davvero Richard intendesse sbranarlo. Richard varcò la soglia. Custard rimase in corridoio, sottomesso come non mai. «Grazie per avere tenuto compagnia a Richard, Mrs. Pringle.» «È stato un piacere. È un giovanotto così simpatico.» Il suo tono fu più eloquente delle parole. Giovanotto simpatico significava sposalo. La mia matrigna, Judith, sarebbe stata d'accordo con lei, con la differenza che lo avrebbe detto forte e chiaro, senza nessuna allusione. Sorrisi e chiusi la porta. Mentre Custard abbaiava all'uscio, girai la chiave nella serratura, per abitudine. Richard aveva sistemato la giacca di cuoio sullo schienale del divano. Il sacchetto era posato sul tavolino della cucina. Mentre lui toglieva dal sacchetto i contenitori del cibo, posai anche il mio soprabito sullo schienale del divano e mi sfilai le scarpe col tacco alto. Persi così circa cinque centimetri di altezza, ma mi sentii molto meglio. «Bella giacca», disse lui, sempre con voce neutra. «Grazie.» Volevo togliermi anche la giacca, però, visto che gli piaceva, la tenni addosso. Sciocco, ma vero. Eravamo tutti e due molto cauti. La tensione nella stanza era soffocante.
Presi i piatti dal mobiletto e una Coca fredda dal frigo per me, poi riempii un bicchiere d'acqua per Richard. Non gli piacevano le bibite gassate, così avevo preso l'abitudine di tenere sempre una bottiglia d'acqua in frigo per lui. Sistemando le bevande, mi sentivo la gola contratta. Lui si occupò delle posate. Di solito ci muovevamo nella mìa minuscola cucina con un'intesa da danzatori, senza intralciarci, senza mai sfiorarci o urtarci, se non di proposito. Quella volta non vi fu nessun contatto. Non accendemmo la lampada della cucina, che perciò, illuminata soltanto dalle luci del soggiorno, rimase nella penombra come una caverna. Sembrava quasi che nessuno di noi due volesse vedere chiaramente. Infine sedemmo, io davanti al maiale mooshu, lui davanti al pollo con anacardi, e ci fissammo. La fragranza del cibo cinese riempì l'appartamento. Nella maggior parte delle occasioni era caldo e confortante, ma quella sera mi nauseò. Una doppia porzione di granchio ragoon stava sul piatto al centro del tavolo. Richard aveva riempito un piattino con salsa agrodolce. Era così che mangiavamo sempre cinese, condividendo la salsa. Dannazione. Lui mi fissò coi suoi occhi color cioccolata e io fui la prima a distogliere lo sguardo, anche se non avrei voluto. «Allora... Tutti i cani reagiscono sempre così alla tua vicinanza?» «No, soltanto i dominanti.» Alzai lo sguardo. «Custard ti è superiore?» «Così crede.» «Rischioso.» Sorrise. «Non mangio i cani.» «Non volevo... Oh, merda!» Se dovevamo farlo, tanto valeva scegliere il modo giusto. «Perché non mi hai parlato di Marcus?» «Non volevo coinvolgerti.» «Perché no?» «Jean-Claude ti ha coinvolta con Nikolaos, e tu mi hai detto quanto lo hai detestato, quanto ti ha fatto arrabbiare. Se ti chiedessi di aiutarmi contro Marcus, quale sarebbe la differenza?» «Non sarebbe la stessa cosa.» «Perché? Non intendo sfruttarti come ha fatto Jean-Claude. E non lo farò.» «Se mi offrissi volontaria, non mi sfrutteresti.» «Cosa vorresti fare? Ucciderlo?» La sua voce lasciò trapelare amarezza, rabbia.
«Che cosa vorresti dire?» «Puoi anche toglierti la giacca. Ho visto la pistola.» Aprii la bocca per protestare, e la richiusi senza parlare. Spiegargli, nel bel mezzo di una discussione, che avevo voluto soltanto piacergli mi sembrò sciocco. Così mi alzai, mi tolsi la giacca e l'appesi meticolosamente alla spalliera della sedia, impiegandoci parecchio tempo. «Ecco fatto. Sei contento?» «Quella pistola è forse la tua risposta a tutti i problemi?» «Come mai all'improvviso è un problema il fatto che porto la pistola?» «Alfred era mio amico.» Rimasi senza parole. Non mi era mai neanche passato per la testa che Richard potesse avere simpatia per un tipo come Alfred. «Non sapevo che fosse tuo amico...» «Avrebbe fatto qualche differenza?» Ci pensai. «Forse sì.» «Non era necessario ucciderlo.» «Ne ho già discusso con Marcus la notte scorsa. Non mi hanno lasciato scelta, Richard. L'ho avvertito più di una volta.» «Mi hanno raccontato tutto. Ne parla tutto il branco. Sei stata irremovibile, hai rifiutato la protezione di Marcus, hai sparato a uno di noi...» Scosse la testa. «Oh, sono rimasti tutti molto impressionati.» «Non l'ho fatto per impressionarli.» Sospirò profondamente. «Lo so. È questo che mi spaventa.» «Tu hai paura di me?» «Per te.» La collera stava svanendo dal suo sguardo, sostituita dalla paura. «So badare a me stessa, Richard.» «Non ti rendi conto di quello che hai fatto la notte scorsa.» «Se Alfred era tuo amico, mi dispiace. Sinceramente, però, non mi è sembrato il tipo con cui potessi avere qualcosa in comune...» «So che era un bullo e che con Marcus era servile come un cane, ma spettava a me proteggerlo.» «Marcus non si è dimostrato granché come protettore, la notte scorsa. Era più interessato ai suoi giochetti di potere che all'incolumità di Alfred.» «Sono passato da Irving, stamane...» Non aggiunse altro, lasciando la frase sospesa nel silenzio. Toccò a me arrabbiarmi. «L'hai picchiato?» «Se lo avessi fatto, sarebbe stato mio diritto, in quanto maschio Alfa.»
Mi alzai, posando le mani aperte sul tavolo. «Se lo tocchi, non basterà una discussione per risolvere la faccenda.» «Vorresti sparare anche a me?» Lo guardai, coi suoi capelli meravigliosi, delizioso nel suo bel maglione, e annuii. «Se fossi costretta...» «Dunque saresti capace di ammazzarmi come niente.» «No, non ti ucciderei, però... Sì, ti ferirei.» «Per proteggere Irving, saresti capace di minacciarmi con la pistola...» Si addossò allo schienale e incrociò le braccia sul petto. Aveva un'espressione in cui si mescolavano stupore e rabbia. «Irving ha chiesto la mia protezione e io gliel'ho garantita.» «Così mi ha detto.» «L'hai picchiato?» Mi fissò per un lungo momento, prima di rispondere. «No, non l'ho picchiato.» Mi lasciai sfuggire il fiato che non mi ero resa conto di trattenere e mi rimisi a sedere. «Ti metteresti davvero contro di me per proteggere lui... Lo faresti davvero...» «Non sembrare tanto sbalordito. Irving era stretto in una morsa. Marcus lo avrebbe torturato se non mi avesse contattata e tu lo avresti picchiato se lo avesse fatto. Non mi sembra giusto.» «Molte cose, nel branco, sono ingiuste.» «Così è la vita, Richard. E allora?» «Quando Irving mi ha detto di essere sotto la tua protezione, non l'ho toccato, ma non credevo che tu te la saresti davvero presa con me.» «Conosco Irving da molto più tempo.» Si curvò in avanti, posando le mani sul tavolo. «Ma lui non esce con te...» Scrollai le spalle. Non sapevo cosa dire. Sembrava tutto incerto. «Sono ancora il tuo ragazzo? Oppure, dopo il tuo battesimo del fuoco della notte scorsa, non vuoi più uscire con me?» «Sei impegnato in una lotta mortale e non me ne hai parlato. Se mi nascondi cose del genere, come possiamo avere una relazione?» «Marcus non mi ucciderà.» Lo fissai. Sembrava sincero. «Lo credi davvero, eh?» «Sì.» Avrei voluto dirgli che era un illuso, ma tenni la bocca chiusa e cercai di
pensare a qualcos'altro. Ma non mi venne in mente nient'altro da dire. «Ho incontrato Marcus, e anche Raina...» Scossi la testa. «Se credi davvero che Marcus non ti voglia morto, sbagli.» «Una sola notte, e sei già un'esperta.» «Già, in queste faccende, lo sono.» «Proprio per questo non te ne ho parlato. Tu lo uccideresti, vero? Semplicemente, lo faresti fuori...» «Se cercasse di far fuori me, sì.» «Anita, devo cavarmela da solo in questa faccenda.» «Fai pure, Richard. Ammazza quello stronzo.» «Oppure lo farai tu per me...» Raddrizzai la schiena. «Che vuoi da me?» «Voglio sapere se mi consideri un mostro.» La conversazione stava procedendo troppo velocemente per i miei gusti. «Mi stai accusando di essere un'assassina... Non dovrei essere io a chiederlo a te?» «Sapevo cos'eri quando ci siamo conosciuti. Tu, invece, mi credevi umano. Ebbene, credi ancora che io sia umano?» Lo fissai. Sembrava veramente preoccupato. Razionalmente, sapevo che non era umano, eppure non riuscivo a immaginarlo capace di fare cose ultraterrene. A vederlo lì, nella mia cucina, con gli occhi marroni stracolmi di sincerità, non sembrava proprio molto pericoloso. Era convinto che Marcus non l'avrebbe ucciso. Era di una sincerità indicibile e io volevo proteggerlo, garantire, in qualche modo, la sua incolumità. «Non sei un mostro, Richard.» «Allora perché non mi hai nemmeno sfiorato, stasera? Perché non mi hai neanche baciato per salutarmi?» «Credevo che fossimo arrabbiati. E non bacio mai qualcuno con cui sono arrabbiata.» «Siamo arrabbiati?» La sua voce fu tenue, esitante. «Non so... Promettimi una cosa.» «Quale?» «Basta segreti. Basta bugie e basta omissioni. Dimmi la verità e io ti dico la verità.» «D'accordo, se prometti di non uccidere Marcus.» Continuai a fissarlo. Com'era possibile che un lupo mannaro Master fosse così buono e ingenuo? Era incantevole, e rischiava di farsi ammazzare. «Questo non posso promettertelo.»
«Anita...» Sollevai una mano. «Posso prometterti che non lo ammazzerò, purché non aggredisca me o te, o un civile.» Allora fu Richard a fissare me. «Saresti capace di ammazzarlo, così, come niente?» «Come niente.» Scosse la testa. «Non capisco...» «Come puoi essere un licantropo e non avere mai ucciso nessuno?» «Sono prudente.» «E io no?» «Sembra quasi che te ne freghi. Hai ucciso Alfred, la notte scorsa, e non sembri neanche dispiaciuta.» «Dovrei esserlo?» «Io lo sarei.» Mi strinsi nelle spalle. A dire la verità, un po' mi turbava. Forse, per risolvere la situazione, non era necessario che Alfred finisse in un sacco di plastica... O nello stomaco dei suoi amici. Però l'avevo ammazzato. Era andata così e non si poteva tornare indietro. Le scuse e i rimpianti non servivano a niente. «Sono fatta così, Richard. Prendimi per quella che sono oppure lasciami, perché non ho nessuna intenzione di cambiare.» «Una delle ragioni per cui ho voluto uscire con te, all'inizio, è proprio questa: sai badare a te stessa. Però adesso hai visto gli altri. Quanto a me, credo di poterne uscire vivo, ma una persona qualsiasi, un essere umano normale, quali possibilità avrebbe?» Guardandolo, mi lampeggiò nella mente l'immagine di lui con la gola squarciata, morto... Eppure non era morto. Era sopravvissuto ed era guarito. Avevo conosciuto un altro uomo, invece, un altro essere umano, che non era guarito. Volevo che non mi succedesse mai più di amare qualcuno e di perderlo così. Mai più. «Be', non ti eri sbagliato... Qual è il problema?» «Ti desidero ancora. Desidero abbracciarti, toccarti... E tu, riesci a sopportare di toccarmi, dopo quello che hai visto la notte scorsa?» Evitò il mio sguardo. I suoi capelli caddero a nascondere il viso. Mi alzai, avanzai di un passo e rimasi a guardarlo. Alzò la testa a fissarmi, con gli occhi scintillanti di lacrime non versate. La paura sul suo viso era evidente. Pensavo che quello che avevo visto la notte precedente avrebbe potuto cambiare le cose fra noi. Ricordai la forza soprannaturale di
Jason, il volto sudato di Marcus, la bocca imbrattata di sangue di Gabriel... Ma nel fissare il volto di Richard, così vicino da poterlo toccare, tutto quello che era successo mi sembrò irreale. Mi fidavo di Richard. E poi, ero armata. Mi curvai a baciarlo sulle labbra. Il primo bacio fu dolce, casto. Senza cercare di toccarmi, tenne le mani in grembo. Gli baciai la fronte, passandogli le dita fra i lunghi capelli per sentire il suo calore. Gli baciai le sopracciglia, la punta del naso, le guance e, infine, di nuovo le labbra. Sospirò nella mia bocca. Premetti le mie labbra sulle sue come per cominciare a divorarlo. Lui mi abbracciò, mi accarezzò la schiena, indugiò sui fianchi, fece scivolare le dita un po' più in basso, staccò le mani per accarezzarmi le cosce, evitando le zone discutibili. Allargai le gambe, scoprendo che una gonna corta può essere utile. Riuscii a sedergli in grembo, a cavalcioni, senza doverla sollevare neanche di un centimetro. Richard si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa. Mi fissò con uno sguardo così profondo da affondarci e perdercisi. Gli sollevai il maglione e gli accarezzai lo stomaco nudo. «Via...» Con un solo movimento, si sfilò il maglione e lo lasciò cadere sul pavimento. Rimasi seduta a osservare il petto nudo. Avrei dovuto fermarmi lì, ma non volevo. Gli affondai il viso fra la spalla e il collo, respirando il profumo della sua pelle, coi suoi capelli che mi coprivano il viso come un velo. Con la punta della lingua gli tracciai una riga di saliva lungo il collo e poi giù, fino alla clavicola. Massaggiandomi la base della schiena, lui scese poco a poco. Le sue dita danzarono sulle mie natiche prima di risalire. Un punto per lui. Niente palpate volgari. «La pistola... Puoi toglierla?» chiese, col viso sepolto nei miei capelli. Annuii, quindi mi sfilai la fondina ascellare dalle spalle. Per toglierla del tutto, però, dovevo slacciarmi la cintura, e le mie mani sembravano prive della volontà di agire. Richard me le prese e me le fece cadere lungo i fianchi. Slacciò la cintura e cominciò a farla scivolare, un passante per volta. Trattenni la fondina mentre lui toglieva del tutto la cintura e la lasciava cadere sul pavimento. Arrotolai accuratamente il tutto e lo posai sul tavolo dietro di noi. Mi girai verso di lui. Il suo viso era sorprendentemente vicino. Le sue labbra erano morbide, piene. Gli leccai i contorni della bocca. Il bacio che
seguì fu rapido e confuso. Volevo passare la bocca su altre parti del suo corpo. Scesi fino al petto. Non ci eravamo mai spinti fino a quel punto, neanche lontanamente. Mi sfilò la camicetta dalla gonna per accarezzarmi la schiena nuda. Il contatto della sua pelle con zone che non aveva mai toccato prima mi fece rabbrividire. «Dobbiamo fermarci, adesso...» sussurrai, risultando così non del tutto convincente. «Cosa?» «Basta.» Mi scostai da lui abbastanza per guardarlo in viso, abbastanza per respirare un po'. Mi accorsi che stavo continuando ad accarezzargli i capelli e le spalle, così lasciai cadere le mani. Mi obbligai a fermarmi. Era così caldo... Sollevai le mani all'altezza del mio viso, sentendo il suo profumo sulla mia pelle. Non volevo fermarmi. A giudicare dall'espressione del suo viso e dalla sensazione che il suo corpo mi comunicava, non lo voleva neanche lui. «Dovremmo fermarci, adesso...» «Perché?» La sua voce fu quasi un sussurro. «Perché, se non ci fermiamo adesso, potremmo non fermarci affatto.» «E sarebbe una cosa tanto brutta?» Scrutando nei suoi begli occhi da pochi centimetri di distanza, rischiai di rispondere no. «Forse sì.» «Perché?» «Perché una notte non basta mai. O segui una dieta regolare, o vai in crisi di astinenza.» «Possiamo farlo tutte le notti.» «È una proposta?» Mi fissò, sbattendo le palpebre, cercando di riprendersi, di pensare. Vidi il suo sforzo e lo condivisi. Era difficile pensare standogli seduta in grembo, perciò mi alzai. Le sue mani erano ancora sotto la mia camicia, sulla mia schiena nuda. «Cosa c'è che non va?» In piedi, lo guardai dall'alto in basso, le mani sulle sue spalle per mantenere l'equilibrio, ancora troppo vicina per pensare lucidamente. Indietreggiai e lui mi lasciò. Appoggiai le mani al banco della cucina, cercando di escogitare una risposta sensata. Tentai di trovare il modo di condensare in poche parole due anni di sofferenza. «Sono sempre stata una brava ragazza. Non ho mai avuto l'abitudine di andare a letto con tutti gli uomini che mi piacevano. Al college ho
incontrato qualcuno, ci siamo fidanzati, abbiamo fatto l'amore e poi mi ha mollata.» «Voleva solo portarti a letto?» Scossi la testa e mi girai a guardarlo. Era ancora seduto con la camicia fuori dei pantaloni, assolutamente delizioso. «Non piacevo alla sua famiglia.» «Perché?» «Sua madre non sopportava l'idea che mia madre fosse messicana.» Mi addossai ai mobiletti, con le braccia incrociate, strette, come per abbracciare me stessa. «Non mi amava abbastanza per andare contro la sua famiglia. Ho sentito la sua mancanza in molti modi, anche fisicamente. Ho promesso a me stessa che non sarebbe più accaduto.» «Dunque stai aspettando il matrimonio.» Annuii. «Ti desidero, Richard, e molto, ma non posso, non voglio più rischiare di soffrire.» Si alzò e si avvicinò, fermandosi di fronte a me, vicino, ma senza cercare di toccarmi. «Allora sposami.» Alzai lo sguardo. «Certo.» «No, dico sul serio.» Mi posò le mani sulle spalle. «Avevo già pensato di chiedertelo, però avevo paura. Tu non sapevi che cosa può fare un licantropo, che cosa possono diventare quelli come noi. Mi rendevo conto che era necessario che tu lo sapessi, prima di potertelo chiedere, e al tempo stesso avevo paura che tu lo sapessi.» «Non ti ho ancora visto trasformarti...» «È necessario?» «Qui, così, in questo momento, direi di no, ma realisticamente, se facciamo sul serio, è probabile di sì.» «Adesso?» Lo scrutai, nella semioscurità, e lo abbracciai, abbandonandomi contro di lui, poi scossi la testa, sfregando la guancia sul suo petto nudo. «No, non adesso.» Mi baciò sulla testa. «È un sì?» Sollevai la testa a guardarlo. «Dovrei dire no...» «Perché?» «Perché la vita è troppo complicata.» «La vita è sempre complicata, Anita. Di' di sì.» «Sì.» Nel momento stesso in cui lo dissi, me ne rammaricai. Lo desideravo moltissimo, e forse lo amavo anche un po', o magari di più, eppure...
Sospettavo che avesse divorato Cappuccetto Rosso? Che diavolo! Se non riusciva ad ammazzare neanche il Grosso Lupo Cattivo! Fra noi due, semmai, ero io la più incline al massacro. Mi baciò, premendomi le mani sulla schiena. Quando mi fui scostata abbastanza per respirare, dissi: «Niente sesso, stanotte. La regola è sempre valida». Chinò la testa, finché le sue labbra non sfiorarono le mie. «Lo so.» 18 Ovviamente arrivai in ritardo al mio primo lavoro della giornata. Di conseguenza non fui puntuale neanche per resuscitare gli altri due zombie. Così erano le 2.03 quando bussai alla stanza di Edward. Lui aprì la porta e si fece da parte. «Sei in ritardo.» «Sì.» La stanza era pulita e ordinata, ma banale. Un letto a una piazza e mezzo, un comodino, due lampade e una scrivania contro la parete opposta. Le tende oscuravano completamente le finestre, che occupavano quasi un'intera parete. La porta del bagno era aperta e la luce accesa. Un'anta dell'armadio era dischiusa e mostrava gli abiti appesi. Evidentemente Edward progettava di trattenersi per un po'. La televisione era accesa, con l'audio spento. Rimasi sorpresa, sapendo che Edward non guardava mai la televisione. Sopra l'apparecchio c'era un videoregistratore, che non era fornito dall'albergo. «Vuoi che ordini qualcosa al servizio in camera prima di cominciare?» «Una Coca sarebbe magnifica.» Sorrise. «Hai sempre avuto gusti raffinati, Anita.» Andò al telefono e ordinò anche una bistecca, cosa rara, e una bottiglia di Borgogna. Mi tolsi la giacca e la posai sulla sedia della scrivania. «Io non bevo.» «Lo so. Vuoi rinfrescarti, mentre aspettiamo il cibo?» Alzai lo sguardo e mi vidi riflessa lontano, nello specchio del bagno. Il sangue di gallina coagulato formava una chiazza color mattone sul mio viso. «Capisco...» Chiusi la porta del bagno e mi guardai allo specchio. La luce era bianca, intensa, cruda, come in molti bagni d'albergo. Era così inclemente che neppure Miss America si sarebbe vista bella. Il sangue spiccava come gessetto rosso sulla pelle pallida. Indossavo una felpa bianca natalizia con Maxine, la vecchia bisbetica della pubblicità del-
la Hallmark, che beveva caffè, con un dolcetto in mano, e diceva: PER ME È IL MASSIMO DELL'ALLEGRIA. Bert ci aveva chiesto d'indossare capi natalizi per tutto il mese. Forse la felpa non corrispondeva esattamente a quello che aveva in mente, ma... Era sempre meglio di certe altre che avevo a casa. Comunque, era bianca e si era sporcata di sangue. Naturalmente. Mi sfilai la felpa e la posai sul bordo della vasca da bagno. Ero sporca di sangue all'altezza del cuore. Persino il crocifisso d'argento era un po' macchiato. Quella notte avevo ucciso tre galline, schizzandomi di sangue anche il petto, oltre al viso e alle mani. Resuscitare zombie è un lavoro sporco. Presi un asciugamano bianco, chiedendomi come avrebbe fatto Edward a spiegare le macchie di sangue alla cameriera. Non era un mio problema, e l'idea era abbastanza divertente. Feci scorrere l'acqua nel lavandino e cominciai a strofinare. Intravidi me stessa mentre il sangue diluito mi scorreva a rivoli sul volto. Mi alzai, scrutandomi. Il mio viso appena lavato sembrava piuttosto sbalordito. Davvero Richard mi aveva chiesto di sposarlo? E io avevo davvero detto sì? Sicuramente no. Avevo detto sì? Merda! Mi lavai il sangue dal petto. Avevo sempre a che fare coi mostri, e avevo finito per fidanzarmi con uno di loro... Mi bloccai. Sedetti sull'asse del gabinetto, tenendo tra le mani l'asciugamano insanguinato. Ero fidanzata. Di nuovo. La prima volta si era trattato di un così bravo ragazzo, che persino a Judith era piaciuto. Americano dalla testa ai piedi. E io non ero stata degna di lui, secondo i suoi genitori. Quello che più mi aveva fatto soffrire, era che non mi aveva amato abbastanza. Neanche lontanamente quanto lo avevo amato io, che avrei rinunciato a tutto per lui. Be', non era un errore da commettere due volte. Comunque, Richard non era così. Lo sapevo. Eppure c'era il tarlo del dubbio, la paura che lui finisse per rovinare tutto, o la paura che non finisse per rovinare tutto... Abbassai lo sguardo e mi accorsi che l'acqua insanguinata gocciolava sul linoleum. M'inginocchiai ad asciugare. Più di così avrei potuto pulirmi soltanto a casa, sotto la doccia. Non avevo pensato a portare un cambio d'abiti, quindi dovevo rimettere la felpa. Edward bussò alla porta. «È arrivato da mangiare.» Mi rivestii, lasciai l'asciugamano nel lavandino in ammollo nell'acqua fredda e aprii la porta. Il profumo della bistecca mi colpì. Era meraviglioso. Non mangiavo da più di otto ore e, a dire la verità, non avevo mangiato
molto, l'ultima volta. Richard mi aveva distratta. «Credi che il servizio in camera ci sparerebbe se chiedessimo un'altra bistecca?» Con un breve gesto, Edward accennò al carrello, sul quale stavano due coperti. «Come sapevi che avevo fame?» «Ti dimentichi sempre di mangiare.» «Santo cielo, la mamma dell'anno!» «Il meno che posso fare per te è farti mangiare.» Lo guardai. «Che succede, Edward? Sei terribilmente premuroso.» «Ti conosco abbastanza bene per sapere che quello che vedrai non ti piacerà. Considera il pasto come un'offerta di pace.» «Che cosa non mi piacerà?» «Mangiamo, guardiamo il film, e tutto ti sarà rivelato.» Era prudente, ma non era da lui. Non aveva problemi a sparare a qualcuno, e lo faceva senza tante smancerie. «Che cos'hai in mente?» «Niente domande prima di aver visto il film.» «Perché?» «Perché dopo le tue domande saranno più pertinenti.» Con quella risposta imperscrutabile, sedette sul bordo del letto e versò del vino rosso in un bicchiere. Cominciò a tagliare la bistecca, che era al sangue, quasi cruda al centro. «Ti prego, dimmi che la mia bistecca non è al sangue.» «Non è al sangue. So che la carne ti piace morta.» «Ah, ah, ah...» Sedetti. Mi sembrava strano condividere un pasto con Edward in una stanza d'albergo, come se fossimo colleghi di lavoro in trasferta. Soltanto un pranzo di lavoro... La bistecca era ben cotta e il contorno di patatine fritte, tagliate grosse, nonché aromatizzate, era abbondante. C'era anche un piattino di broccoletti, che ignorai. La Coca era servita in un bicchiere da vino gelato. Mi sembrò un po' eccessivo, ma gradevole. «La sequenza che c'interessa comincia verso la fine del film. Credo che non avrai problemi a capire la trama.» Col telecomando avviò il nastro. L'immagine guizzò sul teleschermo, passando da uno spettacolo di varietà a una camera da letto. Una donna dai lunghi capelli castani giaceva sulla schiena sopra un letto rotondo. Era nuda, o almeno quello che vedevo di lei era nudo. Dalla cintura in giù, infatti, il suo corpo era nascosto dall'andirivieni furioso delle
natiche di un uomo dai capelli neri. «È un porno!» Non cercai neppure di nascondere la mia incredulità. «Decisamente.» Guardai Edward. Tagliò la bistecca con movimenti precisi, masticò il boccone, sorseggiò il vino e fissò il televisore. Tornai al «film». Un altro uomo si era unito alla coppia sul letto. Era più alto del primo, coi capelli più corti. Era difficile distinguere i dettagli, soprattutto perché cercavo di non guardare. Seduta sull'orlo del letto a mangiare la bistecca succulenta, per la prima volta mi sentii a disagio in presenza di Edward. Non c'era mai stata nessuna tensione sessuale fra noi. Forse avremmo finito per ammazzarci a vicenda, un giorno o l'altro, ma di sicuro non ci saremmo mai baciati. Nondimeno mi trovavo nella camera d'albergo di un uomo a guardare un film porno, e le brave ragazze non fanno queste cose. «Edward, che diavolo sta succedendo?» Premette un tasto del telecomando. «Guarda questo primo piano.» Mi girai a guardare lo schermo. Il volto mi fissava dal fermo immagine. Era il secondo uomo. Alfred. «Oh, mio Dio...» «Lo conosci?» chiese Edward. «Sì.» Negarlo sarebbe stato inutile, visto che Alfred era morto e Edward non poteva più nuocergli. «Nome?» «Alfred. Non conosco il cognome.» Fece scorrere il nastro a velocità accelerata. I corpi sullo schermo si mossero con una rapidità furiosa, dedicandosi a pratiche intime che sarebbero parse oscene a qualunque velocità, ma che in quel modo sembrarono molto più tristi e grottesche, oltre che degradanti. Di nuovo Edward spinse il tasto del fermo immagine. La donna guardava la videocamera, in primo piano, a bocca aperta, con gli occhi appesantiti dal languore sessuale, i capelli sparsi ad arte sul cuscino di seta. Avrebbe dovuto risultare provocante e invece riusciva a non esserlo. «La conosci?» Scossi la testa. «No.» Avviò di nuovo il nastro. «Siamo quasi alla fine.» «E l'altro uomo?» «È mascherato per tutto il film.» L'uomo mascherato montò la donna da dietro, aderendo coi fianchi alle
natiche di lei e con le proprie cosce alle sue. Curvò il busto snello su quello nudo di lei, massaggiandole le braccia. Più che altro sembrava che cercasse di aderire il più possibile col proprio corpo a quello di lei. Non pareva che l'attività sessuale fosse intensa. Carponi, lei sosteneva tutto il suo peso, ansimando. Un brontolio si diffuse nella stanza. La videocamera inquadrò in primo piano la schiena dell'uomo. La pelle s'increspò per un attimo come se fosse massaggiata dall'interno, poi di nuovo, ripetutamente, come se qualcosa di piccolo cercasse di squarciarla per uscire. Un'inquadratura a figura intera mostrò l'uomo che aderiva ancora alla donna. Le increspature sulla schiena si susseguirono tanto violentemente che sarebbero risultate visibili anche se il tizio fosse stato vestito. Era successa la stessa cosa a Jason, la notte precedente. Dovevo riconoscere che era affascinante. Avevo già assistito alla trasformazione di qualche licantropo, ma mai così, con tanta ricchezza di dettagli, attraverso l'occhio amorevole di una videocamera. La pelle si spaccò lungo la spina dorsale e l'uomo s'impennò, gridando, stringendo con le mani la donna alla vita. Un fluido limpido cominciò a scorrergli sulla schiena e a bagnare il letto e la donna, che lo incoraggiò un po', oscillando i fianchi, gettandosi contro di lui, a testa china. La pelliccia nera si sparse sulla schiena. In uno spasmo, l'uomo si portò le mani ai fianchi, poi si curvò di nuovo sulla donna, affondando le mani nel letto. Per un attimo, le mani rimasero umane, poi cominciarono a squarciare lenzuola e materasso con lunghi artigli ricurvi. L'uomo sembrò rimpicciolire. La pelliccia si sparse con una rapidità sempre maggiore, quasi come un liquido. La maschera cadde perché non si adattava più alla forma del viso. La videocamera eseguì un primo piano della maschera caduta. Un tocco artistico? L'uomo era scomparso. Un leopardo nero montava la donna e ne sembrava ben contento. Si curvò su di lei, scoprendo le zanne scintillanti, e le mordicchiò la nuca, facendola sanguinare appena un po'. Lei emise un gemito e fu scossa da un lungo tremito in tutto il corpo. Alfred ricomparve, ancora in forma umana. Strisciò sul letto e baciò la donna. Fu un bacio lungo, completo, con uso abbondante della lingua. Continuando a baciarla, Alfred si alzò in ginocchio, ondeggiando al ritmo. Sembrava che guardarla lo eccitasse molto. Quando anche la sua schiena s'increspò, si staccò da lei e afferrò le lenzuola con le mani. La sua trasformazione sembrò molto più veloce della
precedente. Un primo piano delle sue mani mostrò le ossa che spuntavano dalla pelle con schiocchi fradici, i muscoli e i legamenti che si spostavano e si ricombinavano, il fluido limpido che sgorgava dalla pelle strappata. Così la mano si tramutò in un artiglio, subito ricoperto di pelliccia scura. Accosciato, era mezzo lupo e mezzo uomo, ma tutto maschio. Gettò la testa all'indietro e lanciò un ululato profondo e risonante che colmò la stanza. La donna alzò la testa a guardarlo con occhi sgranati. Il leopardo la lasciò e si rotolò sul letto, proprio come un grosso gatto, avvolgendosi nel lenzuolo di seta finché non rimase visibile soltanto il muso nero. La donna si sdraiò sulla schiena e spalancò le gambe, protendendo le mani verso l'uomo lupo, leccandosi le labbra come se si stesse davvero divertendo. E forse era proprio così. Il lupo mannaro la penetrò, e non fu delicato. Lei emise un gemito ansimante, come se fosse la miglior sensazione che avesse mai provato. Continuò a gemere e ad ansimare. Era una brava attrice, oppure si stava avvicinando all'orgasmo. Non ero sicura dell'interpretazione che preferivo. Ottima recitazione, credo. La donna venne con un suono che fu un misto fra uno strillo e un grido di gioia, poi giacque immobile sul letto, ansimante, completamente rilassata. Il lupo mannaro le diede un ultimo colpo, scosso da un tremito, poi, con gli artigli, le graffiò il corpo nudo. Lei strillò, e senza fingere. Il sangue sgorgò a rivoli scarlatti dalle ferite. Il leopardo emise un grido di stupore e balzò giù dal letto. La donna cercò di coprirsi il viso con le mani, ma un colpo d'artiglio le gettò le braccia da una parte, squarciando la carne fino all'osso, in un fiotto di sangue. Gli strilli si susseguirono acuti, laceranti, quasi senza pause per respirare. Il muso appuntito del lupo mannaro si curvò sul viso della donna. Rividi la mascella stritolata della vittima nella neve. Ma lui le squarciò la gola con un violento getto di sangue. Gli occhi di lei fissarono la videocamera senza più vedere, sgranati, lustri, senza vita. Per qualche ragione il sangue non le aveva imbrattato il viso. Il lupo mannaro si raddrizzò, col sangue che colava dalle fauci. Un pezzo di carne sanguinolenta cadde sul viso paralizzato dalla morte, fra gli occhi fissi. Il leopardo balzò di nuovo sul letto a leccare il viso della donna con colpi di lingua lunghi e sicuri. Il lupo leccò tutto il busto e indugiò sullo stomaco. Esitò, guardando l'obiettivo con un occhio giallo. Poi cominciò a
nutrirsi, e il leopardo si unì al banchetto. Chiusi gli occhi, ma i rumori furono sufficienti. Pesanti, umidi, aspri, si diffusero in tutta la stanza. Udii me stessa dire: «Spegni...» I rumori cessarono. Pensai che Edward avesse fermato il nastro, ma non guardai per accertarmene. Alzai gli occhi soltanto quando sentii il rumore del riavvolgimento. Edward tagliò un pezzetto di bistecca. «Se adesso mangi, ti vomito addosso.» Sorrise, ma posò coltello e forchetta. Mi guardò con la solita espressione neutra. Non riuscii a capire se il film gli fosse piaciuto o se ne fosse rimasto disgustato. «Adesso puoi farmi le tue domande.» Come sempre, la sua voce fu gradevole, impenetrabile agli stimoli esterni. «Cristo... Dove hai trovato questo schifo?» «Un cliente.» «Perché te lo ha dato?» «La donna era sua figlia.» «Oh, Dio... Ti prego, dimmi che non lo ha visto.» «Sai bene che lo ha visto. Lo ha guardato sino alla fine. Altrimenti perché mi avrebbe assunto? Di solito i padri non assumono qualcuno perché ammazzi gli amanti delle figlie.» «Vuole che tu uccida i due uomini?» Edward annuì. «Perché mi hai fatto vedere il film?» «Perché sapevo che mi avresti aiutato.» «Non sono un'assassina, Edward.» «Basta che mi aiuti a identificarli. Al resto penso io. Posso bere un po' di vino?» Annuii. Sorseggiò il vino. Il liquido scuro che roteava nel bicchiere mi sembrò un po' più rosso di quanto non mi fosse parso prima di vedere il film. Deglutendo a fatica, distolsi lo sguardo. Non volevo vomitare. «Dove posso trovare Alfred?» «Da nessuna parte.» Posò delicatamente il bicchiere di vino sul vassoio. «Mi deludi, Anita. Credevo che mi avresti aiutato, dopo avere visto quello che hanno fatto alla ragazza.» «Non sto rifiutando di aiutarti. Quel film è una delle cose più orrende
che abbia mai visto, e ne ho viste davvero tante. Il fatto è che arrivi un po' tardi per Alfred.» «Cioè?» «L'ho ammazzato ieri notte.» Sul suo viso si allargò un sorriso molto bello. «Mi faciliti sempre il lavoro.» «Non di proposito.» Scrollò le spalle. «Vuoi metà del compenso? Dopotutto, hai fatto metà del lavoro...» Scossi la testa. «Non l'ho fatto per soldi.» «Dimmi cos'è successo.» «No.» «Perché no?» Lo guardai. «Perché tu dai la caccia ai licantropi e io non voglio rischiare di consegnartene qualcuno senza rendermene conto.» «Il leopardo mannaro merita di morire.» «Non lo discuto. Anche se, tecnicamente, non è stato lui a uccidere la ragazza.» «Il padre li vuole tutti e due. Puoi forse biasimarlo?» «No, credo di no...» «Allora mi aiuterai a identificare l'altro?» «Può darsi...» Mi alzai. «Devo fare una telefonata. Qualcun altro dovrebbe vedere questo film. Qualcuno che potrebbe esserti d'aiuto.» «Chi?» Scossi la testa. «Prima lascia che gli chieda se è disposto a collaborare.» Edward annuì con un lungo gesto, quasi un inchino. «Come preferisci.» Composi il numero di Richard. Rispose la segreteria telefonica. «Sono Anita. Rispondi se ci sei. Richard, rispondi. È importante!» Nessuno rispose. «Dannazione!» «Non è in casa?» chiese Edward. «Hai il numero del Lunatic Cafe?» «Sì.» «Dammelo.» Lui ripeté lentamente il numero e io lo composi. Rispose una donna. Non era Raina, per fortuna. «Lunatic Cafe, sono Polly. In che cosa posso esserle utile?» «Devo parlare con Richard.» «Mi spiace, ma non abbiamo camerieri con questo nome.»
«Senta, sono stata ospite di Marcus, la notte scorsa. Devo parlare con Richard. È un'emergenza.» «Non saprei... Voglio dire, sono tutti molto impegnati nella sala privata...» «Vada subito a chiamare Richard e me lo passi.» «Marcus non ama essere disturbato.» «Polly, vero? Be', io sono in piedi da più di tredici ore. Se non mi passi subito Richard, vengo lì a romperti il culo. Chiaro?» «Ma chi parla?» La donna sembrò piuttosto seccata, per nulla spaventata. «Anita Blake.» «Oh... Vado subito, Anita... Vado subito a chiamare Richard...» La sua voce lasciò trapelare una sfumatura di panico assente fino a un attimo prima. Mi mise in attesa. La musicaccia era stata scelta da qualcuno che aveva un perverso senso dell'umorismo: Moonlight and Roses, Blue Moon, Moonlight Sonata. Tutte canzoni che avevano a che fare con la luna. A metà di Moon over Miami la comunicazione fu ripresa. «Anita, sono io. Cosa succede?» «Sto bene, ma ho qualcosa che devi vedere.» «Puoi dirmi di cosa si tratta?» «So che suona banale, ma non posso parlarne al telefono.» «Sei sicura che non sia soltanto una scusa per rivedermi?» Colsi una sfumatura beffarda nella sua voce. Sfortunatamente, era stata una notte troppo lunga. «Possiamo vederci o no?» «Certo. Ma che c'è? Hai una voce terribile...» «Ho bisogno di un abbraccio e di cancellare l'ultima ora della mia vita. Della prima cosa potrai occuparti tu quando arriverai. Quanto all'altra, dovrò conviverci per sempre.» «Sei a casa?» «No.» Guardai Edward, coprendo il microfono con la mano. «Posso dargli il numero della camera?» Annuì. Spiegai a Richard come arrivare all'albergo. «Vengo subito.» Richard esitò. «Cos'hai detto a Polly? È quasi isterica.» «Non voleva chiamarti.» «L'hai minacciata?» «Sì.» «Era una minaccia seria?»
«Non molto.» «I membri dominanti del branco non minacciano a vanvera gli inferiori.» «Non sono un membro del branco.» «Dopo quello che è successo la notte scorsa, sei dominante. Tutti ti considerano un licantropo dominante assassino.» «Che cosa significa?» «Significa che, quando dici che intendi rompere il culo a qualcuno, ti prendono in parola.» «Oh, mi dispiace...» «Non scusarti con me. Scusati con Polly. Arriverò lì prima che tu sia riuscita a calmarla.» «Non passarmela...» «È quello che succede a chi ha il grilletto facile. Fa paura alla gente.» «Richard...» Sentii una voce femminile rotta dai singhiozzi, poi trascorsi i quindici minuti successivi a persuadere una licantropa in lacrime che non avevo nessuna intenzione di ammazzarla. La mia vita stava diventando troppo strana, persino per me. 19 La previsione di Richard si rivelò sbagliata. Non bussò alla porta mentre ero al telefono a calmare Polly. La gratitudine che lei mi dimostrò per averle perdonato la scortesia fu imbarazzante. Emanazioni di sottomissione si trasmisero attraverso il telefono. Finalmente riappesi. Edward mi sorrise dalla morbida poltrona sulla quale si era accomodato. «Hai trascorso quasi venti minuti a convincere una licantropa che non hai intenzione di farla fuori?» «Sì.» Rise, una gran risata improvvisa. Poi anche il sorriso scomparve, lasciando una sorta di luminosità sul suo viso. Gli occhi scintillavano di qualcosa di più cupo del senso dell'umorismo. Non avevo nessuna idea precisa su quello che stava pensando, ma non doveva essere qualcosa di piacevole. Si rilassò, appoggiando la nuca allo schienale e intrecciando le mani sullo stomaco, le caviglie incrociate. Sembrava del tutto a suo agio. «Come sei diventata il terrore di tutti i bravi lupetti mannari del mondo?» «Credo che non siano abituati alla gente che spara e li ammazza. Almeno, non al primo incontro.»
Nei suoi occhi covava la brace di qualche scherzo tenebroso. «Sei andata là dentro e hai ammazzato uno di loro la prima volta? Diavolo, Anita... Io ci sono stato tre volte e non ho ancora accoppato nessuno.» «Da quanto sei in città?» Mi guardò per un lungo momento. «È una domanda di cortesia, oppure hai bisogno di saperlo?» In verità, avevo pensato che Edward sarebbe stato capacissimo di eliminare otto licantropi senza lasciare traccia. Se esisteva un essere umano in grado di riuscirci, quello era lui. «Ho bisogno di saperlo.» «Una settimana, domani.» I suoi occhi divennero vacui, freddi e remoti come quelli dei licantropi che avevo incontrato la notte precedente. Non esiste un modo solo per diventare predatori. «Naturalmente, devi credermi sulla parola. Puoi controllare in portineria, ma potrei anche avere cambiato diversi alberghi.» «Che motivo avresti di mentirmi?» «Puro e semplice divertimento.» «Non è mentire che ti diverte.» «E che cosa mi diverte?» «Sapere qualcosa che io non so.» Riuscì a scrollare lievemente le spalle, sebbene fosse affondato nella poltrona, e per giunta lo fece con grazia. «Egocentrico, da parte tua.» «Non si tratta semplicemente di me. Ti piace tenere segreti per il puro, dannato gusto di farlo.» Sorrise, un sorriso lento e pigro. «Mi conosci bene...» Fui sul punto di rispondere che eravamo amici, ma l'espressione nei suoi occhi mi bloccò. Il suo sguardo era un po' troppo intenso. Sembrava che mi scrutasse come se non mi avesse mai realmente vista prima. «Che stai pensando, Edward?» «Che forse riusciresti a mettermi in difficoltà.» «E questo che cosa vorrebbe dire?» «Sai che mi piacciono le sfide.» Lo fissai. «Stai parlando di metterti contro di me per vedere chi è il migliore?» La sua risposta non fu quella che avevo sperato. «Sì.» «Perché?» «Non lo farò. Mi conosci, niente soldi, niente morti. Però sarebbe... interessante.»
«Non cercare di spaventarmi.» «È soltanto che per la prima volta mi chiedo se riusciresti a vincere.» Mi stava spaventando. Ero armata e lui no, almeno in apparenza. In realtà, però, era sempre armato. «Non farlo...» Si alzò agilmente a sedere. Di scatto, impugnai la pistola. L'avevo sfoderata a metà quando mi resi conto che aveva soltanto cambiato posizione. Emisi un sospiro tremante e rinfoderai la pistola. «Non giocare con me, Edward, altrimenti uno di noi due potrebbe finire col farsi male.» Allargò le mani. «Basta giocare. Mi piacerebbe davvero scoprire chi è il migliore fra noi due, Anita, ma non abbastanza per ucciderti.» Rilassai la mano. Se Edward avesse dichiarato di volermi uccidere quella stessa notte, non sarebbe stata una minaccia vana. Se mai ci fossimo affrontati davvero, mi avrebbe preavvisata, perché in quel genere di cose gli piaceva essere sportivo. Sorprendere la vittima rendeva tutto troppo facile. Quando si udì bussare alla porta, trasalii. Edward rimase seduto come se non avesse sentito, continuando a fissarmi coi suoi occhi gelidi. Andai alla porta. Era Richard. Mi abbracciò, e io lo ricambiai. Abbandonata contro il suo petto, mi resi conto che così non sarei riuscita a sfoderare velocemente la pistola. Mi sciolsi dall'abbraccio e lo feci entrare. Mi guardò interrogativamente, e io scossi la testa. «Ricordi Edward?» «Non mi avevi detto che esci ancora con Richard.» Edward parlò in tono gradevole, normale, come se non si fosse affatto chiesto, poco prima, che effetto gli avrebbe fatto ammazzarmi. Il suo viso era aperto, cordiale. Si avvicinò offrendo la mano. Era un attore superbo. Richard gli strinse la mano, un po' perplesso, poi mi guardò. «Che sta succedendo, Anita?» «Puoi mostrargli il film?» «Se mi permetti di finire di mangiare mentre lui lo guarda. La mia bistecca ormai dev'essere gelata», disse Edward. Deglutii a fatica. «Avevi già visto il film, eppure hai ordinato le bistecche. Perché?» «Forse per scoprire se saresti riuscita a mangiare dopo averlo guardato.» «Bastardo competitivo.» Edward si limitò a sorridere. «Quale film?» chiese Richard. «Mangia la tua bistecca, Edward. Lo guarderemo quando avrai finito.» «Ti ha tanto turbata?»
«Zitto e mangia.» Seduto sul bordo del letto, Edward ricominciò a tagliare la carne rossa e sanguinolenta. Mi avviai verso il bagno. Non volevo vomitare, ma non sarei riuscita a trattenermi se lo avessi guardato masticare quel boccone. «Vado a nascondermi in bagno. Se vuoi una spiegazione, raggiungimi.» Richard guardò Edward, poi me. «Ma che sta succedendo?» Lo attirai in bagno e chiusi la porta alle nostre spalle. Aprii il rubinetto dell'acqua fredda e mi lavai il viso. Richard mi prese per le spalle e cominciò a massaggiarmi la schiena. «Ti senti bene?» Scossi la testa, col viso gocciolante. A tentoni, presi un asciugamano, me lo premetti sul volto e rimasi così per un po'. Edward aveva evitato di proposito di preavvisarmi perché si divertiva a sconvolgere la gente. In effetti, un preavviso avrebbe attenuato l'impatto. Quanto impatto volevo che Richard sopportasse? Mi girai, tenendo l'asciugamano. Lui sembrava angosciato, teneramente preoccupato, e io non volevo vederlo così. Davvero gli avevo detto sì, soltanto otto ore prima? Mi sembrava sempre meno reale. «È un film porno.» Sembrò sbalordito. Bene. «Un porno? Dici sul serio?» «Sono mortalmente serio.» «Perché dovrei vederlo?» Un pensiero sembrò attraversare la sua mente. «E perché lo hai guardato con lui?» La sua voce lasciò trapelare una lievissima sfumatura di collera. Allora scoppiai a ridere, e risi fino alle lacrime, fino a restare senza fiato, col viso rigato di pianto. «Che c'è di tanto divertente?» Lui sembrò alquanto indignato. Quando fui nuovamente in grado di parlare senza rimanere sfiatata, dissi: «Devi avere paura di Edward, ma non devi mai essere geloso di lui». Dopo avere riso mi sentii meglio, meno sporca, meno imbarazzata. Ridere aveva persino attenuato un poco l'orrore. Alzai gli occhi verso Richard. Indossava ancora il maglione verde che non molte ore prima era finito sul pavimento della mia cucina. Era meravigliosamente bello. Quanto a me, mi resi conto di non esserlo affatto. Con la mia felpa troppo grande, per giunta imbrattata di sangue, i jeans e le scarpe da ginnastica, avevo perso diversi punti al gioco dell'avvenenza. Scossi la testa. Aveva qualche importanza? No, stavo soltanto tergiversando. Non volevo uscire dal bagno e rivedere il film. Di sicuro non volevo star seduta a guardare un film
porno con l'uomo che avrei anche potuto sposare. Dovevo forse rovinargli il finale? Si sarebbe eccitato, prima del massacro? Guardando il suo viso molto umano, me lo domandai. «È un film con due licantropi e un'umana.» «Sono già in vendita?» Toccò a me restare sorpresa. «Sapevi del film? Anzi hai parlato al plurale... Ce n'è più di uno?» «Purtroppo sì.» Richard si appoggiò alla porta, poi si lasciò scivolare giù, sedendo sul pavimento a gambe incrociate. Se le avesse allungate, non ci sarebbe più stato posto per tutti e due. «Spiegami questa faccenda, Richard.» «L'idea è stata di Raina. Ha convinto Marcus a ordinare ad alcuni di noi di partecipare.» «E tu...?» Non riuscii a dirlo. Quando scosse la testa, la tensione nel mio petto si allentò. «Raina ha cercato di coinvolgermi, spiegando che quelli che hanno necessità di nascondere la loro identità possono indossare una maschera, ma io ho rifiutato.» «Marcus te l'ha ordinato?» «Sì. Quei dannati film sono uno dei motivi per cui ho deciso di salire nella gerarchia del branco. Se non lo avessi fatto, tutti quelli che mi erano superiori avrebbero potuto vincolarmi alla loro volontà. Se Marcus dice che è okay, i dominanti possono ordinare agli altri di fare quasi qualsiasi cosa, purché non sia illegale.» «Un momento. I film non sono illegali?» «La bestialità è illegale, in alcuni Stati, ma noi siamo riusciti a insinuarci negli interstizi della legge.» «Non si fa nient'altro d'illegale in quei film?» Alzò gli occhi a fissarmi. «Cos'hai visto in quel film che ti ha tanto spaventata?» «Morte in diretta.» Continuò a fissarmi, senza cambiare espressione, come se si aspettasse che aggiungessi qualcos'altro. Ma, dato che tacevo, replicò: «Non dirai sul serio...» «Vorrei che non fosse così.» Scosse la testa. «Neppure Raina lo farebbe.» «Raina non ha partecipato al film, a quanto ho potuto vedere.»
«Ma Marcus non lo approverebbe mai. Non questo...» Si alzò, spingendo soltanto con le gambe e scivolando lungo la parete, poi camminò fino alla vasca da bagno e tornò indietro. Nel passarmi accanto, picchiò una mano sul muro, con un bum rimbombante, infine si girò. Non lo avevo mai visto così arrabbiato. «Ci sono altri branchi nella regione. Non è detto che siamo stati noi.» «Nel film c'era Alfred.» Si addossò alla parete opposta, picchiandovi le mani aperte. «Non posso crederci!» Edward bussò alla porta. «Il film è pronto.» Richard spalancò violentemente la porta e ritornò nella stanza adiacente come una tempesta crepitante. Per la prima volta percepii una parte dell'energia soprannaturale che emanava. Edward spalancò gli occhi. «Gli hai descritto il film?» Annuii. La stanza era buia, a parte la televisione. «Lascio il letto a voi due piccioncini. Io mi siedo qui.» Edward si accomodò di nuovo sulla poltrona, senza appoggiarsi allo schienale, e ci guardò. «Non badate a me, se vi viene voglia...» «Zitto e vai col film», dissi. Richard sedette sul bordo del letto. Il carrello del servizio in camera era scomparso insieme con la carne che mi aveva disgustata. Bene. Una ragione in meno per vomitare. Richard sembrava essersi calmato e appariva abbastanza normale. L'esplosione di energia si era dissolta e mi domandai se non l'avessi soltanto immaginata. Guardai Edward, che osservava Richard come se avesse appena fatto qualcosa d'interessante. Non era stata soltanto la mia immaginazione. Fui sul punto di accendere la luce, ma non lo feci. L'oscurità sembrava più adatta alla situazione. «Edward...» «Inizia lo spettacolo!» Edward premette un tasto e il nastro ripartì. La tensione di Richard fu immediata. Aveva riconosciuto l'altro uomo? Decisi di non chiederlo, non ancora. Prima il film, poi le domande. Non volevo star seduta sul letto accanto al mio ragazzo durante quella schifezza. Forse non avevo pensato davvero a quello che poteva significare il sesso per Richard. Trasformarsi, forse? Bestialità? Sperai di no, e mi chiesi come scoprirlo senza chiederlo, dato che non volevo domandarlo. Se la risposta fosse stata affermativa, a proposito della bestialità, il matrimo-
nio sarebbe stato escluso. Alla fine mi alzai, passai davanti al televisore e sedetti sull'altra poltrona, accanto a Edward. Non volevo rivedere il film, e lui pure, a quanto pareva. Entrambi osservammo Richard che guardava. Non ero sicura di quello che mi aspettavo di vedere, o di quello che avrei voluto vedere. Quanto a Edward, il suo volto era impassibile, con gli occhi quasi chiusi. Nuovamente sprofondato nella poltrona, sembrava addormentato, ma io sapevo che non era così. Era consapevole di tutto quello che succedeva nella stanza. Per quanto ne sapevo, forse non dormiva mai veramente. Così, Richard guardò il film in solitudine, seduto sul bordo del letto, con le mani intrecciate, le spalle curve, gli occhi luminosi che riflettevano la luce dello schermo. Riuscivo quasi a vedere le immagini riflesse sul suo viso. Il sudore gl'imperlò la pelle sopra il labbro superiore. Si asciugò e si accorse che lo guardavo. Sembrò imbarazzato, poi arrabbiato. «Non guardarmi, Anita.» La sua voce fu soffocata da qualcosa di più, o di meno, dell'emozione. Non potevo fingere di dormire come Edward. Che cosa diavolo avrei dovuto fare? Mi alzai per andare in bagno, sforzandomi di non guardare lo schermo. Comunque fui costretta a passare davanti al televisore e sentii gli occhi di Richard che mi seguivano. Il suo sguardo mi fece prudere la schiena. Mi asciugai i palmi improvvisamente sudati sui jeans e mi girai lentamente a guardarlo. Osservava me, non il film. Il suo viso esprimeva odio e rabbia, anzi «rabbia» era un termine inadeguato per difetto. Però non pensai che fosse arrabbiato con me. Allora con chi? Con Raina? Con Marcus? Con se stesso? Lo strillo della donna lo indusse a girare di scatto la testa verso lo schermo. Lo guardai mentre il suo amico la uccideva. L'ira sbocciò sul suo viso, sfogandosi in un grido inarticolato. Si lasciò cadere in ginocchio, coprendosi il viso con le mani. Edward si alzò. Colsi il movimento con la coda dell'occhio e lo sorpresi a impugnare una pistola apparsa come per magia. Io impugnavo la Browning. Ci fissammo a vicenda, separati da Richard, che, in ginocchio, si raccolse in posizione quasi fetale e cominciò a dondolarsi lentamente avanti e indietro. Dal televisore provenivano i rumori delle carni lacerate. Alzò il viso, sconvolto, lanciò un'occhiata allo schermo e strisciò verso di me. Mi spostai, e lui proseguì verso il bagno. La porta fu chiusa rumorosamente. Pochi secondi più tardi lo sentimmo
vomitare. Edward e io restammo in piedi a guardarci, sempre con le pistole in pugno. «Sei stata veloce quanto me, a estrarre. Eppure due anni fa non eri così...» «Sono stati due anni piuttosto difficili.» Sorrise. «Quasi nessuno si sarebbe accorto, al buio, che mi muovevo.» «Ci vedo benissimo anche al buio.» «Lo ricorderò.» «Dichiariamo una tregua per stanotte, Edward. Sono troppo stanca.» Annuì e rinfoderò la pistola dietro la schiena. «Non è da lì che l'hai estratta.» «No, infatti.» Rinfoderai la Browning e bussai alla porta del bagno, ma senza girarmi del tutto e senza nascondere che non mi sentivo a mio agio, in quel momento, sapendo di avere Edward alle spalle. «Richard, tutto bene?» «No...» La sua voce suonò più profonda e più rauca. «Posso entrare?» Una lunga pausa, poi: «Forse è meglio...» Aprii la porta con prudenza per non rischiare di urtarlo. Era ancora inginocchiato davanti al gabinetto, a testa china, il viso nascosto dai lunghi capelli, con un po' di carta igienica in pugno. Il fetore dolciastro e pungente del vomito si librava nell'aria. Chiusi la porta e mi ci addossai. «Posso aiutarti?» Scosse la testa. Quando gli scostai i capelli da una guancia, si ritrasse di scatto come se lo avessi ustionato e si afflosciò nell'angolo fra la parete e la vasca da bagno. Aveva il viso stravolto dal panico. M'inginocchiai di fronte a lui. «Non toccarmi!» «Okay, non ti tocco. Cosa c'è che non va?» Non mi guardò. I suoi occhi vagarono per la stanza senza soffermarsi su niente, però evitando decisamente me. «Parlami, Richard.» «Non posso credere che Marcus lo sappia. Non può saperlo. Non lo avrebbe mai permesso.» «È possibile che Raina abbia girato il film a sua insaputa?» Annuì. «È un'autentica puttana.»
«L'ho notato.» «Devo dirlo a Marcus, ma so già che non mi crederà. Forse sarà necessario mostrargli il film.» Parlò in modo sensato, ma con la voce ancora esile e ansimante per il panico. Se non si fosse ripreso, avrebbe iperventilato. «Respira lentamente e profondamente, Richard. Va tutto bene.» Scosse la testa. «Non è vero. Credevo che ci avessi già visti al nostro peggio, e invece...» Rise come se sputasse. «Oh, Dio... Adesso, però, ci hai visti davvero...» Protesi una mano per confortarlo, per fare qualcosa. «Non toccarmi!» strillò. Ritirai la mano e sedetti, addossata alla parete opposta, il più lontano possibile da lui senza uscire dal bagno. «Che diavolo ti succede?» «Ti voglio, adesso, qui, dopo avere visto quello!» «Ti sei eccitato?» «Che Dio mi aiuti...» «È questo che significa il sesso per te? Non l'omicidio, ma quello che è successo prima...» «È possibile, ma pericoloso. In forma animale siamo contagiosi, lo sai.» «Però è una tentazione...» «Sì.» Strisciò verso di me, e io mi ritrassi. S'inginocchiò, sedette sui polpacci e rimase a guardarmi. «Non sono soltanto un uomo, Anita. Sono quello che sono. Non ti chiedo di abbracciare l'altra metà di me, letteralmente, però devi conoscerla. Devi sapere cos'è, altrimenti non potrà mai funzionare tra noi.» Mi scrutò in viso. «Oppure hai cambiato idea?» Non sapevo cosa dire. I suoi occhi non erano più stralunati. Erano scuri e profondi. Il suo sguardo e il suo viso avevano un fervore che non aveva nulla a che fare con l'orrore. Si mise carponi, e ciò bastò per avvicinarlo a me. Fissai il suo viso da pochi centimetri di distanza. Quando emise un lungo sospiro tremulo, l'energia mi fece accapponare la pelle, lasciandomi ansimante. La sua alterità mi percuoteva come una serie di onde, schiacciandomi contro la parete come una mano invisibile. Si chinò su di me fin quasi a sfiorarmi con le labbra, poi lasciò scivolare il viso accanto al mio. Il suo respiro era caldo sulla mia guancia. «Pensa a come potrebbe essere far l'amore così, sentire il potere che ti striscia sulla pelle mentre sono dentro di te...» Volevo toccarlo, ma ne avevo anche paura. Si spostò di nuovo in modo da guardarmi in faccia, abbastanza vicino per baciarmi. «Sarebbe molto bello...» Le sue labbra sfiorarono le mie. Mi sussurrò in bocca la frase suc-
cessiva, come un segreto. «E tutta questa lussuria è stata destata in me dalla vista del sangue e della morte, immaginando la paura di quella donna.» Si alzò in piedi di scatto, come una marionetta, con magica rapidità. In confronto a lui, Alfred, la notte precedente, era stato lento. «Questo è quello che sono, Anita. Posso fingere di essere umano, e ci riesco meglio di Marcus, però è soltanto apparenza.» «No...» La mia voce fu soltanto un sussurro. Deglutì a fatica, rumorosamente. «Devo andare.» Quando mi offrì la mano, mi resi conto che, se fossi rimasta seduta lì, non avrebbe potuto aprire la porta, non senza urtarmi. Sapevo che se avessi rifiutato la sua mano sarebbe stata finita. Lui non me lo avrebbe chiesto mai più e io non avrei mai più potuto rispondergli di sì. Così la presi, e lui emise un lungo sospiro. Il contatto con la sua pelle calda, quasi ardente, produsse piccole scosse che si diffusero lungo il mio braccio. Con tutto il suo potere liberato nella stanza, toccarlo fu indescrivibilmente meraviglioso. Si portò la mia mano alla bocca, ma più che baciarmi mi annusò, poi se la sfregò contro una guancia e mi leccò il polso. La lasciò cadere così bruscamente che barcollai all'indietro. «Devo andarmene di qui, e subito.» Il suo viso era nuovamente sudato. Ritornò nella stanza, dove le luci erano accese. Edward sedeva in poltrona, con le mani aperte in grembo, senza armi in vista. Immobile sulla soglia del bagno, sentii il potere di Richard turbinare e riempire l'ambiente come acqua troppo a lungo arginata. Mostrando enorme autocontrollo, Edward evitò di metter mano alle armi. Mentre Richard si recava alla porta, fu quasi possibile percepire l'incresparsi dell'aria al suo passaggio. Si fermò con la mano sulla maniglia. «Lo dirò a Marcus se accetterà d'incontrarmi da solo. Se invece Raina s'intrometterà, dovrò escogitare qualcos'altro.» Mi lanciò un'ultima occhiata, infine uscì. Quasi mi aspettavo che fuggisse di corsa lungo il corridoio, ma non lo fece. Il massimo dell'autocontrollo. Io e Edward restammo sulla porta a guardarlo sparire oltre l'angolo del corridoio. Poi lui si rivolse a me. «E così, esci con quello...» Soltanto poco prima mi sarei sentita insultata, ma la mia pelle vibrava ancora per effetto del potere di Richard. Non potevo pretendere di più. Mi aveva chiesto di sposarlo e io avevo detto sì, però non avevo capito, non davvero. Non era umano. In realtà, non era affatto umano. La domanda era: che importanza aveva? E la risposta era che non ne a-
vevo la più pallida idea. 20 Domenica mattina rimasi a letto a dormire, rinunciando alla funzione. Ero rincasata soltanto verso le sette, quindi mi sarebbe stato impossibile arrivare in chiesa per le dieci. Di sicuro, Dio avrebbe capito che avevo bisogno di riposare. Nel tardo pomeriggio mi recai alla Washington University, e precisamente nell'ufficio del dottor Louis Fane, per gli amici Louie. Attraverso l'unica finestra si vedeva la sera di primo inverno, che riempiva il cielo di morbide nubi purpuree, lasciando strisce di cielo come sfondo luminoso. A differenza di molti suoi colleghi, Louie aveva ottenuto una finestra. Chi fa il dottorato di ricerca non vale granché nei college. Louie era seduto con la schiena alla finestra e aveva acceso la lampada della scrivania, che creava una pozza d'oro caldo nella notte incipiente. Stare tutti e due seduti in quella bolla luminosa sembrava più intimo del dovuto. L'ultima resistenza contro le tenebre... Dio, quant'ero malinconica quel giorno. L'ufficio era ingombro come si addiceva a uno studioso. Una parete era coperta fino al soffitto di scaffali colmi di libri di biologia e di scienze naturali, incluse le opere complete di James Herriot. Uno scheletro di pipistrello incorniciato era appeso accanto al diploma. Alla porta era affisso un manifesto per l'identificazione dei pipistrelli simile a quelli per i pennuti, del tipo Gli uccelli più diffusi nel Missouri orientale. Non a caso, Louie aveva scritto la sua tesi di dottorato sull'adattamento all'ambiente umano da parte del Myotis lucifugus, un pipistrello chiamato comunemente «piccolo pipistrello marrone». Sugli scaffali erano allineati numerosi souvenir, ossia conchiglie marine, un pezzo di legno fossile, pigne, corteccia con licheni... Insomma, tutto l'assortimento che i biologi usano raccogliere. Louie era alto poco meno di un metro e settanta e aveva gli occhi neri come i miei. I capelli erano lisci, sottili e lunghi fino alle spalle, ma non gli donavano come a Richard. Sembrava solo che da un po' di tempo avesse dimenticato di andare dal barbiere. Aveva il viso quadrato, la corporatura snella e sembrava inoffensivo, ma quando unì la punta delle dita, guardandomi, i muscoli degli avambracci guizzarono. Anche se non fosse stato un ratto mannaro, forse non mi sarei offerta di fare a braccio di ferro con lui.
Si era recato in ufficio la domenica, che era anche il mio giorno libero, apposta per incontrarmi. Era la prima domenica, da mesi, che Richard e io non ci vedevamo, e non ci eravamo neppure parlati al telefono. Richard aveva chiamato per lasciar detto che non ci saremmo visti, spiegando che si trattava di faccende del branco. Io non avevo potuto chiedergli niente con la segreteria telefonica non si può interagire - e non lo avevo richiamato. Non me la sentivo di parlargli dopo la notte precedente. Quel mattino mi sentivo sciocca. Avevo accettato la proposta di matrimonio di uno sconosciuto. Di Richard conoscevo solo la superficie, l'apparenza, ma la sua intimità era un mondo del tutto nuovo che avevo appena iniziato a esplorare. «Che cosa ne pensate, tu e gli altri professori, delle orme che vi ha mandato la polizia?» «Crediamo che siano di lupo.» «Di lupo? Perché?» «È sicuramente un canide di grossa taglia e, dato che non si tratta di un cane, può essere soltanto un lupo.» «Anche tenendo conto della compresenza di orme umane?» «Sì.» «Non potrebbe essere Peggy Smitz?» «Peggy è in grado di controllarsi benissimo. E perché mai avrebbe dovuto uccidere qualcuno?» «Non saprei... Perché no?» Si addossò allo schienale della sedia, che cigolò sotto il suo peso. «Bella domanda... Peggy era una non violenta, nei limiti permessi dal branco.» «Non si batteva?» «No, se non era costretta a farlo.» «Occupava un posto elevato nella gerarchia del branco?» «Non dovresti chiederlo a Richard? Lui è un pretendente al trono, per così dire.» Mi limitai a guardarlo. Non intendevo distogliere lo sguardo come se fossi colpevole di qualcosa. «Sento puzza di guai...» Ignorai l'allusione. Lavoro, eravamo lì soltanto per discutere di lavoro. «Il marito di Peggy è venuto da me. Voleva che la cercassi e non sapeva che erano già scomparsi altri licantropi. Perché Peggy non glielo ha detto?» «Molti di noi riescono a mantenere le loro relazioni fingendo, per quanto
è possibile, di non essere quello che sono. Scommetto che Peggy non parlava mai al marito delle faccende del branco.» «È difficile fingere?» «Meglio ti controlli, più è facile fingere.» «Quindi è possibile.» «Vorresti vivere la tua vita fingendo di non resuscitare zombie, senza mai parlarne, senza mai condividere la tua esperienza con nessuno, sapendo che tuo marito ne è imbarazzato o disgustato?» Mi sentii ardere il viso. Avrei voluto negarlo. Non mi sentivo imbarazzata né disgustata a causa di Richard, però non mi sentivo neppure a mio agio. O, meglio, non mi sentivo abbastanza a mio agio per dire di esserlo. «Non sembra una gran bella vita.» «Infatti.» Nell'ufficio si protrasse un silenzio molto pesante. Se Louie pensava che avrei voluto vuotare il sacco, si sbagliava. Quando tutto il resto se ne va al diavolo, bisogna concentrarsi sul lavoro. «Oggi i poliziotti hanno perlustrato tutta la zona intorno al luogo in cui è stato ritrovato il cadavere. Il sergente Storr ha detto che non hanno trovato niente, se non qualche altra orma e un po' di sangue.» In verità, fra gli alberi vicino alla zona dell'omicidio, avevano trovato anche delle cartucce di fucile esplose da poco, ma non ero sicura di poter passare l'informazione alla comunità dei licantropi. Era una faccenda della polizia. Quanto a me, mentivo agli uni e agli altri, anche se non sembrava un gran bel modo di condurre un'indagine su un caso d'omicidio, o di persona scomparsa. «Se la polizia e il branco si scambiassero informazioni, forse riusciremmo a risolvere il caso.» Scrollò le spalle. «Non è mio compito, Anita. Io sono soltanto un indiano, non un capo.» «Richard è un capo.» «Non finché Marcus e Raina sono vivi.» «Pensavo che, per la supremazia nel branco, Richard dovesse battersi con Marcus, non con lei.» Louie rise. «Se credi che Raina, in caso di pericolo, non sia disposta ad aiutare Marcus, vuol dire che non la conosci.» «L'ho incontrata soltanto una volta. Comunque, pensavo che la legge del branco non le permettesse di aiutare Marcus...» Di nuovo, scrollò le spalle. «Non conosco la legge del branco, però conosco Raina. Se Richard si accordasse con lei, forse lo aiuterebbe a scon-
figgere Marcus, ma lui le ha fatto capire chiaramente di non avere nessuna simpatia per lei.» «Richard dice che è stata sua l'idea dei film porno coi licantropi...» Louie sgranò gli occhi. «Richard ti ha detto questo?» Annuii. «Mi sorprende... Questa faccenda lo imbarazzava molto. Raina ha insistito parecchio per fare un film con lui. Credo che stesse cercando di sedurlo, ma lo ha giudicato male. Richard è troppo riservato per fare sesso davanti a una videocamera.» «Raina ha girato qualche film?» «Così mi è stato detto.» «Nei film c'è anche qualche ratto mannaro?» Scosse la testa. «Rafael lo ha proibito. Il nostro è uno dei pochi gruppi che hanno rifiutato categoricamente.» «Rafael è un brav'uomo.» «È un bravo ratto...» aggiunse Louie. Sorrisi. «Che cosa sta succedendo fra te e Richard?» «Che vuoi dire?» «Mi ha lasciato un messaggio in segreteria. Ha detto di avere grosse notizie che ti riguardano. Poi, quando ci siamo visti, ha sostenuto che non era niente d'importante. Cos'è successo?» Non sapevo cosa dire, visto che di recente non c'erano state novità. «Credo che siano problemi di Richard...» «Ha detto che dipende da te e che non può parlarne. Tu dici che sono affari suoi e che non puoi parlarne. Be', vorrei che uno di voi due mi spiegasse di che cosa si tratta.» Aprii la bocca, la richiusi e sospirai. C'erano alcune domande cui mi sarebbe piaciuto trovare risposta, ma Louie era amico soprattutto di Richard. Era una questione di lealtà nei suoi confronti. Ma con chi diavolo avrei mai potuto parlarne, se non con lui? Con Irving? Era già abbastanza nei guai con Richard. «Ho sentito Richard e Rafael dire che sono in grado di controllare l'animale che è in loro... Significa che possono controllare la trasformazione?» Annuì. «Sì.» Poi mi guardò a occhi socchiusi. «Se ti ha detto questo, Richard doveva essere sul punto di trasformarsi. Che cosa è successo la notte scorsa?» «Se Richard non te l'ha detto, non credo di potertelo dire io.»
«Corre voce che tu abbia ucciso Alfred. È vero?» «Sì.» Mi guardò come se aspettasse qualche spiegazione, poi scrollò le spalle. «Raina non dev'essere contenta...» «Neanche Marcus sembrava molto contento.» «Ma lui non ti aggredirebbe mai in un vicolo buio. Lei invece sì.» «Perché Richard non me l'ha detto?» «Richard è uno dei miei migliori amici. È leale, sincero, premuroso. Una specie di boy-scout mannaro. Se ha un difetto, è che si aspetta che anche gli altri siano leali, sinceri e premurosi.» «Dopo quello che ha saputo di Marcus e di Raina, non continuerà mica a credere che siano onesti?» «No, ma gli è difficile considerarli malvagi. Alla fin fine, Marcus è il suo maschio Alfa e lui ne rispetta l'autorità. Sono mesi che cerca di arrivare a una sorta di compromesso con lui perché non vuole ucciderlo. Marcus, però, non ha gli stessi scrupoli nei confronti di Richard.» «Irving mi ha detto che Richard ha sconfitto Marcus, ma non lo ha ucciso, anche se avrebbe potuto farlo. È vero?» «Temo di sì.» «Merda!» «Sì, ho detto a Richard che avrebbe dovuto farlo, ma lui non ha mai ucciso nessuno. Crede che ogni vita sia preziosa.» «Ogni vita è preziosa.» «Però alcune vite sono più preziose di altre.» Annuii. «Già.» «Richard si è trasformato per te, la notte scorsa?» «Dio, sei implacabile!» «Tu stessa hai detto che è una delle mie migliori qualità...» «Di solito.» Louie era come Ronnie. Non mollava mai. «Si è trasformato per te?» «Non esattamente.» «E tu non lo avresti sopportato», dichiarò Louie. «Non ne sono sicura, ecco tutto. Non ne sono sicura.» «Meglio scoprirlo subito.» «Lo credo anch'io.» «Lo ami?» «Non sono affari tuoi.» «Per me Richard è come un fratello. Se hai intenzione di spezzargli il
cuore, voglio saperlo subito. Se tu lo lascerai, sarò io quello che lo aiuterà a rimettere insieme i pezzi.» «Non voglio ferire Richard.» «Ti credo.» Louie rimase a guardarmi con espressione molto tranquilla, come se fosse disposto ad aspettare la mia risposta per tutta la notte. Aveva più pazienza di quanta non ne avrei mai avuta io. «Sì, lo amo. Sei contento?» «Lo ami abbastanza da accettare il suo lato mannaro?» I suoi occhi mi scrutavano come per aprirsi un varco fino al mio cuore. «Non lo so. Se fosse umano...» «Se fosse umano, forse lo sposeresti?» Fu abbastanza gentile da assumere un tono interrogativo. «Forse...» Ma non era un forse. Se Richard fosse stato umano, in quel momento io sarei stata una fidanzata molto felice. Naturalmente, c'era un altro maschio non umano che mi corteggiava da un po' di tempo. Quando Jean-Claude aveva detto che Richard non era più umano di lui, non gli avevo creduto. Adesso, invece, avevo dei dubbi. A quanto pareva, mi ero sbagliata, anche se ciò non significava affatto che lo avrei mai ammesso con Jean-Claude e, tantomeno, che mi sarei scusata con lui. «Ieri è venuta da me una scrittrice, Elvira Drew, che sta scrivendo un libro sui licantropi. Sembra a posto, e potrebbe farvi buona pubblicità.» Quindi spiegai la struttura e le intenzioni del libro. «Sembra davvero una cosa positiva. Ma io che c'entro?» «Indovina.» «Non è ancora riuscita a intervistare un ratto mannaro...» «Tombola!» «Non posso permettermi di uscire allo scoperto, Anita. Lo sai.» «Non devi essere per forza tu. Non c'è proprio nessuno di voi che possa essere disposto a incontrare Drew?» «Chiederò in giro.» «Grazie, Louie.» Si alzò e mi offrì la mano. La sua stretta era decisa, ma non troppo vigorosa. Mi chiesi quanto fosse veloce in realtà e con quanta facilità avrebbe potuto ridurmi la mano in poltiglia. Sicuramente lo capì dalla mia espressione, perché disse: «Forse dovresti smettere di frequentare Richard, almeno fino a quando non avrai capito quali sono i tuoi veri sentimenti...» Annuii. «Sì, forse.» Restammo in silenzio per un momento. Sembrava che non ci fosse nien-
t'altro da dire, così me ne andai. Avevo esaurito la scorta delle risposte argute e persino delle battute ironiche. Era buio da poco, e mi sentivo stanca, abbastanza per tornare a casa e strisciare a letto, a nascondermi sotto le coperte. Invece decisi di andare al Lunatic Cafe per cercare di convincere Marcus a lasciarmi parlare con la polizia. Otto licantropi scomparsi, un umano ammazzato... La connessione non era certa, ma, se era stato un lupo mannaro, allora Marcus sapeva chi era, oppure lo sapeva Raina. Me lo avrebbero detto? Forse sì, forse no. Ma dovevo provare. Comunque, sembrava proprio che i mostri preferissero parlare con me, piuttosto che con gli sbirri. E se vi state chiedendo perché diavolo i mostri si sentono così maledettamente a loro agio con me... be', me lo sono chiesta anch'io. Dopotutto, resuscito gli zombie ed elimino i vampiri. Chi sono, io, per scagliare la prima pietra? 21 Tornando alla macchina fuori del campus, passai da una zona illuminata all'altra, col fiato che si condensava alla luce dei lampioni. Era la mia sera libera, perciò ero tutta vestita di nero. Bert non mi permetteva di vestire di nero sul lavoro, perché secondo lui suscitava un'impressione sbagliata, sgradevole, suggerendo associazioni con la magia malefica. Se avesse compiuto qualche ricerca, avrebbe scoperto che anche il rosso, il bianco e molti altri colori si usano nei rituali satanici. Dipende tutto dalla religione. Era molto anglosassone, da parte sua, bandire esclusivamente il nero. Jeans neri, Nike Airs nere a bande blu, maglione nero, trench nero. Persino le pistole e le fondine erano nere. Ero maledettamente monocroma, quella notte. Il crocifisso d'argento sul petto e i pugnali d'argento, nelle guaine assicurate agli avambracci, erano nascosti dal maglione. Avevo deciso di recarmi al Lunatic Cafe per cercare di persuadere Marcus a lasciarmi scambiare informazioni con la polizia. I licantropi scomparsi, inclusi quelli che, come Peggy Smitz, non volevano divulgare il loro segreto, erano ormai al sicuro dalla pubblicità negativa, visto che erano morti. Non poteva essere altrimenti. Non c'era modo di tenere prigionieri otto licantropi per tanto tempo. Informare gli sbirri non poteva nuocere, anzi avrebbe potuto persino prevenire la sparizione di altri licantropi. Dovevo parlare con coloro che avevano visto per l'ultima volta gli scomparsi. Perché nessuno si era difeso? Doveva esserci qualche indizio. E, dato che Ronnie in quelle cose era
più brava di me, forse l'indomani avremmo potuto indagare insieme. Avrei incontrato anche Richard, al locale? In tal caso, che cosa avrei potuto dirgli? Assalita dal dubbio, smisi di camminare e rimasi immobile nella fredda oscurità fra due lampioni. Non ero ancora pronta a rivedere Richard, ma c'era un cadavere, e forse anche più di uno. Non potevo fare marcia indietro soltanto perché non volevo rivederlo. Sarebbe stata pura vigliaccheria. La verità era che avrei preferito affrontare un branco di vampiri, piuttosto che un aspirante sposo. Il vento ululò alle mie spalle come se stesse arrivando un uragano e i capelli mi sferzarono il viso, tuttavia le fronde degli alberi rimasero immobili come fossero congelate. Non era vento. Mi girai di scatto con la Browning in pugno, ma qualcosa mi colpì alla schiena, sbattendomi sul marciapiede. Cercai di attutire l'impatto con le braccia, ma l'urto fu talmente violento da intorpidirmi le mani. La mia testa scattò all'indietro. Subito dopo essere stati colpiti alla nuca si rimane per un attimo paralizzati, incapaci di reagire, e ci si chiede se si riuscirà mai a riacquistare la capacità di movimento. Qualcuno, seduto sulla mia schiena, mi strappò rumorosamente la parte sinistra del trench. Riacquistando poco a poco la sensibilità, mi resi conto di avere perduto la Browning. Cercai di rotolare su un fianco per sfoderare la Firestar, ma una mano mi sbatté di nuovo la testa sul marciapiede. Una luce mi esplose nel cranio e la vista mi si oscurò. Quando la riacquistai, vidi che il volto di Gretchen mi sovrastava. Tirandomi dolorosamente per i capelli, Gretchen mi strappò la spalla del maglione e spalancò la bocca, le zanne scintillanti nell'oscurità. Strillai. La Firestar era bloccata sotto il mio corpo. Cercai di sguainare un pugnale, pur sapendo che non ci sarei mai riuscita in tempo perché erano tutti e due sotto le maniche del trench e del maglione. Qualcun altro strillò. Era una ragazza in fondo al marciapiede. Gretchen rizzò la testa e sibilò. Il giovane che stava con la ragazza la prese per le spalle e la condusse via. Scapparono di corsa, molto saggiamente. Approfittai di quell'istante per conficcare il pugnale nella gola della vampira. Sapevo che non sarebbe stata una ferita mortale. Volevo soltanto allontanarla per avere la possibilità di sfoderare la Firestar. Tuttavia lei non si mosse. Affondai la lama fino all'impugnatura, col sangue che mi scorreva sulla mano e mi schizzava il viso. Nonostante ciò, Gretchen abbassò la testa di scatto per azzannarmi la gola. Il primo pugnale aveva inflitto tutto il danno possibile e non avevo il tempo di sguainare il secondo. Il peso del
mio corpo m'impediva di estrarre la Firestar. Sapendo che stavo per morire, mi sembrò di avere tutta l'eternità per guardare le sue fauci che scendevano verso la mia gola. Un'ombra si abbatté sulla vampira, facendola rotolare lontano. Rimasi sdraiata sul marciapiede, ansimante, sbattendo le palpebre, accorgendomi di avere la Firestar in pugno senza ricordare di averla sfoderata. Esercizio, soltanto esercizio, nient'altro che esercizio... Un ratto mannaro schiacciava Gretchen al suolo. Il muso nero scattò verso il basso. La vampira lo afferrò, bloccandolo e impedendogli di squarciarle la gola. Un artiglio villoso le straziò il viso pallido. Lei gridò, mentre il sangue sgorgava, poi gli tirò un pugno nello stomaco, sollevandolo di peso abbastanza da permetterle, con un calcio a gambe unite, di proiettarlo via. Il ratto mannaro rotolò come una palla. Gretchen balzò in piedi come per magia. Sempre sdraiata, presi la mira, ma lei scomparve fra la vegetazione all'inseguimento del ratto mannaro. Avevo perso la mia occasione. Dall'oscurità giunsero ringhi e rumori di rami spezzati. Doveva essere Louie. Non conoscevo tanti ratti mannari disposti a correre in mio soccorso. Quando mi alzai, tutto il mondo parve ondeggiare. Vacillai, riuscendo a reggermi in piedi a stento. Per la prima volta mi chiesi quanto fossero gravi le mie ferite. Riconoscendo il dolore tipico delle escoriazioni, mi toccai la testa e le dita mi si sporcarono di sangue, che era mio soltanto in parte. Riuscii ad avanzare di un passo. Speravo che il capogiro fosse stato provocato esclusivamente dal fatto che mi ero alzata troppo in fretta. Non sapevo se un ratto mannaro fosse in grado di avere la meglio su una vampira, tuttavia non avevo nessuna intenzione di stare in disparte ad aspettare di scoprirlo. Ero al margine degli alberi quando i due mostri sbucarono dall'oscurità, travolgendomi. Mi ritrovai sdraiata sul marciapiede per la seconda volta, e senza neppure il tempo di riprendere fiato. Rotolai sul fianco destro e puntai la pistola verso i rumori. Il movimento fu tanto brusco che la vista mi si offuscò. Quando riuscii a rimettere a fuoco, Gretchen affondò le zanne nel collo di Louie, che emise uno strillo acuto, violento. Tranne le braccia e le gambe, lei era interamente nascosta da lui, che le stava addosso e, dato che avrei potuto ucciderla soltanto conficcandole una pallottola d'argento nella testa bionda, non osavo sparare: avrei rischiato di ammazzare anche Louie. Sarebbe stato un tiro difficile anche se fossi stata completamente lucida.
Mi alzai in ginocchio ed ebbi un altro capogiro, mentre la nausea mi saliva in gola. Quando il mondo smise di roteare, mi trovai di nuovo impossibilitata a fare fuoco. Sebbene il lampione fosse lontano, il sangue che sgorgava dalla gola di Louie scintillò alla luce. Se la vampira avesse avuto zanne come le sue, lui sarebbe morto. Sparai al suolo accanto a loro nella speranza di spaventare Gretchen, ma invano. Allora mirai a un albero, poco sopra la testa di lei. Più vicino a lui, non osavo. La pallottola esplose nel tronco. Nel nutrirsi del sangue del ratto mannaro, Gretchen mi guardò con un occhio azzurro, decisa ad ammazzarlo sotto i miei occhi. «Spara!» implorò Louie, con voce riconoscibile, sebbene prodotta da un apparato vocale mannaro. I suoi occhi divennero vitrei e si chiusero mentre lo guardavo. Le sue ultime parole. Inspirai profondamente, regolai la respirazione e puntai, impugnando la pistola con due mani, una sotto l'altra. Mirai all'occhio azzurro. Allora il buio mi oscurò la vista. In ginocchio, cieca, attesi che la vista mi si schiarisse per poter premere il grilletto. Se mi si fosse annebbiata di nuovo nello sparare, avrei colpito Louie. Non avevo altra scelta. O forse no... «Richard mi ha chiesto di sposarlo e io ho accettato. Sei in grado di riconoscere una menzogna, vero? Be', ho detto sì a qualcuno che mi ha chiesto di sposarlo, e non è Jean-Claude. Non abbiamo motivo di batterci.» La vampira esitò. La scrutai nell'occhio. La mia vista era limpida. Col braccio saldo, aumentai la pressione sul grilletto. Gretchen sfilò le zanne dal collo villoso e abbassò la testa, nascondendosi. La sua voce giunse attutita ma comprensibile. «Se posi la pistola, lo lascio.» Puntai la Firestar al cielo. «Lascialo.» «Prima la pistola.» Non volevo rinunciare alla mia unica arma. Sembrava proprio una pessima idea. D'altronde, che scelta avevo? Se fossi stata al posto di Gretchen, avrei posto la stessa condizione. Il pugnale che mi restava era inutile a quella distanza. Anche se fossi stata in grado di scagliarlo con precisione sufficiente a centrarle il cuore, avrebbe dovuto essere un lancio molto potente. Inoltre, era una vampira troppo vecchia perché una ferita non mortale potesse bloccarla. Le avevo conficcato in gola tutta la lama dell'altro pugnale senza neanche riuscire a rallentarla. Devo riconoscere che ne ero rimasta impressionata. Posai la Firestar sul marciapiede e sollevai le mani. Gretchen si alzò len-
tamente. Non più sostenuto da lei, il corpo inerte di Louie rotolò sulla schiena con una fiacchezza che mi angosciò. Era troppo tardi? Il morso di un vampiro poteva uccidere come l'argento? Io e la rediviva ci fissammo. Cristo... Non si era presa neppure la briga di sfilarsi il pugnale, che le spuntava dalla gola come un punto esclamativo. Evidentemente avevo mancato la laringe, altrimenti non sarebbe riuscita a parlare. Anche i vampiri hanno i loro limiti. Inoltre, la guardavo negli occhi e non succedeva niente, come se stessi fissando un'umana. Non avrebbe dovuto essere così. Stava forse limitando i propri poteri? «È ancora vivo?» «Avvicinati e controlla tu stessa.» «No, grazie.» Se Louie era passato a miglior vita, la mia morte sarebbe stata inutile. Sorrise. «Ripetimi la notizia.» «Richard mi ha chiesto di sposarlo e io ho detto sì.» «Ami questo Richard?» «Sì.» Non era il momento di esitare e, dato che lei accettò la risposta con un cenno affermativo, immaginai che fosse vero. Sorpresa... «Se lo dirai a Jean-Claude, sarò soddisfatta.» «Ho tutte le intenzioni di dirglielo.» «Stanotte.» «Benissimo, stanotte.» «Stai mentendo. Non appena me ne sarò andata, ti occuperai delle tue ferite e delle sue. Non andrai da Jean-Claude.» Non potevo farla franca neppure con una piccola bugia... «Che vuoi?» «Stanotte è al Guilty Pleasures. Vai a dirglielo. Io ti aspetterò.» «Prima di tutto devo occuparmi di lui.» «Va bene, ma, se non verrai al Guilty Pleasures prima dell'alba, la nostra tregua finirà.» «Perché non parli tu con Jean-Claude?» «Non mi crederebbe.» «Se dicessi la verità, sì.» «Il fatto che io ti creda, non significa che sia la verità. Solo lui può capirlo veramente. Comunque, se io non ci sarò, aspettami. Voglio essere presente quando gli dirai che ami un altro. Voglio vedere la delusione e il dolore sul suo viso.» «Benissimo. Prima dell'alba ci sarò.» Gretchen scavalcò il corpo di Louie. Impugnava la Browning con la de-
stra, non per sparare, ma per impedirmi di recuperarla. Si avvicinò e raccolse anche la Firestar, senza distogliere lo sguardo da me. Il sangue che colava dal pugnale conficcato nel collo gocciolava, umido e pesante, sul cemento. Sorrise quando i miei occhi si sgranarono. Anche se avevo previsto che la pugnalata non l'avrebbe uccisa, avevo creduto che sarebbe stata almeno dolorosa. Gretchen, invece, dava l'impressione di non esserne minimamente impensierita. «Potrai riavere le pistole quando glielo avrai detto.» «Speri che lui mi uccida...» «In questo caso, non spargerei neanche una lacrima.» Fantastico. Gretchen indietreggiò lentamente di due passi. Presso gli alberi si bloccò, sagoma pallida nell'oscurità. «Ti aspetterò, Anita Blake. Non deludermi.» «Ci sarò.» Sorrise, in un lampeggiare di zanne insanguinate, indietreggiò ancora di un passo e scomparve. Sul momento pensai che fosse un'illusione, ma subito si udì un risucchio d'aria, e gli alberi si scossero come al passaggio di una tempesta. Alzando lo sguardo, intravidi qualcosa. Non aveva ali, non era un pipistrello, ma... Era qualcosa che i miei occhi non potevano o non volevano interpretare. Il vento sparì, il buio invernale divenne silenzioso come una tomba, a parte le sirene che ululavano in lontananza. Pensai che i due studenti avessero chiamato gli sbirri, e non me la sentii di biasimarli. 22 Mi alzai con prudenza e il mondo non roteò: bene. Mi avvicinai a Louie, che era ancora in forma mannara e giaceva sul prato, decisamente immobile. Quando m'inginocchiai fui assalita dalla vertigine. Aspettai, carponi, che la sensazione passasse. Non appena tutto fu di nuovo fermo, posai una mano sul petto villoso, lo sentii sollevarsi e abbassarsi sotto il palmo, e sospirai. Era vivo, respirava. Se fosse stato in forma umana avrei esaminato la ferita al collo. Ero sicura che toccare il suo sangue quando era in forma animale non sarebbe bastato a trasmettermi la licantropia, ma la prudenza non è mai troppa. Avevo già abbastanza problemi senza diventare mannara una volta al mese. Inoltre, se proprio avessi dovuto scegliere una bestia, non avrei certo scelto
il ratto. Le sirene si avvicinavano sempre più e io non sapevo cosa fare. Louie era gravemente ferito e, anche se avevo visto Richard guarire da una ferita peggiore, non sapevo se avesse bisogno di cure mediche. Potevo nasconderlo fra gli arbusti e abbandonarlo, magari a morire. Se gli sbirri lo avessero trovato così, il suo segreto sarebbe stato svelato e la sua vita rovinata, soltanto perché mi aveva aiutata. Non mi sembrava giusto. Un lungo sospiro provenne dal suo muso appuntito, un tremito percorse il corpo, la pelliccia cominciò a rifluire come la risacca, le zampe si trasformarono, prima quelle anteriori poi quelle posteriori. Osservai la sua forma umana emergere come un oggetto intrappolato dal ghiaccio. Louie rimase sdraiato sull'erba fosca, pallido, nudo e molto umano. Non avevo mai assistito prima alla trasformazione inversa, cioè quella da animale a uomo. Non era meno spettacolare di quella da uomo ad animale, però era meno spaventosa, magari a causa dell'esito finale. Il morso al collo, dai margini slabbrati, era più simile a quello di un lupo che a quello di un vampiro, ma i fori profondi delle zanne erano inconfondibili. Sanguinava ancora un po', però sembrava che cominciasse a rimarginarsi, anche se, al buio, non potevo esserne sicura. Controllai il polso. Era forte e regolare, ma... Che ne sapevo? Non sono mica un medico. Le sirene tacevano, tuttavia i lampeggianti colorati fendevano l'oscurità al di sopra degli alberi. Gli sbirri stavano arrivando e io dovevo decidere cosa fare. Quanto a me, mi sentivo meglio, la vista era limpida, la vertigine sembrava scomparsa. Naturalmente, non avevo più provato ad alzarmi in piedi. Avrei potuto caricarmi in spalla Louie, anche se non potevo trasportarlo troppo lontano. Il morso si stava rimarginando rapidamente. Diavolo, entro mattina sarebbe guarito! Ma non potevo abbandonarlo lì e lasciare che gli sbirri lo trovassero. Lo avvolsi nella giacca per proteggerlo da un eventuale inizio di congelamento, che avrebbe potuto portare alla perdita di qualche parte delicata. È una bella fregatura perdere un dito del piede. Inspirai profondamente e me lo caricai in spalla. Alle mie ginocchia lo sforzo non piacque per niente, però riuscii ad alzarmi in piedi, e subito arrivò il capogiro. Rimasi ferma al centro del mondo improvvisamente roteante, poi caddi in ginocchio. A causa del fardello fu doloroso. La polizia stava arrivando. Se non fossi riuscita ad andarmene subito, sarebbe stato meglio rinunciare, ma rinunciare non è mai la mia opzione preferita. Sollevai una gamba e spinsi, le ginocchia strillarono, però riuscii a
rialzarmi. Mi lasciai sommergere dalla vertigine, che mi accecò con le sue onde nere, ma fu meno violenta. La nausea fu maggiore, ma avrei potuto vomitare in seguito. Rimasi sul marciapiede perché non mi fidavo a camminare nella neve, senza contare che persino gli sbirri di città sarebbero stati capaci di seguire orme nitide nella bianca coltre. Una fila di alberi mi nascondeva alla vista di chi si trovava nella zona dei lampeggianti. Girai intorno all'edificio e proseguii in direzione della mia macchina. L'idea di guidare mentre la vista mi si offuscava era pessima, ma, se non fossi riuscita a mettere una certa distanza fra me e gli sbirri, tutti i mìei sforzi sarebbero stati vani. Dovevo tornare alla Jeep e nascondere Louie. Non guardai indietro per sorvegliare i lampeggianti, perché, a parte la fatica di girarmi con Louie in spalla, non sarebbe servito a niente. Continuai a mettere un piede davanti all'altro, costeggiando l'edificio, che alla fine ci nascose alla vista. I poliziotti non ci avrebbero più notati neppure se avessero attraversato gli alberi. Un progresso. La mole del fabbricato incombeva come un fosco monolito alla mia sinistra. Il percorso sembrava infinito, mentre io continuavo a mettere un piede davanti all'altro. Potevo farcela, dovevo soltanto concentrarmi sul camminare. Tuttavia Louie sembrava diventato più leggero, e ciò non andava affatto bene. Stavo forse per perdere conoscenza senza accorgermene? Alzai lo sguardo, scoprendo di essere all'angolo dell'edificio. Mi ero fermata. Brutto segno. Avrei scommesso di avere una commozione cerebrale. Comunque, non poteva essere troppo grave, altrimenti sarei svenuta. Giusto? Perché allora non ci credevo? Sbirciai oltre l'angolo, badando a non sbattere le gambe di Louie contro il muro, e mi ci volle molta più attenzione del normale. I lampeggianti fendevano l'oscurità. Nella notte si diffondevano le voci confuse, distorte e crepitanti che provenivano dalla radio. L'automobile della polizia era parcheggiata a lato del parcheggio, con una portiera aperta, e sembrava vuota. Era così lontana che nello sforzo di fissarla un'onda nera mi offuscò la vista. Come diavolo sarei riuscita a guidare? Un problema alla volta. Per prima cosa dovevo riuscire a trasportare Louie fino alla Jeep e nasconderlo. Mi allontanai dal fabbricato, che era il mio ultimo rifugio. Se gli sbirri fossero arrivati proprio mentre attraversavo il parcheggio, sarebbe stata la fine.
La domenica sera non c'erano molte macchine nel parcheggio riservato ai visitatori. La mia Jeep era sotto un lampione: la regola numero uno per le donne che viaggiano sole di notte è, quando possibile, evitare l'oscurità. La Jeep mi sembrava illuminata da un riflettore, anche se probabilmente la luce del lampione non era così intensa. Era un'impressione dovuta al fatto che stavo cercando di essere furtiva. A circa metà strada, mi resi conto che la ferita alla testa non era il mio unico problema. Potevo sostenere il peso di Louie, ma non in eterno. Ormai le ginocchia mi tremavano. A ogni passo rallentavo e la fatica aumentava. Se fossi caduta, non sarei più riuscita a caricarmi Louie in spalla. Non ero neppure sicura che sarei stata in grado di rimettermi in piedi. Un piede davanti all'altro, soltanto un piede davanti all'altro... Mi concentrai su quello, e alla fine vidi le ruote della Jeep. Ecco, non era stato poi tanto difficile. Le chiavi della macchina le tenevo, ovviamente, in tasca. Sbloccai le portiere col telecomando. In quel momento, il segnale acustico mi sembrò un allarme antiaereo. Aprii una portiera con una mano, sostenendo Louie con l'altra, quindi lo scaricai sul sedile posteriore. Il trench si aprì parzialmente a rivelare il corpo nudo. Di sicuro mi sentivo meglio di quanto pensassi, perché mi presi il tempo di ricoprire il ventre e l'inguine. Un braccio inerte e disteso rimase nudo, ma il mio pudore riuscì a sopportarlo. Richiusa la portiera, intravidi la mia immagine riflessa nello specchietto retrovisore. Metà del viso era una maschera sanguinolenta, mentre l'altra metà era schizzata di sangue. M'infilai nella Jeep per prendere dalla scatola che tenevo sulla pedana una delle salviette umidificate all'aloe e alla lanolina, che da un po' di tempo portavo sempre con me per pulirmi dopo avere resuscitato gli zombie. Erano più efficaci dell'acqua e del sapone che usavo un tempo. Dopo essermi pulita il viso abbastanza bene per evitare di essere fermata dal primo sbirro che avessi incrociato, sedetti al posto di guida. Un'occhiata nello specchietto retrovisore mi confermò che l'auto della polizia era ancora là, abbandonata, sola come un cane in attesa del ritorno del padrone. Il motore si avviò al primo colpo. Inserii la marcia e premetti l'acceleratore. La Jeep deviò verso un lampione come se fosse stata attirata da un magnete. Inchiodai, felice di avere allacciato la cintura di sicurezza. Okay, ero un po' disorientata. Accesi la luce interna, che dovrebbe servire a controllare il trucco, e controllai invece i miei occhi. Le pupille erano regolari. Se una non lo fosse stata, avrebbe potuto significare che avevo un'emorragia interna e, dato che per una cosa del genere si muore, avrei do-
vuto presentarmi agli sbirri e andare all'ospedale. Invece non ero tanto grave, o almeno lo speravo. Spensi la luce e ripartii, scoprendo che, se guidavo molto lentamente, alla Jeep non veniva voglia di baciare tutti i lampioni. Magnifico. Uscii dal parcheggio piano piano, aspettandomi di sentir gridare alle mie spalle. Niente. La strada era buia, con le macchine parcheggiate in fila lungo i marciapiedi. La percorsi a venti all'ora, perché avevo paura di accelerare. Avevo l'impressione di passare attraverso le macchine. Era soltanto un'illusione, però era maledettamente irritante. Quando imboccai una strada più frequentata, i fari delle altre auto mi accecarono. Sollevai una mano a proteggere gli occhi, rischiando di urtare una macchina in sosta. Avrei dovuto fermarmi da qualche parte, prima di sbattere contro qualcosa. Soltanto dopo quattro isolati trovai una stazione di servizio con alcuni telefoni pubblici all'esterno. Non ero sicura di avere un aspetto abbastanza presentabile e, dopo tutta la fatica che avevo fatto per andarmene con Louie senza che gli sbirri ci notassero, non volevo che qualche benzinaio troppo scrupoloso chiamasse la polizia. Così, entrai nella stazione con molta calma. Dopotutto, avrebbero potuto chiamare la polizia anche se avessi sbagliato manovra schiantandomi contro una pompa di benzina. Svoltai nel parcheggio e occupai un posto vicino ai telefoni. Frugando tra gli spiccioli che tenevo sempre nel portacenere, trovai un quarto di dollaro. Scesa dall'auto, mi resi conto per la prima volta di quanto facesse freddo senza trench. Il gelo mi corse giù per la schiena dove il maglione era strappato. Senza riflettere composi il numero di Richard. Chi altri avrei potuto chiamare? Rispose la segreteria telefonica. Udii il segnale acustico. «Richard, sono Anita... Louie è ferito. Rispondi se ci sei... Richard! Dannazione, Richard! Rispondi! Richard!» Appoggiai la fronte al freddo metallo della cabina. «Rispondi, rispondi, rispondi... Richard! Dannazione!» Finalmente rispose, e sembrò senza fiato. «Anita, sono io. Che succede?» «Louie è ferito, ma sta guarendo. Come si spiega una cosa del genere al pronto soccorso?» «Non si spiega. Però abbiamo medici che possono assisterlo. Ti do un indirizzo.» «Non sono in grado di guidare.»
«Sei ferita?» «Sì.» «Gravemente?» «Abbastanza da non poter guidare.» «Che cosa vi è successo?» Gli fornii una versione molto abbreviata degli eventi della notte, limitandomi a dire che eravamo stati aggrediti da un vampiro, senza spiegare perché. Non ero pronta a dirgli che mi ero impegnata ad annunciare il nostro fidanzamento a Jean-Claude, perché non sapevo se fossimo ancora fidanzati. Lui aveva chiesto e io avevo risposto sì, ma adesso ero piena di dubbi. E, forse, anche lui non era più tanto sicuro. «Dimmi dove siete.» Lo feci. «Conosco quella stazione di servizio. Mi ci sono fermato, qualche volta, quando sono andato a trovare Louie.» «Perfetto. Fra quanto puoi arrivare?» «Sei sicura di resistere fino al mio arrivo?» «Certo.» «Perché, se non ce la fai, chiama la polizia. Non rischiare la vita per proteggere il segreto di Louie. Neanche lui lo vorrebbe.» «Lo terrò a mente.» «Non fare la dura con me, Anita. Non voglio che ti succeda niente.» Sorrisi, con la fronte appoggiata alla cabina. «Sono sempre andata avanti facendo la dura... Muoviti, Richard. Ti aspetto.» Riagganciai prima che cominciasse a fare lo sdolcinato. Mi sentivo troppo male per poter sopportare tanta sollecitudine. Risalii sulla Jeep, ma anche nell'abitacolo era freddo, perché avevo dimenticato di accendere il riscaldamento. Rimediai, regolandolo al massimo, poi m'inginocchiai sul sedile per controllare Louie. Non si era mosso. Il polso era sempre forte e regolare. Tanto per fare una prova, sollevai una mano inerte e la lasciai ricadere. Nessuna reazione, come mi aspettavo. Di solito, un licantropo resta in forma animale per un periodo che va dalle otto alle dieci ore. Ritrasformarsi in anticipo richiede molta energia, perciò, anche se non fosse stato ferito, Louie avrebbe dormito per tutto il resto della notte. Comunque, era inadeguato definire «sonno» quella condizione, perché in quel periodo il risveglio non era possibile. Come metodo di sopravvivenza non era granché, proprio come non lo era per i vampiri la necessità di dormire durante il giorno. Era il modo che l'evoluzione aveva e-
scogitato per aiutare noi miseri umani. Mi abbandonai sul sedile. Non sapevo esattamente quanto tempo avrebbe impiegato Richard ad arrivare. Lanciando un'occhiata alla stazione, vidi il cassiere intento a leggere una rivista senza curarsi affatto di noi, almeno per il momento. Se mi fossi accorta che ci osservava, mi sarei tolta dalla luce. Non volevo che si chiedesse perché me ne stavo seduta lì. Con la nuca sul poggiatesta, evitai di chiudere gli occhi, perché ero sicura di avere una commozione cerebrale e sapevo che addormentarmi non sarebbe stata una buona idea. Mi era già capitato, in precedenza, di essere ferita ancora più gravemente, e in quella occasione ero stata curata da JeanClaude. Il marchio di un vampiro, però, era un po' eccessivo per una semplice commozione cerebrale. Era la prima volta che rimanevo ferita gravemente da quando non avevo più i marchi di Jean-Claude, che mi avevano resa più resistente alle lesioni e più rapida nel guarire. Come effetto collaterale non era niente male. Un altro era la capacità di sostenere lo sguardo di un vampiro senza restarne ipnotizzata, come quando avevo guardato Gretchen negli occhi. Come avevo potuto farlo senza conseguenze? Jean-Claude mi aveva forse mentito? Mi restava ancora qualcosa dei suoi marchi? Ecco una cosa che avrei dovuto chiedergli. Naturalmente, quando gli avessi annunciato la novità, si sarebbe scatenato l'inferno e non avrei più potuto fargli delle domande. E c'era un problema: avrebbe tentato di ammazzare Richard? Probabilmente sì. Sospirai, chiudendo gli occhi... D'improvviso mi sentii così stanca da non volerli più riaprire. Il sonno mi risucchiò. Aprii gli occhi e cambiai posizione. Forse era soltanto la tensione, l'adrenalina che rifluiva, o forse era la commozione cerebrale. Accesi la luce interna per controllare di nuovo Louie. Respirazione e polso sempre regolari. Aveva la testa reclinata e il collo disteso, perciò la ferita era perfettamente visibile, e si stava rimarginando. Il processo non era percettibile, eppure ogni volta che la guardavo scoprivo che era migliorata. Era come cercare di assistere allo sbocciare di un fiore. Era visibile l'effetto, non il processo. Insomma, Louie sarebbe guarito. E Richard? Avevo accettato la sua proposta sinceramente nel fervore del momento, e riuscivo anche a immaginare di trascorrere la vita con lui. Prima che Bert mi trovasse e mi mostrasse come usare il mio talento per fare soldi, avevo avuto una vita, ero andata a fare escursioni, avevo progettato, dopo la laurea in biologia, di prendere il master e il dottorato, e di continuare a studiare le creature so-
vrumane per tutta la vita. Una specie di Jane Goodall del soprannaturale. Richard mi aveva ricordato tutto ciò, mi aveva rammentato i miei vecchi progetti. Non avevo certo immaginato di passare la mia esistenza immersa nel sangue e nella morte. Cedere a Jean-Claude avrebbe significato ammettere che non esisteva nient'altro che la morte, nient'altro che la violenza. Sexy, attraente, ma pur sempre morte. Con Richard avevo pensato di avere una possibilità di vivere qualcosa di meglio, ma dopo la notte precedente non ero più sicura nemmeno di quello. Era troppo chiedere di stare con qualcuno che fosse umano? Diavolo, conoscevo un sacco di donne più o meno della mia età che non riuscivano neanche a trovare qualcuno con cui uscire! Anche per me era stato così, prima d'incontrare Richard. È vero, Jean-Claude sarebbe stato ben contento di stare con me, ma io lo avevo sempre evitato. Non riuscivo neanche a immaginare di uscire con lui come se fosse un tipo qualsiasi. Potevo immaginare di fare sesso con lui, ma non di andarci a cena. L'idea che mi passasse a prendere alle otto, che mi riaccompagnasse a casa alla fine della serata e che mi salutasse dopo essersi accontentato di un bacio della buonanotte mi sembrava ridicola. Rimasi inginocchiata sul sedile a fissare Louie. Non volevo girarmi e mettermi comoda perché avevo paura di addormentarmi e di non svegliarmi più. Non era una vera e propria paura, ma piuttosto una preoccupazione. Una visita all'ospedale avrebbe potuto non essere una cattiva idea, ma prima dovevo parlare con Jean-Claude di Richard, e impedirgli di ammazzarlo. Quando posai la testa sulle braccia, cominciai a sentire un dolore pulsante alla fronte. Bene. Era normale che la testa mi facesse male dopo le botte che avevo preso. Quello che mi preoccupava era che non avesse cominciato subito a farmi male. Una bella emicrania potevo sopportarla. Cosa avrei potuto fare per tenere in vita Richard? Sorrisi. Richard era un lupo Alfa. Che cosa mi faceva credere che non fosse in grado di badare a se stesso? Be', avevo visto quello che poteva fare Jean-Claude, avevo visto com'era quando non aveva più niente di umano. Ma forse avrei considerato Richard in modo diverso dopo avere assistito alla sua trasformazione. Forse non mi sarei più sentita così protettiva nei suoi confronti. E forse avrebbe nevicato all'inferno. Amavo Richard, davvero. Quando avevo accettato la sua proposta lo avevo fatto seriamente. Però era stato prima di sentirmi scivolare sulla pelle
il suo potere. Su una cosa Jean-Claude aveva avuto ragione: Richard non era umano. Lo snuff movie lo aveva eccitato. Quanto a Jean-Claude, non sapevo se i suoi gusti sessuali fossero altrettanto strani, perché non avevo mai permesso a me stessa di scoprirlo. Qualcuno bussò al finestrino. Trasalii, mi girai di scatto e nastri neri mi offuscarono la vista. Non appena la riacquistai, vidi Richard. Sbloccai le portiere. Richard aprì lo sportello e protese una mano per toccarmi, ma interruppe il gesto. L'esitazione sul suo viso fu dolorosa. Non era sicuro che fossi disposta a lasciarmi toccare da lui. Distolsi lo sguardo da quella sofferenza. Lo amavo, ma l'amore non era abbastanza. Le fiabe, i romanzi, le serie televisive raccontano soltanto balle. L'amore non può prevalere su tutto. Badando a non toccarmi, parlò con voce neutra. «Anita, ti senti bene? Hai un aspetto terribile...» «Be', non è che mi senta proprio bene.» Mi sfiorò una guancia con la punta delle dita, uno spettro di carezza che mi fece rabbrividire. Quando mi toccò la ferita, mi scostai di scatto per il dolore. Il sangue che gli ornava i polpastrelli scintillò alla luce dell'abitacolo. Guardandolo mentre fissava il sangue, vidi la tentazione nei suoi sinceri occhi marroni. Fu sul punto di succhiarsi le dita per pulirle, come aveva fatto Rafael. Invece se le pulì sul soprabito, anche se non riuscì a celare la propria esitazione, e si rese conto che l'avevo percepita. «Anita...» La portiera posteriore si aprì. Mi girai di scatto, sfoderando l'unico pugnale che mi restava, e ancora una volta fui sopraffatta dalla nausea e dalla vista che si annebbiava, perché il movimento era stato troppo brusco. Stephen il Lupo Mannaro aveva aperto parzialmente la portiera e mi fissava, come paralizzato, con gli occhi azzurri sgranati. O, meglio, fissava il pugnale d'argento che impugnavo. Sembrava non essersi accorto che la vista annebbiata e la nausea mi rendevano incapace di usarlo. Forse, sollevandomi e girandomi sul sedile, gli avevo dato l'impressione di volerlo aggredire. In verità, ero stata spinta dall'impulso di colpire alla cieca, come un pipistrello, senza neanche contemplare la possibilità che non fosse stato un nemico ad aprire la portiera. «Non mi avevi detto che ti saresti fatto accompagnare.» «Avrei dovuto», replicò Richard. Mi rilassai, sedendo sui talloni. «Avresti dovuto...» Il pugnale scintillava alla luce dell'abitacolo. Sembrava ben tenuto, affilato come un rasoio, e in
effetti lo era. «Volevo soltanto vedere come sta Louie», si scusò Stephen, che sembrava un po' scosso. Indossava una giacca di pelle nera borchiata d'argento, chiusa alla gola. I capelli biondi, lunghi e ricci, cadevano sulle spalle. Sembrava un motociclista effemminato. «Magnifico.» Stephen guardò Richard, che annuì, e io, più che vederlo, avvertii quel cenno. «Tutto okay, Stephen.» Qualcosa, nella sua voce, m'indusse a girarmi lentamente a guardarlo. Aveva un'espressione strana. «Forse sei davvero così pericolosa come fingi di essere.» «Non fingo affatto, Richard.» Annuì. «Forse no.» «È un problema?» «Direi di no, almeno finché non spari a me o a quelli del mio branco...» «Non posso prometterti niente, a proposito di quelli del branco.» «Spetta a me proteggerli.» «Allora assicurati che mi lascino in pace.» «Ti batteresti con me per questo?» «E tu? Ti batteresti con me?» Sorrise, ma senza allegria. «Non potrei, Anita. Non potrei mai farti del male.» «Ecco in cosa siamo diversi, Richard.» Si curvò su di me come per baciarmi, ma sul mio volto vide qualcosa che lo fermò. «Ti credo.» «Bene.» Continuando a fissarlo in viso, rinfoderai il pugnale. Non avevo bisogno di abbassare lo sguardo alla guaina, per farlo. «Non sottovalutarmi mai, Richard, e non sottovalutare neanche quello che sono disposta a fare per restare viva, o per mantenere in vita gli altri. L'ultima cosa che voglio è battermi con te, ma, se non controllerai il tuo branco, allora non mi tirerò indietro.» Si allontanò da me, con espressione quasi rabbiosa. «È una minaccia?» «Il branco è fuori controllo, e tu lo sai. Non posso prometterti di non far male a nessun licantropo, se tu non mi garantisci che tutti quanti si comporteranno bene. E tu non puoi farlo.» «No, non posso», convenne lui, e non tanto per dire. «Allora non chiedermi delle promesse che non credo di poter mantenere.»
«Puoi almeno cercare, come prima opzione, di non ammazzarne nessuno?» Ci pensai. «Non lo so. Forse sì.» «Non puoi semplicemente dire: 'Sì, Richard, non ammazzerò i tuoi amici'?» «Sarebbe una menzogna.» Annuì. «Lo immagino...» Dal sedile posteriore provenne il cigolio di cuoio di Stephen che si muoveva. «Louie è privo di conoscenza, ma se la caverà.» «Come lo hai caricato sulla Jeep?» chiese Richard. Mi limitai a fissarlo. Ebbe la creanza di mostrarsi imbarazzato. «Certo...» Toccò con delicatezza la ferita sulla mia fronte. Doleva ancora. «Nonostante questa, lo hai trasportato...» «Altrimenti avrei dovuto lasciarlo agli sbirri. Che cosa sarebbe successo se fosse stato caricato su un'ambulanza e avesse cominciato a guarire tanto in fretta?» «Avrebbero capito cos'è», rispose Richard. Stephen stava appoggiato al sedile anteriore col mento sugli avambracci, come se avesse dimenticato che ero stata sul punto di pugnalarlo. O forse era abituato a ricevere minacce. Forse... Da vicino, i suoi occhi erano azzurri come fiordalisi. Coi capelli biondi che cadevano a incorniciare il viso, sembrava una di quelle bambole di porcellana che si comprano nei negozi di lusso e con cui non si permette mai alle bambine di giocare. «Posso portare Louie da me», propose. «No», replicai. Mi guardarono tutti e due, sorpresi. Non sapevo bene cosa dire, però sapevo per certo che Richard non poteva accompagnarmi al Guilty Pleasures. Per avere qualche speranza di salvare la vita a tutti e due, bisognava che lui non fosse presente all'annuncio. «Pensavo di accompagnarti a casa,» disse Richard, «oppure all'ospedale più vicino, come preferisci.» Lo avrei preferito, ma non quella notte. «Louie è il tuo migliore amico. Credevo che volessi occuparti di lui.» Mi fissò, socchiudendo sospettosamente gli occhi marroni. «Stai cercando di sbarazzarti di me... Perché?» L'emicrania m'impediva di escogitare una balla convincente. «Fino a che punto puoi fidarti di Stephen?»
La domanda sembrò disorientarlo. «Mi fido di lui.» Mi resi conto che aveva risposto senza riflettere. «No, Richard. Voglio dire, sei sicuro che non parlerà con Jean-Claude o con Marcus?» «Se preferite, non dirò niente a Marcus», intervenne Stephen. «E a Jean-Claude?» chiesi. Stephen sembrò a disagio. «Sarei costretto a rispondere sinceramente a una domanda diretta...» «Come mai sei più fedele al Master della Città che al tuo capobranco?» «Seguo Richard, non Marcus.» Guardai Richard. «Una piccola rivolta di palazzo?» «Raina lo voleva nei film. Sono intervenuto, obbligandola a rinunciare.» «Marcus deve odiarti parecchio.» «Mi teme», disse Richard. «Peggio ancora.» Richard tacque. Conosceva la situazione meglio di me, anche se non era disposto ad andare sino in fondo. «Benissimo. Ho intenzione di dire a Jean-Claude che mi hai chiesto di sposarti.» «Le hai chiesto...?» Stephen fu sorpreso. «E lei ha accettato?» Richard annuì. Un'espressione di gioia passò sul viso di Stephen. «Stupendo!» E subito si rattristò. Era come guardare il vento su un campo: si vedeva tutto in superficie. «Jean-Claude s'incazzerà come una bestia.» «Non avrei saputo dirlo meglio.» «Allora perché rivelarglielo proprio stanotte?» chiese Richard. «Perché non aspettare? Adesso non sei più sicura di volermi sposare, vero?» «No, non lo sono.» Fu odioso ammetterlo, ma era la verità. Lo amavo, ma, se fossimo andati oltre, non ci sarebbe stato tempo per i ripensamenti. Se avevo qualche dubbio, dovevo risolverlo subito. Ammirando la sua bellezza, fiutando il profumo caldo del suo dopobarba, volevo gettare al vento ogni prudenza e abbandonarmi fra le sue braccia... Però non potevo, semplicemente non potevo, senza prima essere sicura. «Allora perché dirglielo? Se non hai deciso di scappare con me, allora abbiamo ancora un po' di tempo.» Sospirai, poi gli spiegai perché dovevo farlo quella notte stessa. «Non puoi venire con me.» «Non ti lascerò andare sola.» «Richard, se ci sarai anche tu, quando lo scoprirà, cercherà di ammaz-
zarti, e io, per proteggerti, dovrò cercare di ammazzare lui.» Scossi la testa. «Se si mettesse male, potrebbe finire come Amleto.» «Come Amleto?» chiese Stephen. «Non capisco...» «Tutti morti.» «Oh...» «Uccideresti Jean-Claude per proteggermi, anche dopo quello che hai visto la notte scorsa?» Lo fissai, cercando attraverso le finestre dei suoi occhi di scoprire se in casa ci fosse qualcuno con cui potessi davvero parlare. Era ancora Richard, col suo amore per la vita all'aria aperta, pronto ad affrontare qualsiasi avventura, e con un sorriso che mi riscaldava tutto il corpo. Non ero sicura di sposarlo, però ero sicura di non poter permettere a nessuno di ammazzarlo. «Sì.» «Non sei disposta a sposarmi, però sei disposta a uccidere per me. Non capisco.» «Se tu mi chiedessi se ti amo ancora, Richard, la risposta sarebbe sì.» «Come posso lasciarti sola in una situazione del genere?» «Me la sono sempre cavata a meraviglia anche senza di te.» Mi toccò la fronte, facendomi trasalire. «Non sembra che tu stia a meraviglia...» «Jean-Claude non mi farà niente.» «Non puoi esserne certa.» Aveva ragione. «Ma tu non potresti proteggermi, Richard. Anzi la tua presenza sarebbe un pericolo in più.» «No, non posso...» «Non fare il duro con me, Richard. È un lusso che non possiamo permetterci. Se cominci a comportarti come un idiota perché ho accettato di sposarti, posso sempre cambiare idea.» «Lo hai già fatto.» «Non del tutto.» «Ma lo faresti soltanto perché cerco di proteggerti?» «Non ho bisogno della tua protezione, Richard, e non la voglio neanche.» Si abbandonò contro il poggiatesta e chiuse gli occhi. «Se interpretassi la parte del cavaliere senza macchia, mi lasceresti...» «Se credi di dover recitare la parte del cavaliere senza macchia, allora non mi conosci per niente.» Aprì gli occhi e girò la testa per guardarmi. «Forse vorrei proprio essere
il tuo cavaliere senza macchia.» «Questo è un tuo problema.» Sorrise. «Credo di sì.» «Se puoi riportarmi a casa la Jeep, io prendo un taxi.» «Può accompagnarti Stephen», suggerì Richard, senza neppure chiedere il parere dell'interessato. Arrogante, da parte sua. «No, prendo un taxi.» «Non mi costa niente», intervenne Stephen. «Stanotte devo tornare comunque al Guilty Pleasures.» Gli lanciai un'occhiata. «Che cosa fai per vivere, Stephen?» Posò una guancia sull'avambraccio e mi sorrise, riuscendo a sembrare amabile e sexy. «Lo spogliarellista.» Naturalmente. Potevo fargli notare che continuare a fare lo strip-tease dopo aver rifiutato di recitare nei film porno non era il massimo della coerenza, ma, in fondo, divertirsi a spogliarsi fino a restare in mutande non era la stessa cosa che fare sesso davanti alla videocamera. Non ci si avvicinava neanche. 23 Lillian era una donna minuta, sui cinquantacinque anni, coi capelli brizzolati, dal taglio corto e severo. Le dita erano agili e sicure come il resto della persona. L'ultima volta che mi aveva curata l'avevo vista in forma mannara, con la pelliccia grigia e gli artigli. Sedevo sopra un lettino, nel seminterrato di un edificio abitato da licantropi. Il seminterrato ospitava la clinica privata, per così dire, dei licantropi della zona. Io ero la prima umana cui fosse mai stato permesso di vederla. Avrei dovuto esserne lusingata, ma riuscivo a dominare la commozione... «Be', secondo le radiografie non hai fratture al cranio.» «Ne sono lieta.» «Potresti avere una lieve commozione cerebrale, ma le attrezzature di cui disponiamo qui non sono in grado di rilevarla.» «Dunque posso andare?» Feci per saltar giù dal lettino. Mi fermò, posandomi una mano su un braccio. «Non ho detto questo.» Rimasi seduta. «Ti ascolto.» «A malincuore, eh?» sorrise lei. «Se vuoi pazienti che rimangano cortesi anche quando sono sotto pressione, allora non faccio al caso tuo, Lillian.»
«Oh, non saprei... Ho pulito e medicato le ferite. Sei molto fortunata che quella alla fronte non abbia bisogno di punti.» Le suture non mi piacevano, quindi ero d'accordo con lei. «Nelle prossime ventiquattr'ore ti dovrai svegliare ogni ora.» Sicuramente capì dalla mia espressione che non ne ero molto felice, perché aggiunse: «So che è scocciante, e che probabilmente non è necessario, ma accontentami lo stesso. Se tu fossi ferita più gravemente di quanto penso e ti addormentassi, potresti non svegliarti più. Perciò, accontenta una vecchia signora mannara... Punta la sveglia, o fatti chiamare da qualcuno, ma svegliati ogni ora». «Ventiquattr'ore a partire da quando sono stata ferita?» chiesi, speranzosa. Rise. «Normalmente direi a partire da adesso, ma facciamo pure da quando sei stata ferita. È soltanto una precauzione.» «Mi piacciono le precauzioni.» Richard si scostò dalla parete e si avvicinò, sotto le luci. «Mi offro volontario per svegliarla ogni ora.» «Non puoi accompagnarmi.» «Ti aspetterò a casa tua.» «Oh, no, niente guida per stanotte», disse Lillian. «Soltanto come precauzione...» Richard mi sfiorò il dorso della mano con le dita. Non cercò di prendermi la mano, ma voleva soltanto quel semplice contatto. Confortante. Non sapevo cosa fare. Se avevo intenzione, alla fine, di rifiutare la sua proposta, sembrava ingiusto flirtare. Eppure il semplice tocco delle sue dita mi fece salire il calore per tutto il braccio. Lussuria, lussuria, lussuria... Non lo desideravo, forse? «Porto la Jeep a casa tua, se sei d'accordo. Stephen può accompagnarti al Guilty Pleasures.» «Posso prendere un taxi.» «Mi sentirei meglio se ti accompagnasse Stephen. Per favore...» Il per favore mi fece sorridere. «Va bene, mi accompagna Stephen.» «Grazie», disse Richard. «Di niente.» «Ti raccomando di tornare subito a casa e di riposare», disse Lillian. «Non posso.» Lei si accigliò. «Benissimo. Allora riposa non appena puoi. Anche se probabilmente è una lieve commozione cerebrale, potrebbe aggravarsi. In ogni caso, riposare ti farà sempre meglio che andare in giro a divertirti.»
Sorrisi. «Sì, dottore.» Lillian sbuffò. «So bene quanto rispetterai le mie raccomandazioni, perciò andatevene, tutti e due. Se non volete ubbidire al buon senso, fuori di qui.» Scesi dal lettino senza che Richard si offrisse di aiutarmi. C'era pure qualche ragione, se ci frequentavamo ormai da un po'. Una vertigine momentanea, e poi mi sentii di nuovo benissimo. Lillian non sembrò per niente contenta. «Mi assicuri che la vertigine è diminuita?» «Parola di scout.» Annuì. «Voglio crederti.» Non sembrava del tutto soddisfatta, però mi diede una pacca sulla spalla e se ne andò. Niente fattura, niente cartella clinica. Era proprio una bella organizzazione. Il viaggio in automobile verso la clinica mi aveva rilassato. Non dover guidare o trasportare uomini nudi era stato di aiuto. Cominciavo davvero a sentirmi meglio, ed era una bella cosa, visto che comunque dovevo incontrare Jean-Claude. Mi chiesi se Gretchen mi avrebbe concesso un rinvio, nel caso fossi stata costretta a farmi ricoverare in ospedale... Be', probabilmente no. Non potevo più rimandare. Era già troppo tardi. «Devo andare, Richard.» Lui mi posò le mani sulle spalle, e io non mi scostai. Mi sollevò la testa affinché lo guardassi, e io glielo permisi. Il suo viso era molto solenne. «Voglio accompagnarti.» «Ne abbiamo già parlato.» Distolse lo sguardo. «Lo so.» Gli toccai il mento, inducendolo a guardarmi di nuovo. «Niente eroismi, Richard. Promettimelo.» I suoi occhi erano troppo innocenti. «Non capisco cosa intendi...» «Come no... Non puoi aspettare fuori. Devi restare qui. Promettimelo.» Lasciò cadere le braccia e si allontanò da me, poi si appoggiò all'altro lettino, con le mani aperte, tutto il peso sulle braccia. «Non sopporto l'idea di te da sola...» «Promettimi che aspetterai qui, oppure al mio appartamento. Non c'è altra scelta, Richard.» Rifiutò di guardarmi. Mi avvicinai e gli toccai un braccio, sentendo la tensione che lo pervadeva. L'energia soprannaturale non si percepiva, eppure era presente sotto la superficie, e attendeva.
«Guardami.» Rimase a testa china, coi capelli che cadevano come un sipario a separarci. Gli passai una mano fra quei capelli ondulati, glieli afferrai vicino al caldo cuoio capelluto e tirai per obbligarlo a guardarmi. I suoi occhi erano più scuri del naturale. Contenevano qualcosa che avevo visto soltanto la notte precedente. La belva traspariva attraverso il suo sguardo come un mostro marino che nuotasse in acque fosche verso la superficie. Rinserrai la presa sui capelli, non per fargli male, ma per ottenere la sua attenzione, strappandogli una sorta di gemito. «Se tu mandassi tutto alla malora per colpa di una specie di stupido orgoglio maschile, riusciresti soltanto a farmi ammazzare.» Sempre tenendolo per i capelli, attirai il suo viso verso il mio, finché non fummo vicinissimi, abbastanza per baciarci, o quasi. «Se ti metterai in mezzo, mi farai uccidere. Te ne rendi conto?» L'oscurità nei suoi occhi avrebbe voluto rispondere no. Per un poco assistetti alla sua lotta interiore, poi, finalmente, disse: «Sì, me ne rendo conto». «Mi aspetterai a casa?» Annuì. Avrei voluto attirarlo ancora più vicino e baciarlo, ma restammo entrambi esitanti, come paralizzati. Fu lui ad avvicinarsi finché le nostre labbra non si toccarono. Fu un contatto lieve, morbido, delicato. Ci fissammo negli occhi da pochi centimetri di distanza. I suoi erano così profondi da risucchiarmi nel loro abisso. D'improvviso la percezione del suo corpo fu per me come una scossa elettrica alla pancia. Mi scostai bruscamente. «No, non ancora. Non so più che cosa provo per te.» «Il tuo corpo lo sa...» «Se contasse soltanto il desiderio sessuale, mi sarei messa con JeanClaude.» Il suo viso si sgretolò come se lo avessi schiaffeggiato. «Se davvero non vuoi più frequentarmi, allora non dire niente a Jean-Claude. Non ne vale la pena.» Sembrava che soffrisse molto, ed era proprio l'unica cosa che non volevo. Gli posai una mano sul braccio, sentendo la pelle liscia, calda, reale. «Se riuscirò a evitarlo, lo farò, ma non credo che Gretchen me lo permetterà. E poi Jean-Claude sa riconoscere le menzogne. Tu mi hai chiesto di sposarti, e io ho accettato.» «Digli che hai cambiato idea, Anita. Spiegagli perché. Sarà felice di sen-
tirti dire che non sono abbastanza umano per te.» Si sottrasse al contatto della mia mano. «Di questo non dubiterà, anzi sarà ben contento di crederti.» La sua voce suonò amareggiata, rabbiosa. Un sentimento tanto intenso da sembrare qualcosa di solido. Non lo avevo mai visto così. Incapace di sopportarlo, mi avvicinai a lui e gli cinsi la vita con le braccia, da dietro, affondando il viso tra i muscoli delle sue spalle. Quando cercò di girarsi, lo trattenni. Allora rimase assolutamente immobile nel mio abbraccio, tranne le mani, con cui dapprima mi sfiorò timidamente le braccia, poi mi afferrò, stringendomi ancor più a sé. Un tremito gli percorse la schiena, seguito da un lungo sospiro. Quando lo indussi a girarsi verso di me, scoprii che le sue guance scintillavano di lacrime. Accidenti, non sono mai riuscita a sopportare il pianto. Se qualcuno comincia a piangere, l'istinto mi suggerisce subito di promettergli qualsiasi cosa, purché la smetta. «No...» Con la punta di un dito gli toccai una lacrima, che rimase attaccata alla mia pelle, tremante. «Non lasciarti distruggere da tutto questo, ti prego...» «Non posso tornare a essere umano, Anita.» La sua voce suonò molto normale. Se non fosse stato per le lacrime, non mi sarei accorta che stava piangendo. «Se potessi, per te lo farei.» «Forse non è questo che voglio, Richard. Non lo so... Lasciami un po' di tempo... È meglio scoprire subito se sono o non sono in grado di accettare il tuo lato mannaro.» Mi sentivo terribilmente meschina, spregevole. Era stupendo, lo amavo, voleva sposarmi, era un insegnante di scienze, gli piaceva fare escursioni... Era persino un collezionista di colonne sonore di musical! Come se non bastasse, era anche era un lupo mannaro Alfa, secondo soltanto al capo nella gerarchia del branco... «Ho bisogno di tempo, Richard. Mi dispiace molto, ma è così.» Mi sentivo stupida. Non ero mai stata così indecisa in tutta la mia vita. Annuì, ma non parve per niente convinto. «Forse alla fine deciderai di lasciarmi, eppure sei determinata a rischiare la vita affrontando JeanClaude... Non ha senso.» Dovevo convenirne. «Devo assolutamente parlargli stanotte, Richard. Vorrei evitare di confrontarmi ancora con Gretchen.» Richard si passò i palmi delle mani sul viso e le dita fra i capelli. «Non farti ammazzare.» «Va bene.» «Prometti.»
Avrei voluto rispondere di sì, ma non lo feci. «Non faccio promesse che non sono sicura di poter mantenere.» «Non potresti neanche mentire per tranquillizzarmi?» Scossi la testa. «No.» Sospirò. «Quando si dice che la sincerità fa male...» «Devo andare.» Mi allontanai prima che riuscisse a distrarmi ancora. Stavo cominciando a pensare che lo facesse di proposito per farmi tardare. Naturalmente, non avevo nessuna intenzione di permetterglielo. «Anita...» Quasi giunta alla porta, mi girai. Immobile nella luce cruda, con le braccia lungo i fianchi, sembrava... indifeso. «Ci siamo salutati con un bacio. Tu mi hai raccomandato di essere prudente, io ti ho avvertito di non fare l'eroe. È tutto, Richard. Non c'è altro da dire.» «Ti amo.» Okay, qualcos'altro c'era... «Ti amo anch'io.» Era la verità, dannazione! Se soltanto fossi riuscita ad accettare il fatto che era un lupo mannaro, lo avrei sposato. Come avrebbe reagito Jean-Claude alla notizia? Come suggeriva il vecchio detto, c'era soltanto un modo per scoprirlo... 24 Il Guilty Pleasures era nel cuore del quartiere dei vampiri. La sua luminosa insegna al neon sanguinava nel cielo notturno, spandendo nell'oscurità un riflesso cremisi come quello di un incendio lontano. Da moltissimo tempo non mi recavo più disarmata nel quartiere dopo il tramonto. Okay, avevo il pugnale, che era sempre meglio dei pugni, ma non molto contro un vampiro. Avevo accanto Stephen. Un lupo mannaro non è male come guardia del corpo, ma Stephen, per qualche ragione, non incuteva abbastanza timore. Era poco più alto di me, snello come un salice, con le spalle larghe quel tanto che bastava a renderlo mascolino. Dire che i suoi pantaloni erano attillati non rende l'idea. Erano di cuoio e gli aderivano come vernice, o come una seconda pelle. Era difficile non accorgersi che il suo didietro era bello sodo. Il giubbotto di pelle era stretto in vita, quindi niente ostruiva la vista. Io indossavo di nuovo il trench nero. Era un po' sporco di sangue, ma per
pulirlo avrei dovuto bagnarlo e, se lo avessi messo bagnato, avrei avuto freddo. Il maglione, uno dei miei preferiti, aveva una spalla strappata fino al reggiseno, quindi avrei sofferto troppo senza trench. Insomma, Gretchen mi doveva un maglione. Prima mi sarei fatta restituire le pistole, poi, forse, ne avremmo parlato. Tre larghi gradini salivano alla porta chiusa. Buzz il Vampiro stava di guardia: era alto, muscoloso, coi capelli neri e corti. Sembrava che avesse la stessa T-shirt nera che gli avevo visto in luglio. Sapevo che i vampiri non potevano morire congelati, ma non immaginavo che fossero del tutto insensibili al freddo. Molti cercano di sembrare umani, perciò in inverno si vestono pesante, anche se forse non ne hanno davvero bisogno. In fondo, pure Gretchen non aveva avuto davvero bisogno di sfilarsi il pugnale dal collo. Probabilmente era tutta una finta. Buzz sorrise, facendo lampeggiare le zanne, e parve deluso dalla mia reazione. «Hai saltato un numero, Stephen. Il capo è incazzato.» Stephen sembrò rimpicciolirsi, mentre Buzz sembrò allargarsi, compiaciuto di se stesso. «Stephen è in ritardo perché mi ha aiutata. Non credo che Jean-Claude ne sarà dispiaciuto.» Buzz mi fissò a occhi socchiusi, notando davvero il mio viso per la prima volta. «Accidenti... Che ti è successo?» «Te lo dirà Jean-Claude, se vorrà fartelo sapere.» Gli passai davanti. Accanto all'entrata, un cartello avvertiva: NON SONO AMMESSI CROCI, CROCIFISSI O ALTRI SIMBOLI RELIGIOSI. Spinsi la porta e varcai la soglia, col crocifisso al collo. Se proprio avessero voluto, quella notte avrebbero dovuto togliermelo aprendomi a forza le mani rattrappite nel gelo della morte. Stephen mi seguì da vicino, come se avesse paura di Buzz, che però non era un vampiro antico, anzi era morto da meno di vent'anni e suscitava ancora un'impressione di «vitalità». Non possedeva quell'assoluta immobilità che caratterizzava i succhiasangue antichi. Dunque, perché mai un lupo mannaro aveva paura di un vampiro recente? Bella domanda. Era domenica notte, e il locale era affollato. Era possibile che nessuno dovesse andare a lavorare, l'indomani? Il rumore c'investì come un'onda quasi solida. Era il denso mormorio di parecchia gente ammassata in un ambiente ristretto e decisa a divertirsi. Le luci erano sparate al massimo e il piccolo palco era deserto. Eravamo entrati nell'intervallo fra due esibizioni.
Una bionda ci accolse. «Ha simboli religiosi da dichiarare?» chiese, sorridendo. Era la guardarobiera dei simboli religiosi. «No», risposi, sorridendo. Senza insistere, sorrise e se ne andò. Una voce maschile la bloccò: «Un momento, Shelia». Il vampiro che si avvicinò era molto affascinante, con gli zigomi alti e prominenti, i corti capelli biondi perfettamente curati, però era troppo mascolino per essere bello e troppo perfetto per essere reale. L'ultima volta che ero stata lì, Robert lavorava come stripper, ma nel frattempo, a quanto sembrava, aveva fatto carriera. Shelia attese, passando lo sguardo da Robert a me. «Ha mentito?» Robert annuì. «Ciao, Anita.» «Ciao. Sei tu il direttore, adesso?» Annuì. La cosa non mi piaceva affatto. Una volta non aveva rispettato gli ordini di Jean-Claude e non era riuscito a proteggere una persona, che poi era morta. Non si era neanche sporcato di sangue nel tentativo di fermare i mostri, quando invece avrebbe dovuto almeno restare ferito. Non dico che dovesse per forza immolarsi per salvare qualcun altro, ma impegnarsi un po' di più, sì. Non lo avevo mai perdonato del tutto e non avevo mai più avuto fiducia in lui. «Porti un simbolo religioso, Anita. Se non sei qui per indagini di polizia, lo devi consegnare a Shelia.» Alzai lo sguardo a fissare i suoi occhi azzurri, poi lo abbassai, ma lo alzai di nuovo, rendendomi conto che ero in grado di guardarlo senza problemi. Aveva più di cento anni, quindi il suo potere non era neppure paragonabile a quello di Gretchen, tuttavia non avrei dovuto essere in grado di guardarlo negli occhi. «Devi consegnarlo. Sono le regole.» Forse la capacità di guardarlo negli occhi mi diede coraggio, o forse ne avevo già avuto abbastanza per una sola notte. «C'è Gretchen?» Sembrò sorpreso. «Sì, è nel retro, con Jean-Claude.» «Allora non posso consegnare il crocifisso.» «E io non posso lasciarti entrare. Jean-Claude non transige su questo.» La sua voce lasciò trapelare una sfumatura d'inquietudine, quasi di paura. Bene. «Guardami bene in faccia, tesoro. È stata Gretchen. Quindi, se lei è qui, io tengo il crocifisso.»
Alcune rughe si formarono fra le sue sopracciglia perfette. «Jean-Claude ha detto 'nessuna eccezione'.» Mi si avvicinò, e io glielo permisi. Abbassò la voce quanto glielo consentiva il vocio del locale. «Ha detto che se lo deluderò ancora, in qualsiasi cosa, grande o piccola, mi punirà.» Di solito consideravo meschine o crudeli le dichiarazioni di quel genere, ma in quel caso fui d'accordo. «Vai a chiederlo a Jean-Claude.» Scosse la testa. «Non mi fido a lasciarti qui. Se tu approfittassi della mia assenza per entrare col crocifisso, Jean-Claude si arrabbierebbe.» Stavo cominciando a scocciarmi. «Può andarci Stephen a chiederglielo?» Robert annuì. Stephen, che non si era ancora ripreso da quello che Buzz gli aveva detto, rimase accanto a me. «Jean-Claude ce l'ha con me perché ho saltato un numero?» «Avresti dovuto telefonare per avvertire», rispose Robert. «Ho dovuto sostituirti io.» «È bello rendersi utili, no?» intervenni. Robert mi guardò, accigliandosi. «Stephen avrebbe dovuto avvertire.» «Ha dovuto accompagnarmi da un medico. Ti crea qualche problema?» «A Jean-Claude, forse.» «Allora chiamiamo il grand'uomo e chiediamolo a lui. Sono stufa di stare sulla porta.» «Anita! Come sei gentile a onorarci della tua presenza!» Praticamente Gretchen faceva le fusa, pregustando quello che stava per succedere. «Robert non vuole lasciarmi entrare.» Lei lo guardò, senza scatenare minimamente la sua impressionante magia, eppure Robert indietreggiò di un passo. Si spaventava facilmente, per essere un cadavere ambulante centenario. «La stavamo aspettando, Robert. Jean-Claude è molto ansioso di vederla.» Il vampiro deglutì a fatica. «Mi è stato ordinato di non lasciar entrare nessuno che porti simboli religiosi, senza eccezioni, a parte la polizia.» «Neanche la fidanzata del Master?» chiese lei, con molta ironia. Robert non si scompose. «Anita non entra col crocifisso se Jean-Claude non mi autorizza a lasciarla passare.» Gretchen girò intorno a tutti noi, e io non avrei saputo dire chi fosse il più preoccupato. «Togliti quel piccolo crocifisso e facciamola finita.» Scossi la testa. «No.»
«Non ti è servito molto, qualche ora fa...» Un punto per lei. Per la prima volta mi resi conto di non avere neanche pensato, durante il nostro scontro, a mostrare il crocifisso. Avevo fatto ricorso alle armi, non alla fede. Maledettamente triste. Toccai l'argento freddo della catenina. «Il crocifisso resta.» «Mi state rovinando il divertimento, tutti e due.» Da come Gretchen lo disse, sembrò una cosa tremenda. «Se te lo togli, ti restituisco una delle tue armi.» Un attimo prima avrei accettato, ma ora non più. Ero imbarazzata per non avere usato il crocifisso in precedenza. Non avrei potuto impedirle di aggredirmi perché era troppo potente, però avrei potuto allontanarla da Louie. Dovevo smetterla di saltare le funzioni religiose, a costo di non dormire. «No.» «È così che vuoi evitare di mantenere il tuo impegno?» La voce bassa e calda della vampira lasciò trapelare un inizio di collera. «Mantengo sempre la mia parola.» «L'accompagno io, Robert.» Gretchen sollevò una mano per impedire al vampiro di protestare. «Se Jean-Claude se la prende con te, digli che ho minacciato di squarciarti la gola.» Poi gli si avvicinò così tanto che solo un respiro li separava. Soltanto quel confronto ravvicinato mi permise di notare che Robert la superava in altezza, sebbene prima Gretchen sembrasse la più alta. «Non è una scusa, Robert. Secondo me sei un inutile debole. Ti ammazzerei subito, se il nostro Master non avesse bisogno di tutti e due. Se hai ancora paura di Jean-Claude, rammenta che lui ti vuole vivo, ma io no.» Robert deglutì rumorosamente e, a quanto sembrò, dolorosamente, ma non indietreggiò. Un grosso punto a suo favore. Ma quando lei si avvicinò ancora, soltanto di un millimetro, fece un salto indietro, come se gli avessero sparato. «E va bene, va bene! Accompagnala...» Gretchen increspò le labbra in una smorfia di disgusto. Su una cosa, almeno, eravamo d'accordo: Robert non ci piaceva. E, se avevamo una cosa in comune, forse ne avevamo anche altre. Forse avremmo potuto diventare amiche. Come no... Il vocio della folla si era ridotto a un mormorio. Avevamo attirato l'attenzione di tutti. Non c'è niente di meglio di uno spettacolo di varietà. «Deve esibirsi qualcuno?» chiesi. Robert annuì. «Sì, e io devo presentarlo.» «Vai a fare il tuo lavoro, Robert», disse Gretchen. Era molto brava a e-
sprimere il suo disprezzo. Robert se ne andò, evidentemente sollevato. «Imbranato...» mormorai. «Vieni, Anita. Jean-Claude ci aspetta.» Gretchen si allontanò, avvolta nel lungo soprabito bianco ondeggiante. Stephen e io ci scambiammo un'occhiata. Lui scrollò le spalle. Poi io seguii la vampira e lui seguì me, come se avesse paura di perdermi. Entrare nell'ufficio di Jean-Claude era come indossare un domino. Pareti bianche, moquette bianca, scrivania nera, poltrona nera, divano in cuoio nero contro una parete, due sedie nere davanti alla scrivania, che, come le sedie, era in stile orientale, decorata a smalto con immagini di gru e di donne asiatiche dalle lunghe vesti fluenti. Mi era sempre piaciuta quella scrivania, anche se non lo avrei mai ammesso. Notai un paravento nero laccato, che non avevo mai visto prima, che nascondeva una parte della stanza. Era adorno di un drago dai grandi occhi sporgenti, arancione e rosso, con le spire arrotolate. Abbelliva l'ambiente, che non era confortevole, ma molto elegante, proprio come Jean-Claude. Tutto vestito di nero, il Master della Città sedeva sul divano, il viso incorniciato dall'alto colletto rigido della camicia, chiuso alla gola da un ciondolo con un rubino grosso come un pollice. Era difficile distinguere dove finissero i capelli e iniziasse la camicia, che, aperta fino alla cintura, mostrava un triangolo di pelle pallidissima. Soltanto il ciondolo impediva alla camicia di aprirsi completamente. I polsini, ampi e rigidi come il colletto, nascondevano quasi completamente le mani, ma erano aperti per consentirgli di usarle, come scoprii quando ne sollevò una. I jeans neri e gli stivali neri, morbidi come velluto, completavano il suo abbigliamento. Avevo già visto il ciondolo, ma la camicia era una novità. «Che eleganza!» esclamai. Sorrise. «Ti piace?» Si rassettò i polsini, come se ne avessero bisogno. «È meglio del bianco.» «Stephen, ti aspettavamo qualche ora fa...» La sua voce abbastanza pacata lasciò trapelare un sottofondo cupo e sgradevole. «Stephen mi ha accompagnata dal medico.» Gli occhi blu notte tornarono a me. «La tua ultima indagine di polizia sta diventando difficile?» «No.» Mi voltai verso Gretchen, che guardava Jean-Claude. «Diglielo», disse la vampira. Non pensai che si riferisse alla mia intenzione di accusarla di tentato o-
micidio. Era arrivato il momento di essere un po' sinceri, o almeno un po' melodrammatici. Ero sicura che Jean-Claude non ci avrebbe deluse. «Stephen dovrebbe lasciarci...» Non volevo che il licantropo si facesse ammazzale tentando di proteggermi. Contro Jean-Claude, sarebbe stato soltanto carne da macello. «Perché?» chiese il Master, apparentemente insospettito. «Non andare per le lunghe», esortò Gretchen. Scossi la testa. «Non occorre che Stephen sia presente.» «Esci, Stephen», ordinò Jean-Claude. «Non sono arrabbiato con te per essere arrivato tardi al lavoro. Anita è più importante delle tue esibizioni.» Buono a sapersi. Stephen fece una specie d'inchino a Jean-Claude, mi lanciò un'occhiata, esitò. «Vai, Stephen. Non mi succederà niente.» Non ebbi bisogno di tranquillizzarlo due volte. Sparì. «Cos'hai in mente, ma petite?» Guardai Gretchen, che aveva occhi soltanto per lui e un'espressione bramosa, come se aspettasse quell'occasione da molto tempo. Poi fissai gli occhi blu di Jean-Claude e mi resi conto di poterne sostenere lo sguardo, sebbene non portassi più i suoi marchi. Potevo guardarlo negli occhi. Anche Jean-Claude se ne accorse, e spalancò gli occhi, quasi impercettibilmente. «Ma petite... Sei piena di sorprese, stanotte.» «E non hai ancora visto niente.» «Allora continua, ti prego. Adoro le sorprese.» Dubitavo che avrebbe apprezzato quella che avevo in serbo per lui, così respirai profondamente e poi gli dissi tutto in fretta, quasi che quello potesse aiutarlo ad assimilare meglio l'annuncio, come una cucchiaiata di zucchero. «Richard mi ha chiesto di sposarlo, e io gli ho detto di sì.» Avrei potuto aggiungere: «Anche se adesso non ne sono più del tutto sicura...» Ma non lo feci. Ero troppo confusa per aggiungere qualcosa ai fatti puri e semplici. Se avesse cercato di ammazzarmi, forse avrei potuto fornire qualche dettaglio, ma fino ad allora... Nient'altro che paziente attesa. Jean-Claude rimase seduto, assolutamente immobile. L'impianto di condizionamento si avviò con uno scatto che mi fece trasalire. La corrente che proveniva dalla presa d'aria sopra il divano gli agitò i capelli e la camicia, ma fu come osservare un manichino, perché tutto il resto rimase immobile come pietra.
Il silenzio si dilatò fino a colmare la stanza. Quando l'impianto si spense, la quiete divenne così profonda che riuscii a sentire il pulsare del mio stesso sangue alle tempie. Era come il vuoto prima della creazione. Si capiva che stava per succedere qualcosa di grosso, ma non si sapeva esattamente cosa. Lasciai che il silenzio mi avvolgesse, decisa a non essere io la prima a romperlo, perché avevo paura di quello che stava per accadere. Quella calma assoluta fu più snervante di qualunque esplosione di collera. Non sapendo cosa fare, non feci nulla. È una decisione che raramente rimpiango. Fu Gretchen la prima a rompere il silenzio. «L'hai sentita, Jean-Claude? Sposerà un altro. Ama un altro.» Lui batté le palpebre una sola volta, con un movimento lungo e armonioso delle ciglia. «Chiedile se mi ama.» Allora Gretchen mi si parò dinanzi, nascondendomi a Jean-Claude. «Che importa? Sposerà un altro...» «Chiedilo.» Fu un ordine. Gretchen si girò di scatto a fronteggiarmi. Le ossa del viso spiccavano sotto la pelle, le labbra erano assottigliate dalla collera. «Tu non lo ami!» Non fu una domanda, quindi non risposi. La voce di Jean-Claude giunse pigra, colma di qualche oscuro significato che non comprendevo. «Mi ami, ma petite?» Fissai il volto furibondo di Gretchen. «Immagino che non mi crederesti se ti dicessi di no.» «Non puoi dire semplicemente di sì?» «Sì, in qualche recondita, tenebrosa e perversa regione della mia anima, ti amo. Sei contento?» Sorrise. «E come puoi sposare lui, se ami me?» «Amo anche lui, Jean-Claude.» «Allo stesso modo?» «No.» «E come ti è possibile amarci in modi diversi?» Le domande stavano diventando insidiose. «Come posso spiegarti una cosa che io stessa non capisco?» «Prova.» «Tu sei come una grande tragedia shakespeariana. Se non si fossero suicidati, Romeo e Giulietta avrebbero finito per odiarsi nel giro di un anno. La passione è una forma d'amore, però non è reale, non dura.» «E cosa provi per Richard?» La voce di Jean-Claude era colma di qual-
che sentimento intenso, che avrebbe dovuto essere collera, invece era qualcosa di diverso per cui non esistevano nomi o definizioni. «Con Richard non è soltanto amore. Mi piace lui, mi piace la sua compagnia...» Detestavo spiegare i miei sentimenti. «Al diavolo, Jean-Claude! Non ce la faccio! In poche parole, posso immaginare di trascorrere la vita con Richard, ma non con te.» «Avete già fissato la data?» «No.» Reclinò la testa, scrutandomi. «È la verità, ma contiene anche un po' di menzogna... Che cosa mi stai nascondendo, ma petite?» Corrugai la fronte. «Ti ho detto la verità...» «Ma non tutta.» Non avrei voluto dirglielo, sia perché sapevo che se la sarebbe goduta fin troppo, sia perché mi sentivo vagamente sleale nei confronti di Richard. «Non sono del tutto sicura di voler sposare Richard.» «Perché no?» Nel suo viso comparve qualcosa di simile alla speranza, o quasi. Non potevo permettere che si facesse un'idea sbagliata. «Ho intravisto il suo lato mannaro, ho sentito il suo... potere.» «E allora?» «Adesso non sono più del tutto sicura.» «Neanche lui è abbastanza umano per te!» Rise, gettando la testa all'indietro. Fu un suono gioioso che mi avvolse come cioccolata, pesante, dolce, irritante. «Ama un altro», intervenne Gretchen. «Che importa se dubita di lui? Dubita anche di te. Ti rifiuta, Jean-Claude. Non è abbastanza?» «Sei stata tu a conciarla così?» Gretchen cominciò a girare in cerchio come una tigre in gabbia. «Lei non ti ama come ti amo io.» S'inginocchiò di fronte a lui, posandogli le mani sulle gambe e alzando il viso a guardarlo. «Ti prego... Io ti amo, ti ho sempre amato. Uccidila, oppure lascia che sposi quell'uomo. Lei non merita la tua adorazione.» Lui la ignorò. «Come stai, ma petite?» «Benissimo.» Gretchen lo afferrò, affondandogli le dita nei jeans. «Ti prego!» Non mi stava certo simpatica, ma la sofferenza e la disperazione nella sua voce erano orribili. Anche se aveva cercato di ammazzarmi, mi dispiaceva per lei. «Lasciaci, Gretchen.»
«No!» Lei si aggrappò ancor più a lui. «Ti avevo proibito di farle male, ma tu hai disubbidito. Dovrei ucciderti.» Lei rimase in ginocchio a fissarlo, e io fui contenta di non vedere la sua espressione, perché la sottomissione non mi piace granché. «Jean-Claude... Ti prego! Ti prego! L'ho fatto soltanto per te! Lei non ti ama!» D'improvviso, la mano di lui fu intorno al collo di lei senza che io percepissi il movimento. Magia? Qualunque cosa fosse, quella che mi permetteva di guardarlo negli occhi, non impediva a lui di manipolare la mia mente, creando illusioni. O forse era soltanto così veloce? Quando Gretchen cercò di parlare, Jean-Claude strinse tanto da soffocarle la voce, rendendo incomprensibili le sue parole, poi si alzò, rimettendola in piedi di peso. Lei gli afferrò il polso con entrambe le mani, nel tentativo d'impedirgli d'impiccarla, ma lui continuò a sollevarla finché non rimase sospesa a mezz'aria. Sapevo che Gretchen era in grado di battersi con lui perché avevo sentito la forza delle sue mani, solo in apparenza delicate, eppure non oppose resistenza. Si sarebbe lasciata uccidere? E lui, l'avrebbe uccisa? E io, potevo starmene lì a guardare senza fare niente? Lui rimase per un momento così, nella sua meravigliosa camicia nera, elegante, poi si recò alla scrivania mantenendo l'equilibrio senza il minimo sforzo. Neppure un licantropo avrebbe potuto riuscirci, non in quel modo. Nel guardare il suo corpo snello, mentre camminava sulla moquette, mi resi conto che, per quanto fingesse, non era umano. Non era per niente umano. La posò in piedi sulla moquette dalla parte opposta della scrivania e allentò la presa alla gola, ma senza lasciarla. «Jean-Claude... Chi è lei, perché il Master della Città debba implorare le sue attenzioni?» Sempre tenendola per la gola, ma senza stringere, Jean-Claude chiuse il paravento con la mano libera, rivelando una bara sostenuta da un piedistallo coperto da un drappo. Il legno era quasi nero, lucido come uno specchio. Gretchen sgranò gli occhi. «Jean-Claude! Mi dispiace! Anche se avrei potuto, non l'ho uccisa! Chiedilo a lei... Avrei potuto ucciderla, ma non l'ho fatto! Chiedilo a lei... Chiedilo a lei!» La sua voce esprimeva panico puro. «Anita.» Quell'unica parola mi accarezzò la pelle, colma e densa di presagi sinistri. Fui molto felice che quella voce non fosse arrabbiata con me. «Avrebbe potuto uccidermi al primo assalto.»
«Perché credi che non lo abbia fatto?» «Credo che si sia distratta nel tirarla un po' per le lunghe e godersela di più.» «No, no... Volevo soltanto minacciarla, cercare di spaventarla! Sapevo che non volevi che la uccidessi. Lo sapevo, altrimenti sarebbe morta!» «Sei sempre stata una pessima bugiarda, Gretel.» Gretel? Con una mano sola, Jean-Claude sollevò il coperchio della bara e, intanto, trasse Gretchen più vicino. Allora lei si liberò dalla sua presa, restando graffiata a sangue dalle unghie di lui, e balzò dietro la poltrona, come se ciò potesse proteggerla. Il sangue le colò sul collo. «Non costringermi a usare la forza, Gretel.» «Il mio nome è Gretchen, e da più di cento anni!» Per la prima volta la vidi opporsi risolutamente a Jean-Claude, ma resistetti alla tentazione di applaudire, e non fu difficile. «Eri Gretel quando ti ho trovata, e lo sei ancora. Non costringermi a ricordarti quello che sei.» «Non entrerò in quella maledetta cassa! No!» «Vuoi davvero che Anita ti veda al tuo peggio?» E io credevo che fosse già successo! «Non entrerò nella cassa!» Gretchen non era troppo sicura, però era decisa e ostinata. Diceva sul serio. Jean-Claude rimase immobile, poi, quasi come in una danza, sollevò una mano in un gesto languido. Era l'unico aggettivo possibile. Gretchen barcollò, aggrappandosi alla poltrona per sostenersi. Il suo viso sembrò contrarsi, ma non per il deflusso del potere, come avevo visto in precedenza. Non si trasformò in un cadavere etereo capace di squarciarti la gola e mettersi a danzare nel sangue. La carne avvizzì, aderendo alle ossa, non per l'invecchiamento, bensì nella morte. Aprì la bocca e strillò. «Mio Dio... Che cosa le sta succedendo?» Gretchen rimase aggrappata alla poltrona con mani ossute che parevano artigli d'uccello. Sembrava una mummia. Il rossetto lucido era come una macabra ferita sul viso. I capelli biondi si assottigliarono, diventando friabili come paglia. Jean-Claude le si avvicinò, sempre elegante, sempre bello, sempre mostruoso. «Posso toglierti la vita eterna che ti ho donato. Non dimenticarlo mai.»
Lei emise una specie di rauco piagnucolio gutturale e protese una mano scheletrica in un debole gesto implorante. «Entra nella bara.» L'ultima parola suonò tenebrosa e agghiacciante, come se le avesse ordinato seriamente e letteralmente di scendere all'inferno. L'aveva privata della forza di volontà, o forse sarebbe stato più corretto dire che gliel'aveva sottratta. Non avevo mai visto niente del genere. Avevo scoperto un potere dei vampiri cui non avevo mai neppure sentito alludere nel folklore. Gretchen mosse un passo tremante verso la bara. Due dolorosi passi strascicati e perse la presa sulla poltrona. Cadde con tutto il peso sulle braccia scheletriche, un buon modo per rompersi le ossa, ma non sembrò preoccuparsi affatto di eventuali fratture. Come biasimarla? S'inginocchiò sul pavimento, la testa ciondoloni come se non avesse la forza di sollevarla. Jean-Claude rimase là, a fissarla. Se fosse stata chiunque altro, e non Gretchen, forse l'avrei aiutata. E sicuramente mi mossi senza volerlo verso di lei, perché Jean-Claude mi ordinò con un gesto di restare indietro. «Se si nutrisse di sangue umano in questo momento, recupererebbe tutta la sua forza. È molto spaventata. Io, se fossi in te, non la sottoporrei a tentazione proprio adesso, ma petite.» Rimasi dove mi trovavo. Non volevo darle una mano, però non mi piaceva affatto rimanere a guardare quello che le stava succedendo. «Striscia», disse lui. Lei cominciò a strisciare. Ne ebbi abbastanza. «Hai ottenuto quello che volevi, Jean-Claude. Se vuoi chiuderla nella bara, metticela tu.» Si girò a guardarmi con espressione quasi divertita. «Provi davvero compassione per lei, ma petite? Eppure ti voleva uccidere...» «Non avrei nessun problema a spararle. Ma questo...» Non sapevo come descrivere quello che non era semplice umiliazione. Jean-Claude voleva che lei rinunciasse a se stessa. Scossi la testa. «La stai torturando. Se lo fai per me... Be', ho visto abbastanza. Se invece lo fai per te stesso, allora smettila.» «Lo faccio per lei, ma petite. Ha dimenticato chi è il suo Master. Un mese o due nella bara, e ritroverà la memoria.» Intanto, Gretchen era arrivata al piedistallo, si era aggrappata al drappo che lo ricopriva, ma non riusciva ad alzarsi. «Credo che l'abbia già ritrovata.»
«Sei sempre così dura, ma petite, così pragmatica. Eppure, all'improvviso, sei capace di commuoverti, e la tua commozione non è meno intensa del tuo odio...» «Ma non è altrettanto divertente.» Sorridendo, Jean-Claude scoperchiò completamente la bara, il cui interno era, naturalmente, di seta bianca, poi si curvò a raccogliere Gretchen, che gli si afflosciò tra le braccia come se fosse incapace di muoversi. Il lungo soprabito della vampira strisciò sulla bara, e allora qualcosa che aveva in tasca produsse un tonfo solido e sordo. Mi costò parecchio, ma lo chiesi. «Se quella è la mia pistola, devo riaverla.» Jean-Claude posò quasi gentilmente Gretchen sul rivestimento di seta, poi la perquisì. Tenendo la Browning con una mano, cominciò ad abbassare il coperchio. Gretchen sollevò le mani scheletriche come per impedire che si richiudesse. Nel vedere quelle mani annaspanti, rischiai di rinunciare. «Dovrebbero esserci anche un'altra pistola e un pugnale.» Jean-Claude spalancò gli occhi, poi annuì. Quando mi porse la Browning, mi avvicinai per prenderla, così vidi gli occhi di Gretchen, pallidi e offuscati come quelli dei vecchi, ma ancora abbastanza espressivi da manifestare il terrore. Li stralunò, fissandomi in una supplica muta, per cui l'aggettivo «disperata» sarebbe stato inadeguato. E guardò me, non Jean-Claude, come se sapesse che ero l'unica presente cui importasse qualcosa di quello che le stava succedendo. Quanto a Jean-Claude, se era anche minimamente impietosito, il suo viso non lo manifestava affatto. Rinfoderare la Browning mi diede una bella sensazione. Jean-Claude mi porse la Firestar. «Non riesco a trovare il pugnale. Se vuoi perquisirla tu, fai pure.» Fissai la pelle avvizzita, il viso senza labbra, il collo grinzoso come quello di una gallina e scossi la testa. «Non ho tanta voglia di riaverlo.» Rise, e la sua risata mi accarezzò come velluto. Un gioioso sociopatico. Quando la bara fu chiusa, Gretchen emise suoni orribili, come se si sforzasse di gridare senza averne la voce, picchiando le mani esili sul coperchio. Jean-Claude chiuse i lucchetti e si appoggiò alla bara per sussurrare: «Dormi...» Quasi subito i lamenti scemarono. Lui ripeté la parola, e cessarono del tutto.
«Come ci sei riuscito?» «A tranquillizzarla?» Scossi la testa. «Tutto quanto.» «Sono il suo Master.» «No, Nikolaos era la tua Master, ma non aveva questo potere, altrimenti lo avrebbe usato contro di te.» «Molto perspicace da parte tua, e molto vero. Io ho creato Gretchen, mentre Nikolaos non aveva creato me. Come hai visto, il Master ha certi poteri speciali sui vampiri che crea...» «Nikolaos aveva creato la maggior parte dei vampiri della sua banda, vero?» Annuì. «Se fosse stata capace di fare quello che hai fatto tu, me lo avrebbe mostrato per vantarsene.» Fece un sorrisino. «Anche questo è molto perspicace... I poteri che un Master possiede sono diversi: evocare un animale, levitare, resistere all'argento...» «Per questo il mio pugnale non ha ferito Gretchen?» «Sì.» «Quindi ogni Master ha un arsenale di poteri diversi...» «Arsenale? È un termine adeguato... Ma adesso, ma petite... Dove eravamo rimasti? Ah, sì! Io potrei uccidere Richard...» Eccoci di nuovo. 25 «Hai capito, ma petite? Potrei uccidere il tuo Richard.» Jean-Claude riaprì il paravento per nascondere la bara e il suo terribile contenuto, che scomparvero così, con un semplice gesto. «Non vuoi farlo.» «Oh, invece lo voglio, ma petite! Mi piacerebbe molto strappargli il cuore e guardarlo morire.» Mi passò davanti, e la sua camicia nera, gonfiandosi, si aprì a rivelare lo stomaco. «Ti ho detto che non sono sicura di volerlo sposare. Non sono neppure sicura che continueremo a uscire insieme. Non è abbastanza?» «No, ma petite. Tu lo ami. Riesco a fiutare il suo odore sulla tua pelle. Lo hai baciato, stanotte. Nonostante tutti i tuoi dubbi, lo hai abbracciato.» «Allora semplifichiamo la faccenda», dissi, in tono molto pratico. «Se
gli fai del male, ti ammazzo.» «Potresti provarci, ma ti assicuro che non è molto facile uccidermi.» Sedette di nuovo sul divano, con la camicia aperta a scoprire gran parte del torace. L'ustione a forma di crocifisso era una lucida imperfezione sulla sua pelle altrimenti pura. Rimasi in piedi, visto che comunque non mi aveva invitata a sedermi. «Forse ci ammazzeremmo a vicenda. La scelta della musica spetta a te, Jean-Claude, ma, una volta cominciata, la danza finirà soltanto quando almeno uno di noi due sarà morto.» «A me non è permesso far male a Richard... E a lui è permesso farmi del male?» Buona domanda. «Non credo che si arriverà a questo.» «Sei uscita con lui per mesi, e io non ho detto quasi niente. Prima che lo sposi, voglio avere uguali opportunità.» Lo guardai. «Che significa... 'uguali opportunità'?» «Esci con me, Anita. Concedimi la possibilità di corteggiarti.» «Corteggiarmi?» «Sì.» Mi limitai a fissarlo, non sapendo cosa dire. «Sto cercando di evitarti da mesi, e non intendo cedere proprio adesso.» «Allora io comincerò la musica e danzeremo. Anche se alla fine ci uccideremo a vicenda, ti prometto che Richard sarà il primo a morire. Sicuramente, uscire con me non sarebbe un fato peggiore di questo.» Un punto a suo favore, eppure... «Io non cedo alle minacce.» «Allora mi appello al tuo senso di lealtà, ma petite. Hai permesso a Richard di conquistare il tuo cuore... Ebbene, se tu fossi uscita prima con me, non sarebbe adesso il mio cuore a esserti tanto caro? Se non ti fossi opposta alla nostra attrazione reciproca, avresti mai degnato Richard delle tue attenzioni?» Non avrei potuto rispondere sinceramente di sì, perché non ne ero sicura. Avevo respinto Jean-Claude perché non era umano. Era un mostro, e io non uscivo coi mostri. La notte precedente, però, avevo intravisto quello che Richard poteva diventare, avevo sentito strisciare sulla mia pelle un potere in grado di rivaleggiare con quello di Jean-Claude. Insomma, stava diventando sempre più difficile distinguere gli umani dai mostri. Stavo persino cominciando a interrogarmi su me stessa. Esistono più vie al disumano di quanto si pensi comunemente. «Non credo nel sesso occasionale. Non sono stata a letto neanche con
Richard.» «Non sto cercando di ricattarti per costringerti a fare sesso, ma petite. Sto soltanto cercando di avere uguali opportunità.» «E se io accettassi?» «Be', passerei a prenderti venerdì sera.» «Come un vero appuntamento?» Annuì. «Potremmo persino riuscire a scoprire come mai riesci a sopportare impunemente il mio sguardo.» «Cerchiamo di attenerci il più possibile alla normalità.» «Come preferisci.» Ci fissammo. Sarebbe passato a prendermi venerdì. Avevamo un appuntamento... Mi chiesi come l'avrebbe presa Richard. «Non posso mica uscire con tutti e due all'infinito...» «Concedimi soltanto qualche mese, come hai fatto con Richard. Se non riuscirò a conquistarti, allora mi ritirerò dalla competizione.» «Vuoi dire che mi lascerai in pace e che non farai del male a Richard?» Annuì. «Mi dai la tua parola?» «La mia parola d'onore.» Accettai, perché era il risultato migliore che potessi ottenere. Non ero sicura di quanto valesse la sua parola, ma almeno ciò mi avrebbe concesso un po' di tempo per escogitare qualcos'altro. Non sapevo cosa, eppure qualche soluzione doveva esserci, a parte uscire col dannato Master della Città. 26 Si sentì bussare, e subito la porta fu aperta senza il permesso di JeanClaude. Visitatori aggressivi... E infatti entrò a passi maestosi Raina, alla quale l'aggettivo si adattava perfettamente. Indossava un trench color ruggine con la cintura annodata molto stretta in vita e la fibbia penzolante. Si tolse un fazzoletto multicolore e scosse la testa per sciogliere la chioma castano-ramata, che scintillò alla luce. La seguì Gabriel, vestito in modo simile, con un trench nero, al quale i suoi capelli e i suoi strani occhi grigi si abbinavano alla perfezione, proprio come a Raina il suo. L'elice di una delle orecchie scintillava di orecchini d'argento. Dopo di lui entrò Kaspar Gunderson, che indossava un cappotto di
tweed chiaro e uno di quei cappelli con una piuma nella fascia. Pareva una versione elegante del papà ideale degli anni '50, ma non sembrava per niente felice di essere lì. Robert rimase sulla soglia. «Ho detto loro che eri impegnato e che non volevi essere disturbato, Jean-Claude...» Si torceva le mani per l'angoscia e, dopo quello che avevo visto fare a Gretchen, non potevo certo biasimarlo se aveva paura. «Entra, Robert, e chiudi la porta», disse Jean-Claude. «Sta per cominciare un altro numero, e io devo...» «Entra e chiudi la porta, Robert.» Il vampiro centenario ubbidì, poi si addossò all'uscio, con una mano sulla maniglia, come se ciò lo rendesse più sicuro. Attraverso la manica destra squarciata della camicia si vedeva sanguinare una ferita prodotta da un artiglio. Anche la gola sanguinava, come se un artiglio lo avesse afferrato al collo e sollevato di peso. «Ti avevo detto che cosa sarebbe successo se mi avessi deluso ancora, Robert, in qualsiasi cosa, grande o piccola...» Il sussurro di Jean-Claude riempì la stanza come un vento. Robert si lasciò cadere in ginocchio sulla moquette bianca. «Ti prego, Master, ti prego...» E protese le mani verso Jean-Claude. Una grossa goccia di sangue cadde dal suo braccio, spiccando molto rossa sulla moquette bianchissima. Raina sorrise. Ero pronta a scommettere che sapeva di chi erano gli artigli che avevano ferito Robert. Kaspar sedette sul divano, prendendo le distanze dallo spettacolo. Gabriel guardò me. «Bel trench...» Indossavamo tutti e due un trench nero. Magnifico. «Grazie», disse. E sorrise, facendo lampeggiare i denti aguzzi. Volevo chiedergli se gli orecchini d'argento gli facessero male, ma un gemito di Robert riportò la mia attenzione allo spettacolo principale. «Avvicinati, Robert.» La voce di Jean-Claude era abbastanza rovente da ustionare. Umiliandosi, Robert si prostrò. «Ti prego, Master... Non farlo...» Jean-Claude gli si avvicinò con una tale velocità che la sua camicia sventolò come un mantello in miniatura, mentre il pallore della sua pelle spiccava luminoso a contrasto col tessuto nero. Si fermò accanto al vampiro prostrato. La sua camicia ondeggiò intorno al suo corpo improvvisamente immobile, come se il tessuto avesse più vita di lui. «Ci ha provato, Jean-Claude», intervenni. «Lascialo stare.»
Jean-Claude mi fissò con occhi di un blu senza fondo, e io distolsi lo sguardo. Forse sarei riuscita a sostenerlo impunemente, tuttavia... Lui era sempre pieno di sorprese. «Avevo l'impressione, ma petite, che Robert non ti piacesse.» «Infatti, ma ne ho viste a sufficienza di punizioni stanotte. E poi, lo hanno ferito perché non voleva permettere loro di entrare subito nel tuo ufficio. Perché non te la prendi con loro?» Raina si avvicinò a Jean-Claude, e i tacchi alti delle sue scarpe scollate color rame lasciarono sulla moquette una serie di tracce profonde come pugnalate. Jean-Claude la osservò senza espressione, ma il suo autocontrollo aveva qualcosa che mi colpì. Aveva paura di lei? Forse. Comunque mi sembrò guardingo al suo avvicinarsi, e per niente contento. Sempre più interessante... «Avevamo un appuntamento con Jean-Claude. Mi sarebbe dispiaciuto molto essere mandata via.» Scavalcò Robert, scoprendo quasi interamente una gamba. Non era da escludere che fosse completamente nuda sotto il trench. Senza neanche sbirciare, Robert rimase immobile, a parte un trasalimento quasi impercettibile quando il trench gli sfiorò la schiena. Raina gli rimase accanto, quasi sfiorandolo coi polpacci torniti, ma Robert non si mosse, come se volesse far dimenticare a tutti la sua presenza semplicemente fingendo di non essere lì. Gli sarebbe piaciuto... Incuneata fra i due vampiri, Raina era così vicina a Jean-Claude da aderire a lui con tutto il corpo. Mi aspettai che Jean-Claude indietreggiasse per lasciarle un po' di spazio, ma non lo fece. Lei gli infilò le mani sotto la camicia, sulla pelle nuda, e lo abbracciò alla vita, dischiuse le labbra luccicanti di rossetto e si curvò a baciarlo, mentre lui restava immobile come una statua senza mandarla all'inferno. Che diavolo stava succedendo? Raina sollevò il viso quel tanto che bastava per riuscire a parlare. «JeanClaude non vuole offendere Marcus. Ha bisogno del sostegno del branco per mantenere il dominio sulla città. Vero, amore?» Lui le posò le mani sulla vita snella, come per respingerla, e indietreggiò. Lei mantenne le mani sollevate in una lunga carezza finché lui non si fu completamente sottratto al suo tocco. Allora lo guardò come i serpenti guardano gli uccellini, con appetito. Non c'era bisogno di essere vampiri per percepire quella che si sarebbe potuta definire, con ritegno, la sua concupiscenza.
«Marcus e io abbiamo un accordo», disse Jean-Claude. «Che tipo di accordo?» chiesi. «Che t'importa, ma petite? Se tu frequenti Monsieur Zeeman, non sono forse io libero di frequentare altra gente? Ti ho offerto una relazione monogama, e tu l'hai rifiutata.» Non ci avevo pensato, e la cosa m'infastidì. Dannazione! «Non è questo che mi preoccupa, Jean-Claude.» Raina gli girò intorno, sfiorandogli la pelle con le lunghe unghie smaltate, poi gli accarezzò il petto e gli posò il mento sopra una spalla. Questa volta, Jean-Claude si rilassò nel suo abbraccio, appoggiandosi a lei, e con le mani pallide le accarezzò le braccia. Intanto, mi fissò. «E allora che cosa ti preoccupa, ma petite?» «Le compagne di gioco che ti scegli.» «Sei gelosa?» chiese Raina. «No.» «Bugiarda», replicò lei. Che cosa avrei dovuto dire? Che mi irritava vederla strusciarsi addosso a lui? Era vero, e mi dava ancor più fastidio. Scossi la testa. «Mi stavo soltanto chiedendo fino a che punto saresti disposto ad arrivare per assicurarti il sostegno del branco...» «Oh, sino in fondo», disse Raina. Gli girò intorno, in modo da fronteggiarlo. Coi tacchi, era più alta di lui. «Verrai anche a recitare con me...» Lo baciò, poi, con un movimento rapido, si lasciò cadere in ginocchio davanti a lui, e alzò lo sguardo. Jean-Claude le accarezzò i capelli, quindi, con le pallide mani armoniose, le sollevò il viso e si curvò come per baciarla, ma intanto guardò me. Aspettava forse che gli dicessi di non farlo? Anche se all'inizio era sembrato quasi spaventato, adesso sembrava del tutto a suo agio. Mi stava provocando nel tentativo d'ingelosirmi, e in un certo senso ci riusciva. La baciò a lungo, profondamente, infine mi guardò, con le labbra sporche di rossetto. «Che cosa stai pensando, ma petite?» Non era più capace di leggermi nella mente. Un punto a favore dell'assenza dei marchi di vampiro. «Che adesso ho meno considerazione di te, sapendo che fai sesso con Raina.» Gabriel emise una calda risata brontolante. «Oh, non ha mica fatto sesso con lei! Non ancora...» Mi si avvicinò a lunghi passi agili. Aprii il trench a mostrare la Browning. «Non facciamo cazzate.» Lui si sciolse la cintura del trench e sollevò le mani in segno di resa.
Non indossava la camicia. Aveva un piercing d'argento al capezzolo sinistro e un altro all'ombelico. Mi fece male soltanto vederlo. «Credevo che l'argento fosse doloroso per i licantropi, o almeno fastidioso. Qualcosa come un'allergia.» «Brucia», disse lui, con voce morbida e rauca. «E questa è una bella cosa?» domandai. Gabriel abbassò lentamente le mani, poi, con una scrollata di spalle, lasciò cadere il trench e si girò lentamente, come in uno spogliarello. Non vidi nessun altro piercing d'argento, ma lui si girò di scatto, sfilandosi le maniche, e mi gettò addosso il trench. Cercai di sbatterlo via, e quello fu il mio errore. Mi balzò addosso e mi stese sul pavimento, inchiodandomi le braccia sul petto, sotto il suo trench. Il peso dei suoi fianchi m'impediva di estrarre la Firestar. Quando cercai d'impugnare la Browning, squarciò il trench come se fosse stato di carta e mi tolse la pistola con tanta violenza da rischiare di strapparmi anche il braccio e la fondina. Per un attimo il braccio sinistro si trasformò in un concentrato di sofferenza. Quando riacquistai la sensibilità, non avevo più la Browning e mi trovavo a fissare la faccia di Gabriel da meno di dieci centimetri di distanza. Agitò i fianchi, schiacciando la Firestar, che avrebbe dovuto far male più a lui che a me. «Non fa male?» chiesi, con voce sorprendentemente calma. «Il dolore mi piace.» Mi toccò il mento con la punta della lingua, poi mi leccò sulle labbra fino al naso, e rise. «Resisti, combatti, spingi con quelle tue manine...» «Ti piace il dolore?» «Sì.» «Allora questo ti piacerà un mondo...» E gli conficcai il pugnale nello stomaco. Con un suono soffocato, a metà fra un grugnito e un sospiro, fu scosso da un tremito e rizzò di scatto il busto, continuando però a bloccarmi coi fianchi e con le gambe, come nei piegamenti facilitati. Alzai il busto a mia volta, conficcando più profondamente il pugnale, con la lama inclinata verso l'alto. Gabriel fece a pezzi il trench, ma non cercò di afferrare l'arma, poi si appoggiò sulle braccia divaricate e abbassò lo sguardo al pugnale e alle mie mani insanguinate. Affondò il viso nei miei capelli, con una fiacchezza appena percettibile e, mentre pensavo che stesse per svenire, sussurrò: «Più a fondo...»
«Oh, Cristo!» Il pugnale gli toccava quasi lo sterno. Ancora una spinta e gli avrei trafitto il cuore. Mi distesi sulla schiena per calcolare meglio l'angolazione ed essere sicura d'infliggere un colpo mortale. «Non ucciderlo», intervenne Raina. «Ci serve.» Perché aveva usato la prima persona plurale? Il pugnale stava per trafiggergli il cuore, quando lui, rotolando, si staccò da me con velocità accecante e cadde sulla schiena, non troppo lontano. Ansimava, il suo petto si alzava e si abbassava per la respirazione molto accelerata e il sangue gli scorreva sulla pelle nuda. Aveva gli occhi chiusi e le labbra incurvate in un mezzo sorriso. Se fosse stato umano, sarebbe morto prima dell'alba, invece se ne rimase sdraiato sulla moquette a sorridere. Rotolò la testa da una parte e sollevò le palpebre. I suoi strani occhi grigi mi guardarono. «È stato meraviglioso.» «Cristo santo...» Mi appoggiai al divano e mi alzai, tutta coperta del sangue di Gabriel, che rivestiva di uno spesso strato l'intero pugnale. Seduto nell'angolo del divano, Kaspar mi fissava a occhi sgranati, strettamente avvolto nel suo cappotto. Non potevo certo biasimarlo. Mi pulii le mani e asciugai il pugnale sul divano nero. «Grazie per l'aiuto, Jean-Claude.» «Mi hanno detto che adesso sei dominante, ma petite. E con le lotte intestine per il dominio non bisogna interferire.» Sorrise. «D'altronde, non hai avuto bisogno del mio aiuto.» Raina s'inginocchiò accanto a Gabriel e si chinò a leccargli lo stomaco insanguinato, con movimenti lunghi e lenti della lingua, i muscoli del collo che si contraevano mentre deglutiva. Non volevo vomitare. Ero decisa a non vomitare. Guardai Kaspar. «Che ci fai con questi due?» Raina sollevò il viso imbrattato di sangue. «Kaspar è il nostro campione d'analisi.» «E questo che cosa vorrebbe dire?» «Può trasformarsi tutte le volte che vuole senza perdere conoscenza. Lo usiamo nei provini per gli attori che vogliono recitare nelle nostre produzioni cinematografiche, per vedere come reagiscono quando qualcuno si trasforma durante l'azione.» Avevo la nausea. «Ti prego, dimmi che non ho capito, che non si trasforma mentre fa sesso per mettere alla prova gli aspiranti attori...» Raina reclinò la testa e si leccò le labbra per pulirle dal sangue. «Sai dei nostri film?»
«Sì.» «Mi sorprende che Richard te ne abbia parlato. Non approva il nostro giochetto.» «Ci sei anche tu nei film?» «Kaspar non partecipa alle riprese.» Raina si alzò e si avvicinò al divano. «Marcus non obbliga nessuno a farlo. Però Kaspar ci aiuta nelle audizioni. Vero, Kaspar?» Fissando la moquette, sforzandosi di non guardare la licantropa, Kaspar annuì. «Perché siete tutti qui, stanotte?» chiesi. «Jean-Claude ci ha promesso qualche vampiro per il nostro prossimo film.» «È vero?» Jean-Claude era impassibile, bello ma impenetrabile. «Robert dev'essere punito.» Al cambio di argomento, aggrottai la fronte. «La bara è piena...» «Ce ne sono altre, Anita. Sempre.» Robert si avvicinò strisciando. «Mi dispiace, Master, mi dispiace...» Non toccò Jean-Claude, ma gli si avvicinò ancora di più, sempre strisciando. «Non riuscirò a sopportare la bara un'altra volta, Master... Ti prego...» «Jean-Claude, persino tu hai paura di Raina. Che cosa ti aspettavi che facesse Robert?» «Non ho paura di Raina.» «Benissimo. Ma Robert era in svantaggio, e tu lo sai.» «Forse hai ragione, ma petite.» Robert alzò lo sguardo. Un lampo di speranza balenò sul suo bel viso. «Grazie, Master.» E guardò me. «Grazie, Anita.» Scrollai le spalle. «Puoi avere Robert per il tuo prossimo film», disse Jean-Claude. Robert gli afferrò una gamba. «Master, io...» «Forza, Jean-Claude... Non consegnarlo a lei...» Quando Raina si lasciò cadere sul divano fra Kaspar e me, mi alzai. Lei passò un braccio intorno alle spalle di Kaspar, che trasalì. «È abbastanza bello, e qualunque vampiro può sopportare parecchia sofferenza. Va bene», disse lei. «Li hai visti, poco fa», dissi. «Vuoi davvero che torturino uno dei tuoi?» «Lasciamo che sia Robert a decidere», rispose Jean-Claude. «La bara o Raina?»
Robert alzò lo sguardo verso la licantropa, che gli sorrise con la bocca insanguinata. Dopo averla osservata per un lungo momento, annuì. «La bara no. Qualsiasi altra cosa è meglio.» «Io me ne vado», dissi. Avevo già assistito a tutti gli intrighi politici della comunità soprannaturale che potevo sopportare in una sola notte. «Non vuoi rimanere per lo spettacolo?» chiese Raina. «Credo di averlo già visto.» Lei gettò il cappello di Kaspar dall'altra parte della stanza. «Spogliati», ordinò. Intanto, avevo rinfoderato il pugnale e avevo raccolto la Browning dalla moquette, dove Gabriel l'aveva gettata. Ero armata, per quello che poteva servirmi. Kaspar rimase seduto sul divano. Il suo viso pallido arrossì lievemente, i suoi occhi scintillarono di rabbia e d'imbarazzo. «Ero un principe prima ancora che i vostri antenati scoprissero questo Paese...» Raina gli posò il mento sopra una spalla, sempre cingendolo con un braccio. «Sappiamo quanto è aristocratico il tuo pedigree. Eri un principe, ed eri anche un cacciatore così cattivo che una strega ti maledì, trasformandoti in qualcosa di bello e d'innocuo, nella speranza che imparassi a essere gentile...» Gli leccò un orecchio, poi gli passò le mani fra le piume che aveva al posto dei capelli. «Ma tu non sei affatto buono. Hai ancora il cuore gelido e l'orgoglio impenetrabile che avevi secoli fa. E adesso, togliti i vestiti e trasformati in cigno.» «Non c'è bisogno che lo faccia per il vampiro.» «No, fallo per me, in modo che Anita possa vedere. Trasformati, così Gabriel e io non ti faremo nessun male.» La sua voce si abbassò, misurando ogni parola. «Non potete uccidermi, neanche con l'argento.» «Però possiamo farti rimpiangere di non poter morire, Kaspar...» Lui emise un grido lacero e soffocato di frustrazione. Si alzò di scatto, si aprì il cappotto con violenza, facendo schizzare i bottoni sulla moquette, e lo gettò in faccia a Raina, che rise. Mi avviai alla porta. «Oh, non lasciarci proprio adesso, Anita! Kaspar sarà anche un gran rompiscatole, però è davvero molto bello.» Mi girai un attimo a guardare Kaspar, che aveva lasciato cadere sulla moquette la giacca e la cravatta, e si stava sbottonando la camicia bianca con gesti rapidi e rabbiosi. Sul petto aveva piume bianche, fitte, soffici e
morbide. Scossi la testa e proseguii verso la porta, senza correre, senza neppure affrettarmi. Fu la mia azione più coraggiosa di quella notte. 27 Tornai a casa in taxi. Stephen rimase al locale per fare il suo numero, o magari soltanto per leccare gli stivali a Jean-Claude. Non lo sapevo esattamente e non ero sicura che me ne importasse qualcosa. Avevo già fatto del mio meglio assicurandomi che non passasse qualche guaio a causa mia. Per il resto, era una creatura di Jean-Claude, e per quella notte io ne avevo già avuto abbastanza del Master della Città. Torturare Gretchen era ben diverso che ucciderla. A tratti ricordavo le percosse frenetiche delle sue mani sul coperchio della bara. Mi sarebbe piaciuto credere che Jean-Claude l'avrebbe lasciata dormire, ma sapevo bene che non l'avrebbe fatto. Era un Master, e la paura era uno degli strumenti che gli permettevano di dominare gli altri vampiri. La punizione di Gretchen serviva da monito per tutti coloro che avessero scontentato JeanClaude. E, secondo me, era molto efficace. Davanti alla porta del mio appartamento, mi resi conto di non poterla aprire. Tenevo tutte le chiavi, quelle di casa e quelle dell'auto, in un solo mazzo, che avevo consegnato a Richard in modo che potesse guidare la Jeep. Là, nel corridoio, sul punto di bussare alla mia stessa porta, mi sentii sciocca. Ma l'uscio si aprì senza che lo toccassi e Richard apparve sulla soglia. «Ciao», sorrise. Mio malgrado, risposi al sorriso. «Ciao.» Indietreggiò e si fece da parte per lasciarmi entrare, senza cercare di baciarmi, e io ne fui contenta, perché sarebbe stato un rituale troppo intimo. Se mai ci fossimo davvero sposati, allora avrebbe anche potuto molestarmi sulla soglia di casa, ma quella notte no. Chiuse la porta alle mie spalle. Quasi mi aspettai che mi aiutasse a togliermi il trench, ma saggiamente non lo fece. Me lo tolsi da sola e lo gettai sul divano, dove vanno sempre a finire i trench. Il caldo profumo del cibo che cuoceva riempiva l'appartamento. «Stai cucinando», dissi, non del tutto contenta. «Ho pensato che magari avevi fame... E poi, dato che non avevo altro da
fare, mi è servito per ammazzare il tempo.» Comprensibile, anche se a me non sarebbe mai passato per la testa di mettermi a cucinare, se non ci fossi stata costretta. Le uniche luci accese erano quelle della cucina, che così, vista dal soggiorno buio, sembrava una grotta illuminata. Forse c'erano alcune candele sul tavolo. «Sono candele, quelle?» Rise, con un lieve imbarazzo. «È un po' esagerato?» «È un tavolo da colazione per due. Non è adatto a una cena elegante.» «Pensavo di sfruttare il piano del divisorio e tenere sul tavolo soltanto i piatti. C'è abbastanza spazio, se stiamo attenti a dove mettiamo i gomiti.» Passandomi davanti, entrò nella cucina illuminata per cominciare a trafficare con una casseruola. Rimasi là a fissare la mia cucina e il mio possibile fidanzato che mi preparava la cena, coi muscoli tesi, incapace di respirare profondamente. Mi venne voglia di scappare, perché quello che stava succedendo era molto più intimo di un bacio sulla porta. Si era sistemato come se fosse casa sua. Comunque, non me ne andai. Per abitudine, controllai la serratura, scoprendo che quell'incauto di Richard non l'aveva chiusa a chiave. Poi non seppi più che cosa fare. L'appartamento era il mio rifugio, dove potevo rintanarmi e sfogarmi, restare sola. Mi piaceva stare sola. Avevo bisogno di un po' di tempo per rilassarmi, raccogliere le idee, escogitare un modo per dirgli che avevo accettato di uscire con Jean-Claude. «Rovinerei la cena, se prima mi facessi una doccia?» «Non c'è problema, posso riscaldare tutto non appena sei pronta. Immaginavo che forse avresti tardato.» Grande. «Allora vado a farmi una doccia...» Si girò a guardarmi, stagliandosi nella luce. Benché li avesse raccolti sulla nuca, i suoi capelli stavano cominciando a sciogliersi in lunghe ciocche ondulate. Il maglione arancione scuro esaltava la sfumatura dorata della sua abbronzatura. Indossava un grembiule con la scritta PASTICCIO DI CARNE DI MRS. LOVETT, ma io non possedevo nessun grembiule, e di certo non ne avrei scelto uno ispirato a Sweeney Todd. Un grembiule che ricordava un musical sul cannibalismo mi sembrava inappropriato. Magari deliziosamente inappropriato, però... «Vado a fare la doccia.» «Lo hai già detto.» Girai sui tacchi e andai in bagno, ma senza correre, nonostante la tenta-
zione. Chiusi la porta della camera da letto e mi ci appoggiai. La stanza era indenne, priva di ogni traccia d'invasione. Sotto l'unica finestra c'era un divanetto imbottito a due posti, con la mia collezione di pinguini sopra e tutt'intorno. Simili a una marea strisciante, i pupazzi minacciavano di coprire metà del pavimento. Afferrai il più vicino, sedetti sopra un angolo del letto e lo abbracciai forte, affondando mezza faccia nella sua testa lanosa. Se avevo accettato di sposare Richard, perché quell'improvvisa svolta domestica m'irritava tanto? Era pur vero che il «sì» era stato ridimensionato a un «forse», ma mi sarei irritata comunque. Non avevo capito davvero le implicazioni del matrimonio. Era decisamente sleale, da parte di un uomo, fare proposte di matrimonio quando era seminudo e molto appetitoso. Se si fosse inginocchiato durante la cena in un ristorante di lusso, quale sarebbe stata la mia risposta? Probabilmente sarebbe stata diversa. Comunque, non lo avremmo mai scoperto. Giusto? Se fossi stata sola, non avrei mangiato affatto. Mi sarei fatta una doccia, mi sarei infilata la mia T-shirt troppo grande e me ne sarei andata a letto, circondata dai miei pinguini prediletti. Invece dovevo affrontare una cena romantica, nientemeno che a lume di candela. Se avessi detto che non avevo fame, si sarebbe offeso? Avrebbe fatto il broncio? Si sarebbe messo a sbraitare per lo spreco di lavoro e di cibo, rinfacciandomi che me ne fregavo dei bambini che morivano di fame nel Terzo Mondo? «Merda...» mormorai, con sentimento. Be', che diavolo, se mai avessimo dovuto convivere, prima o poi avrebbe dovuto scoprire la verità. Ero un tipo tutt'altro che socievole, e il cibo m'interessava soltanto come mezzo per non morire di fame. Decisi di comportarmi più o meno come avrei fatto se non ci fosse stato lui. Mi scocciava parecchio sentirmi a disagio in casa mia. Se lo avessi previsto, avrei chiesto a Ronnie di svegliarmi ogni ora. Stavo benissimo, non avevo nessun bisogno di aiuto, ma la presenza di Ronnie sarebbe stata meno minacciosa. Naturalmente, non ero tanto sicura che Ronnie sarebbe stata in grado di sopravvivere a un eventuale assalto di Gretchen, se mai la vampira fosse riuscita a uscire da quella bara. A tale proposito, confidavo molto di più sul mio amato licantropo. Un grosso punto a favore di Richard, che era maledettamente difficile da ammazzare. Infilai la Browning nella fondina assicurata alla testiera del letto. Mi sfilai il maglione e lo lasciai cadere sul pavimento. Era ormai rovinato e, co-
munque, i maglioni non si sciupano se si spiegazzano un po'. Posai la Firestar sul mobiletto del bagno, finii di spogliarmi ed entrai nella doccia, senza chiudere a chiave la porta, come se chiuderla fosse stato offensivo, e Richard fosse stato nudo nel letto, ad aspettarmi con una rosa fra i denti. Alla fine mi decisi a chiudere a chiave la porta del bagno, come avevo sempre fatto anche ai tempi in cui vivevo con mio padre. Ormai lo facevo perché in tal modo un eventuale nemico deciso a farmi fuori sarebbe stato costretto a sfondare la porta, e io avrei avuto almeno il tempo di afferrare la Firestar. Rimasi sotto l'acqua, calda ai limiti del sopportabile, finché non cominciarono a corrugarsi le dita. Ero assolutamente pulita, e non avrei potuto tirarla per le lunghe più di così. Passai un asciugamano sullo specchio appannato dal vapore. L'abrasione alla guancia destra sarebbe guarita alla perfezione, ma al momento aveva un pessimo aspetto. Avevo anche un graffio sul mento e uno sul naso. Il livido sulla fronte stava cominciando a scurirsi e a gonfiarsi. Sembrava che fossi stata investita da un treno. Era sbalorditivo che ci fosse qualcuno che desiderava baciarmi. Sbirciai in camera da letto, scoprendo che nessuno mi aspettava. La stanza, piena soltanto del ronzio dell'impianto di riscaldamento, era tranquilla, pacifica. Dalla cucina non arrivava nessun rumore. Emisi un lungo sospiro. Ero sola, almeno per un po'. Ero abbastanza vanitosa per non volere che Richard mi vedesse come mi vestivo di solito per andare a letto. Un tempo avevo una bella vestaglia nera che un corteggiatore troppo ottimista mi aveva regalato, insieme con un pagliaccetto nero, senza mai avere l'occasione di vedermeli addosso. Pensate un po'. Comunque la vestaglia era morta di una morte triste, impregnata di sangue e di altri fluidi organici. Indossare il pagliaccetto mi sembrava scorretto, visto che non avevo nessuna intenzione di fare sesso con Richard. Rimasi in piedi davanti all'armadio senza niente da mettermi, e fu alquanto desolante, dato che considero i vestiti soltanto come qualcosa con cui coprirmi. Alla fine mi decisi per una T-shirt troppo grande con la caricatura di Mary Shelley, i pantaloni di una tuta grigia e un paio di calzini da jogging bianchi, che era quanto di più vicino a un paio di ciabatte io avessi. Ero pronta. Mi guardai allo specchio senza nessuna soddisfazione, ma sentendomi a mio agio, perché almeno ero sincera, anche se non avevo un aspetto molto
attraente. Non ho mai capito le donne che prima del matrimonio dedicano la massima attenzione al trucco, all'acconciatura, all'eleganza, e poi, a cose fate, lasciano perdere tutto. Se dovevamo sposarci, era giusto che Richard vedesse con chi avrebbe dovuto dormire ogni notte. Scrollando le spalle, uscii. Richard si era sciolto i capelli, che si gonfiavano a incorniciargli il viso, morbidi e invitanti. Le candele erano sparite, e il grembiule pure. Stava sulla soglia della cucina, con le braccia incrociate sul petto, una spalla appoggiata allo stipite, e sorrideva. Era così delizioso che avrei voluto tornare in camera da letto a cambiarmi, ma non lo feci. «Mi spiace», disse. «Per cosa?» «Per essere stato tanto presuntuoso da invadere la tua cucina. O almeno credo, anche se non ne sono del tutto sicuro.» «Penso che sia il primo vero pasto che sia mai stato cucinato qui dentro.» Il suo sorriso si allargò, mentre si staccava dallo stipite e mi si avvicinava, avvolto dalla sfera della sua energia. Non il potere soprannaturale, ma soltanto lui, Richard. O no? Forse gran parte del suo fascino derivava dal suo lato bestiale. Chinò la testa a fissarmi, abbastanza vicino da toccarmi, ma senza farlo. «Stavo diventando pazzo mentre ti aspettavo, così mi è venuta l'idea di prepararti una cena romantica, ma è stata una stupidaggine. Non sei costretta a mangiare. Comunque, cucinare mi ha impedito di correre al Guilty Pleasures per difendere il tuo onore.» Mi fece sorridere. «Accidenti a te! Non riesco neanche a tenerti il broncio. Riesci sempre a mettermi di buonumore...» «Ed è una brutta cosa?» Risi. «Sì! Mi piace essere di malumore, grazie!» Mi sfiorò le spalle con le dita, poi cominciò a massaggiarmi i muscoli. Allora mi scostai. «Non farlo, per favore.» Così, la scena d'intimità domestica fu rovinata, e per colpa mia. Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. «Mi dispiace...» ripeté, e non credo che si riferisse di nuovo alla cena. Sospirò profondamente, quindi annuì. «Non sei obbligata a mangiare neanche un boccone.» Se stavamo fingendo tutti e due che si stesse riferendo alla cena, mi andava benissimo. «Se ti dicessi che non ho per niente fame, ti arrabbieresti?» «Ho preparato la cena per sentirmi meglio. Se ti disturba, non mangia-
re.» «Mi berrò una tazza di caffè guardandoti mangiare.» Sorrise. «Affare fatto.» Poi rimase in piedi a osservarmi, triste, smarrito. Se si ama qualcuno, non bisogna avvilirlo o deprimerlo. È una regola, o dovrebbe esserlo. «Ti sei sciolto i capelli.» «È così che ti piacciono.» «E quello è uno dei miei maglioni preferiti.» «Davvero?» La sua voce aveva una sfumatura allegramente dispettosa. Potevo riportare la serenità e fare in modo che trascorressimo una bella serata rilassante. Dipendeva tutto da me. Guardando nei suoi grandi occhi marroni, lo desiderai davvero. Tuttavia non potevo mentirgli, perché sarebbe stato più che crudele. «È imbarazzante...» «Lo so. Mi dispiace.» «Piantala di scusarti. Non è colpa tua. È colpa mia.» Scosse la testa. «Non puoi ignorare i tuoi sentimenti.» «Il mio primo impulso è stato quello di scappare a gambe levate, Richard. Basta frequentarti, basta con le lunghe conversazioni, basta toccarsi. Fine.» «Se è quello che vuoi...» Pronunciò quelle parole con voce strozzata, come se gli costasse parecchio. «Quello che voglio, sei tu. Semplicemente, non so se posso accettare tutto quello che sei...» «Non avrei dovuto chiedertelo adesso. Dovevo aspettare che vedessi quello che sono realmente...» «Ho visto Marcus e il resto della banda.» «Ma non è la stessa cosa che assistere alla mia trasformazione mentre siamo insieme, giusto?» Inspirai profondamente, espirai lentamente. «Giusto.» «Se c'è qualcun altro che puoi chiamare perché rimanga qui con te stanotte, me ne vado subito. Hai detto che hai bisogno di tempo, e io mi sono praticamente installato in casa tua. Ti sto forzando la mano.» «Infatti...» «Ho paura di perderti.» «Forzarmi la mano non servirà.» «Lo so...» Rimasi a fissarlo in silenzio nell'appartamento buio, illuminato soltanto
dalla luce della cucina. Avrebbe potuto, anzi avrebbe dovuto, essere molto intimo. Avevo sempre detto a tutti che la licantropia era soltanto una malattia, e che discriminare chi ne era affetto era immorale, oltre che illegale. Non nutrivo il minimo pregiudizio, o, almeno, così raccontavo a me stessa. Ma, fissando dal basso il bel volto di Richard, sapevo che non era vero. Avevo pregiudizi, eccome, e si trattava di pregiudizi nei confronti dei mostri. Potevo anche frequentarli, tuttavia le mie migliori amiche, Ronnie e Catherine, erano umane. Dunque, coi mostri potevo instaurare un rapporto, ma non intimo. Era davvero quello che pensavo? Quello che ero? Mi avvicinai. «Abbracciami. Abbracciami soltanto...» Mi avvolse con le braccia, e io gli cinsi la vita, premendo il viso sul suo petto. Sentivo le sue pulsazioni rapide e vigorose, lo stringevo, ascoltavo il battito del suo cuore, respiravo il suo calore. Per un attimo mi sentii al sicuro, come mi ero sentita prima che morisse mia madre. Era quella convinzione infantile di essere immuni da qualunque sofferenza quando si è stretti nelle braccia di mamma e papà, quella fede assoluta che loro siano capaci di sistemare tutto. Proprio fra le braccia di Richard, talvolta, per qualche istante fugace, rivivevo quella sensazione, anche se sapevo che era falsa, ingannevole. Dopotutto era sempre stata falsa, anche la prima volta, come aveva dimostrato la morte di mia madre. Fui la prima a sciogliermi dall'abbraccio, senza che lui cercasse di trattenermi o di parlare. Se avesse espresso anche remotamente una qualche comprensione, mi sarei messa a piangere. Invece non potevo permettermelo, perché dovevo tornare a faccende più concrete e immediate. «Non mi hai chiesto com'è andata con Jean-Claude.» «Ti sei quasi arrabbiata con me, quando sei entrata, così ho pensato che non era il caso di farti delle domande.» Aveva già preparato il caffè, e ciò gli faceva guadagnare almeno due grossi punti. «Non ero arrabbiata con te...» Versai il caffè nella mia tazza, su cui era raffigurato un giovane pinguino. Era la mia preferita, nonostante quelle che tenevo al lavoro. «Invece lo eri.» «Vuoi un po' di caffè?» «Lo sai che non mi piace.» Come si fa ad avere fiducia in un uomo cui non piace il caffè? «Continuo sempre a sperare che tu rinsavisca...» Cominciò a servirsi la cena. «Sei sicura di non voler mangiare proprio niente?»
«Sì, grazie.» La vista di quei pezzettini di carne in salsa scura mi diede la nausea. Avevo cenato anche a ore più tarde, con Edward, ma quella notte il cibo non mi andava proprio per niente. Forse c'entrava qualcosa il fatto che una vampira mi aveva fatto sbattere la testa sul cemento. Mi accomodai sopra una sedia, con un ginocchio raccolto contro il petto. Il caffè era viennese alla cannella, il mio preferito, insuperabile con zucchero e panna. Richard sedette di fronte a me, poi chinò la testa e ringraziò per il cibo. Ho già accennato al fatto che era episcopale? A parte il lato mannaro, era davvero perfetto per me. «Dimmi com'è andata con Jean-Claude, per favore.» Sorseggiando il caffè, cercai di escogitare una versione abbreviata dell'accaduto. Okay, una versione abbreviata che non disturbasse Richard... Okay, forse semplicemente la verità... «A dire il vero, ha preso la notizia meglio di quanto mi aspettassi.» Richard alzò lo sguardo, bloccandosi con le posate a mezz'aria. «L'ha presa bene?» «Non ho detto questo. Diciamo che non è uscito sfondando una parete per precipitarsi a ucciderti.» Richard annuì e sorseggiò l'acqua. «Ha minacciato di uccidermi?» «Oh, sì... Comunque, sembrava quasi che lo avesse previsto. Non ne è stato contento, però non ne è neppure rimasto sorpreso.» «Cercherà di uccidermi o no?» chiese Richard con calma estrema, mangiando carne e salsa. «No.» «Perché no?» Bella domanda. Mi chiesi come avrebbe reagito alla risposta. «Vuole uscire con me.» Richard smise di mangiare e rimase a fissarmi per un po', prima di essere di nuovo in grado di parlare. «Lui... cosa?» «Vuole avere la possibilità di corteggiarmi. Dice che, se non riuscirà a conquistarmi in pochi mesi, rinuncerà, e ci lascerà andare verso il matrimonio senza più interferire.» Richard si addossò allo schienale della sedia. «E tu gli credi?» «Jean-Claude pensa di essere irresistibile. Credo sia convinto che cambierò idea, se soltanto gli permetterò di esercitare su di me il suo fascino.» «E tu cambierai idea?» chiese Richard, in tono molto pacato. «No, penso di no», risposi, e non fu certo un'assicurazione entusiasman-
te. «So che sei sessualmente attratta da lui... Lo ami?» Sembrava un déjà-vu. «In una regione recondita, tenebrosa e perversa del mio cuore, sì. Ma non nello stesso modo in cui amo te.» «Qual è la differenza?» «Senti, mi stai facendo le stesse domande di Jean-Claude. Io amo te. Mi ci vedi a metter su casa col Master della Città?» «Ti ci vedi a metter su casa con un lupo mannaro Alfa?» In effetti... Lo fissai e sospirai. Era insistente, ma non potevo certo biasimarlo. Se fossi stata al suo posto, mi sarei scaricata. Se non lo amavo abbastanza per accettare tutto quello che era, allora perché continuare? Però non volevo che mi scaricasse. Volevo rimanere così, indecisa, ma senza perderlo. Quando si dice volere tutto... Mi appoggiai al tavolo e protesi una mano. Lui, dopo un momento, la prese. «Non voglio perderti.» «Non mi perderai. Sei molto più tollerante di quanto sarei io al tuo posto.» Non sorrise. «Lo so.» Avrei voluto ribattere, ma la verità non si discute. «Sarei molto più decisa e disponibile, se potessi...» «Capisco che tu abbia riserve sul matrimonio con un lupo mannaro. Chi non ne avrebbe? Ma Jean-Claude...» Scosse la testa. Gli strinsi la mano. «Richard, non si può fare di più, al momento. JeanClaude non cercherà di ammazzare nessuno di noi due, e comunque potremo continuare a frequentarci.» «Non mi piace che tu sia costretta a uscire con lui.» Mi accarezzò le nocche. «E mi piace ancor meno pensare che ti divertirà. In quella recondita e tenebrosa regione di te stessa, ti divertirai parecchio.» Avrei voluto negarlo, ma sarebbe stata una menzogna totale. «Riesci a intuire se mento?» «Sì.» «Allora sarà intrigante e terrificante.» «Ti voglio sana e salva, quindi il lato terrificante mi preoccupa, ma ancor più mi preoccupa quello intrigante...» «Geloso?» «Preoccupato.» Cosa avrei potuto rispondere? Lo ero anch'io.
28 Il telefono squillò. Cercandolo a tastoni, non trovai nulla. Sollevai la testa, scoprendo che sul comodino non c'era niente. Il telefono era sparito, e aveva persino smesso di squillare. La radio sveglia era ancora lì, brillante di luce rossa, e segnava la 1:03. Rimasi sollevata su un gomito a fissare il vuoto battendo le palpebre. Stavo forse sognando? E perché mai avrei dovuto sognare che qualcuno mi aveva rubato il telefono? La porta della camera da letto si aprì e Richard si stagliò nella luce, sulla soglia. Allora mi ricordai che aveva spostato il telefono in soggiorno perché non mi disturbasse, e io glielo avevo permesso, dato che aveva l'incarico di svegliarmi ogni ora. Quando non si può dormire per più di un'ora di seguito, persino una breve telefonata può rovinare tutto. «Chi è?» «Il sergente Rudolph Storr. Gli ho chiesto di aspettare fino a quando fosse ora di svegliarti, ma lui ha insistito.» Lo immaginavo. «Va bene.» «Aspettare un quarto d'ora lo avrebbe ucciso?» Mi girai, sfilando le gambe dalle coperte. «Dolph sta indagando su un caso di omicidio, Richard, e la pazienza non è certo la sua arma migliore.» Richard incrociò le braccia, appoggiandosi allo stipite, mentre la luce del soggiorno disegnava ombre nette sul suo viso e riquadri d'ombra sul maglione arancione. Tutta la sua persona emanava disappunto. Sorrisi, e nel passargli davanti gli accarezzai un braccio. A quanto pareva, avevo trovato un lupo da guardia! Il telefono era posato a terra, vicino all'ingresso. Sedetti sul pavimento, addossandomi alla parete, e raccolsi il ricevitore. «Dolph, sono io. Che succede?» «Chi è questo Richard Zeeman che risponde al tuo telefono nel cuore della notte?» Chiusi gli occhi. La testa mi doleva e il viso pure, senza contare che non avevo certo dormito molto. «Non sei mica mio padre, Dolph... Che succede?» Un momento di silenzio. «Siamo sulla difensiva, eh?» «Vogliamo litigare?» «No.» «Hai chiamato soltanto per informarti sulla mia vita privata, oppure avevi un motivo valido per svegliarmi?» Non si trattava di un altro omicidio,
visto che Dolph era troppo allegro, quindi mi chiedevo perché non aveva aspettato qualche ora. «Abbiamo scoperto qualcosa.» «Ovvero?» «Preferirei che venissi a vedere di persona...» «Dimmi soltanto di che si tratta.» Un altro silenzio. Finalmente si decise. «Abbiamo trovato una pelle.» «Che tipo di pelle?» «Se sapessimo già che cosa diavolo è, credi che ti avrei chiamata all'una del mattino?» Sembrava arrabbiato, e non potevo biasimarlo, suppongo. «Scusa, Dolph. Mi dispiace di essere stata sgarbata.» «Benissimo.» Non aveva esattamente accettato le mie scuse, ma... «C'è una connessione con l'omicidio?» «Non credo, però io non sono un grande esperto del soprannaturale.» Sembrava ancora irritato, forse perché neppure lui aveva dormito molto, anche se avrei scommesso che nessun vampiro gli aveva fatto sbattere la testa su qualche marciapiede. «Dove sei?» Mi diede l'indirizzo di un posto nella Jefferson County, parecchio lontano dalla scena dell'omicidio. «Quando pensi di arrivare?» «Non posso guidare.» «Cosa?» «Ordine del medico. Non posso sedermi al volante, almeno per stanotte.» «Sei ferita gravemente?» «Non troppo, ma il medico vuole che mi svegli ogni ora e che non guidi.» «Ecco perché Mr. Zeeman è da te...» «Già.» «Se non sei in condizione di muoverti, la pelle può aspettare.» «È ancora dove l'avete trovata? Nessuna contaminazione?» «No.» «Parto subito. Chissà? Potrebbe anche esserci qualche indizio...» Lasciò perdere. «Quando pensi di arrivare?» Guardai Richard. Avrebbe potuto accompagnarmi lui, ma per qualche ragione non mi sembrò una buona idea. Tanto per cominciare, era un civi-
le, poi era anche un licantropo, soggetto all'autorità di Marcus, e fino a un certo punto anche a quella di Jean-Claude. Non era la persona più adatta a essere coinvolta in un'indagine su un omicidio soprannaturale. Comunque, anche se fosse stato umano, non era il caso. Insomma, niente da fare. «Se non puoi mandarmi un'auto della squadra, credo che dovrò prendere un taxi.» «Zerbrowski non ha risposto alla prima chiamata e vive a St. Peters, perciò dovrà passare comunque dalle tue parti. Verrà a prenderti lui.» «È okay per lui?» «Lo sarà.» Grande, intrappolata in una macchina con Zerbrowski... «Benissimo. Mi vesto e lo aspetto.» «Non sei vestita?» «Non provocarmi, Dolph.» «Suscettibile, davvero suscettibile!» «Piantala.» Rise, e sentirlo ridere fu un piacere, perché significava che per quella volta non era morta molta gente. Dolph non rideva granché durante le indagini sui serial killer. Riagganciò. «Devi uscire?» chiese Richard. «Già.» «Te la senti?» «Sì.» «Anita...» Appoggiai la testa alla parete e chiusi gli occhi. «Ti prego, Richard. Devo andare.» «Senza discussioni?» «Senza discussioni.» Aprii gli occhi e lo guardai. Mi fissava dall'alto, con le braccia conserte. «Che c'è?» Scosse la testa. «A parti invertite, ti arrabbieresti.» «Niente affatto.» «Anita!» Pronunciò il mio nome proprio come faceva mio padre. «Non lo farei, se tu avessi buoni motivi.» «T'incazzeresti, e lo sai.» Avrei voluto negarlo, ma non ci riuscii. «E va bene, hai ragione. Mi darebbe fastidio.» Lo fissai. Dovevo spiegargli perché stavo per uscire a fare
il mio lavoro, e non era per niente una bella prospettiva. Mi alzai. Di solito non ero tenuta a spiegare a nessuno le mie azioni, ma, se volevo fare sul serio con la faccenda del matrimonio, dovevo cambiare abitudini, e non mi piaceva granché. Dopotutto, la sua licantropia non era l'unico ostacolo alla nostra felicità. «È una faccenda di polizia, Richard. Dal mio lavoro può dipendere la vita di molte persone.» «Credevo che il tuo lavoro fosse quello di resuscitare gli zombie e di eliminare i vampiri.» «Sembri Bert.» «Mi hai parlato abbastanza di Bert da prenderlo come un insulto.» «Se non vuoi paragoni, piantala d'imitarlo.» Gli passai davanti per tornare in camera da letto. «Devo vestirmi.» Mi seguì. «So che aiutare la polizia è molto importante per te...» Mi girai a fronteggiarlo. «Non mi limito ad aiutare la polizia, Richard. La Spook Squad esiste soltanto da poco più di due anni e gli sbirri che la compongono non sanno un bel niente delle creature soprannaturali. È un incarico punitivo. Se fanno incazzare i loro superiori per qualche motivo, li sbattono nella squadra.» «Giornali e televisione dicono che è una task force indipendente, come le più prestigiose, e che farne parte è un onore.» «Oh, sicuro! La squadra è quasi priva di finanziamenti extra e non riceve nessun addestramento speciale per affrontare le creature o gli eventi soprannaturali. Dolph, cioè il sergente Storr, lesse di me sui giornali e contattò Bert, perché pensò che avrei potuto collaborare come consulente.» «Sei molto più di una consulente.» «Sì, è vero.» In realtà, fino a poco tempo prima, Dolph non aveva l'abitudine di chiamarmi subito. Però, l'estate precedente la squadra aveva indagato su quello che era sembrato un caso evidente: necrofagi che erano diventati un po' troppo audaci e avevano cominciato ad aggredire le coppiette che si appartavano nei pressi del loro cimitero. I necrofagi sono vigliacchi e non attaccano mai chi è in grado di difendersi, però ci sono pur sempre le eccezioni alla regola, con tutto quello che ne consegue. Quando Dolph mi aveva chiamata, erano già morte sei persone, ma non erano stati i necrofagi a ucciderle. Così, da qualche tempo, Dolph mi interpellava prima che la situazione diventasse troppo sanguinosa, perché talvolta ero in grado di diagnosticare tempestivamente un problema, evitando che sfuggisse di mano.
Tuttavia, non potevo spiegare tutto ciò a Richard. Anche se era un lupo mannaro, prima di tutto era un civile, quindi non era affar suo. «Ascolta... Non ho il tempo di spiegarti, ma devo andare, perché potrebbe servire a prevenire situazioni più gravi, come un altro omicidio. Capisci?» Lui sembrava perplesso, ma la sua risposta non lo fu. «A dire il vero, no, ma forse non è necessario che io capisca. Forse mi basta sapere che è importante per te.» Sospirai profondamente. «Bene. Adesso, però, devo prepararmi. Sta per arrivare Zerbrowski, il detective che mi darà un passaggio.» Saggiamente, Richard si limitò ad annuire. Entrai in camera da letto e fui ben contenta di chiudere la porta. Quelle discussioni sarebbero diventate consuete, se ci fossimo sposati? Avrei dovuto spiegare sempre tutto quello che facevo? Mio Dio... Speravo proprio di no. Indossai un altro paio di jeans neri e una felpa rossa col cappuccio, così morbida che mi fece sentire subito meglio. Però la fondina ascellare della Browning appariva molto fosca e drammatica sul rosso, che per giunta faceva risaltare le escoriazioni che avevo sul viso. Forse mi sarei cambiata, se non avesse suonato il campanello. Era Zerbrowski. Mentre mi guardavo allo specchio, Richard andò a riceverlo, e ciò bastò per farmi correre alla porta. Zerbrowski era appena oltre la soglia, con le mani nelle tasche del cappotto. Si era fatto tagliare da poco i capelli ricci, neri e un po' brizzolati, e li aveva persino spalmati di gel, mentre di solito era fortunato se si ricordava di pettinarsi. Il cappotto aperto lasciava intravedere un completo nero e severo, la cravatta era di buon gusto e perfettamente annodata. Un'occhiata mi confermò che, come avevo immaginato, aveva persino le scarpe lustre e scintillanti. Eppure non lo avevo mai visto senza qualche macchia d'unto sui vestiti. «Come mai tanto elegante?» chiesi. «Come mai tanto sciatta?» sorrise lui. Arrossii, e mi diede molto fastidio, visto che non ne avevo motivo. «Va bene, andiamo.» Presi il trench dallo schienale del divano e sentii il sangue essiccato. Accidenti! «Devo prendere un soprabito pulito. Torno subito.» «Intanto faccio due chiacchiere con Mr. Zeeman.» Benché la prospettiva mi spaventasse, andai a prendere la giacca di pel-
le. Se avessimo finito per fidanzarci, Richard avrebbe dovuto conoscere Zerbrowski, prima o poi, anche se avrei preferito poi. «Che cosa fa per vivere, Mr. Zeeman?» «Sono un insegnante.» «Oh... Davvero?» Persi il resto della conversazione per passare in camera da letto e strappare la giacca dall'armadio. Quando tornai in soggiorno, stavano chiacchierando come due vecchi amici. «Sì, Anita è la nostra esperta di soprannaturale. Non sapremmo come fare senza di lei.» «Sono pronta.» Passai davanti a tutti e due, aprii la porta e mi feci da parte per lasciar uscire Zerbrowski. Lui mi sorrise. «Da quanto tempo vi frequentate?» Richard mi guardò e, dato che era molto bravo a capire quando mi sentivo a disagio, lasciò che rispondessi io. Bravo, troppo bravo. Se soltanto mi avesse lasciato una scusa per dire no! Non ne valeva la pena, però bisognava riconoscere che si stava impegnando un sacco per farmi contenta, e non era un compito facile. «Da novembre», risposi. «Un mese e mezzo... Non male! Katie e io eravamo già fidanzati, un mese e mezzo dopo il nostro primo appuntamento.» Gli scintillavano gli occhi e aveva un sorriso beffardo. Si burlava di me, senza rendersi conto che rischiava di pentirsene amaramente. Richard mi guardò per un lungo momento, seriamente. «A dire la verità, un mese e mezzo non è poi molto.» Mi aveva lasciato una via d'uscita che non meritavo. «È abbastanza, se si trova la persona giusta», sorrise Zerbrowski. Non aveva nessuna intenzione di lasciarsi mettere fretta, nonostante i miei tentativi. La mia unica speranza era che Dolph lo chiamasse di nuovo. Ma Dolph non chiamò, Zerbrowski mi sorrise e Richard mi guardò, coi grandi occhi marroni profondi e feriti. Avrei voluto prendere il suo viso fra le mani e cancellare quella sofferenza dal suo sguardo. Era lui il tipo giusto... probabilmente. «Devo andare.» «Lo so», disse lui. Lanciai un'occhiata a Zerbrowski, che ci sorrideva godendosi lo spettacolo. Dovevo salutarlo con un bacio anche se non eravamo più fidanzati? Il fidanzamento più breve della storia! Però ci frequentavamo, e io lo amavo
ancora, quindi si meritava almeno un bacio. Quando lo afferrai per il maglione, obbligandolo ad abbassarsi, parve sorpreso. «Non devi farlo soltanto per le apparenze», sussurrò. «Zitto e baciami.» Mi guadagnai un sorriso. Ogni bacio era ancora un gradevolissimo shock. Nessun altro aveva labbra altrettanto morbide e un sapore così buono. Non appena i suoi capelli caddero in avanti, ne afferrai una ciocca per schiacciare il suo viso contro il mio, e lui infilò le mani sotto la giacca di pelle per accarezzarmi la schiena stropicciando il maglione. Lo respinsi, senza fiato, e senza più nessuna voglia di andarmene. Ma forse era un bene che dovessi farlo, visto che lui sarebbe rimasto per tutta la notte. Licantropo o no, ero decisa a non fare sesso prima del matrimonio. D'altronde la carne era di tutt'altro parere, e non ero affatto sicura che lo spirito fosse in grado di contrastarla vittoriosamente. L'espressione negli occhi di Richard, così profondi da annegarcisi, valeva più di qualsiasi altra cosa al mondo. Cercai di nascondere un sorriso piuttosto sciocco, ma mi resi conto che era ormai troppo tardi. Sapevo che fra non molto, in macchina, Zerbrowski me l'avrebbe fatta pagare cara. Guardando Richard, però, non me ne importava. Alla fine avremmo risolto tutto. Sicuramente ce l'avremmo fatta. «Quando dirò a Dolph che siamo in ritardo perché ti sei persa a sbaciucchiarti con un tizio...» Non ingoiai l'esca. «Credo che farò tardi, quindi se vuoi andare a casa...» dissi a Richard. «Ti ho portato la Jeep, ricordi? Non posso tornare a casa.» Oh... «Benissimo. Farò il prima possibile.» Annuì. «Ti aspetto.» Uscii in corridoio senza più sorridere, perché l'idea di trovare Richard in casa al mio ritorno mi lasciava un po' perplessa. Come avrei mai potuto prendere una vera decisione, se lui avesse continuato a starmi intorno, scombussolandomi gli ormoni? Zerbrowski ridacchiò. «Adesso le ho proprio viste tutte, Blake! La grande cacciatrice di vampiri è innamorata!» Scossi la testa. «Immagino che sarebbe inutile chiederti un po' di discrezione.» «Così prenderti in giro sarà ancora più divertente!» «Che tu sia dannato, Zerbrowski.»
«Prima non ho detto niente, perché il tuo spasimante mi sembrava piuttosto teso, ma adesso che siamo soli... Che cosa diavolo ti è successo? Sembra che ti abbiano ritoccato il viso a colpi di mannaia.» In verità, sapevo che non era così, dato che una volta mi era capitato di vedere qualcosa del genere, e il risultato era di gran lunga peggiore. «È una storia lunga. A proposito di segreti, come mai tanta eleganza?» «Decimo anniversario di matrimonio.» «Stai scherzando?» Scosse la testa. «Congratulazioni», dissi, mentre continuavamo a scendere rumorosamente le scale. «Grazie. Abbiamo preso una baby-sitter e mia moglie mi ha costretto a lasciare a casa il cercapersone.» L'impatto del freddo sulle ferite aumentò notevolmente la mia emicrania. «La macchina è aperta», disse Zerbrowski. «Sei uno sbirro! Come fai a lasciare la macchina aperta?» Spalancata la portiera, rimasi paralizzata alla vista del sedile e della pedana dalla parte del passeggero ingombri di sacchetti di McDonald's e giornali ammucchiati alla rinfusa, con una fetta di pizza ormai pietrificata e una folla di lattine. «Cristo, Zerbrowski! L'agenzia per la difesa ambientale sa che trasporti una discarica ambulante di rifiuti tossici attraverso zone densamente popolate?» «Adesso hai capito perché non chiudo la macchina... Chi vuoi che la rubi?» Si curvò nell'abitacolo per trasferire mucchi di rifiuti sul sedile posteriore, come se non fosse la prima volta. Spazzai le briciole sulla pedana, poi, quando il sedile fu pulito, almeno per quanto era possibile, mi sedetti. Zerbrowski si mise alla guida e avviò il motore, che cominciò a tossire. Mentre mi mettevo la cintura di sicurezza, uscì dal parcheggio. «Che ne pensa Katie del tuo lavoro?» chiesi. Zerbrowski mi lanciò un'occhiata. «È okay per lei.» «Eri già uno sbirro quando l'hai conosciuta?» «Sapeva che cosa aspettarsi. Il tuo spasimante non voleva che tu uscissi, stanotte?» «Credeva che non fossi in condizione di farlo.» «Hai un aspetto di merda.» «Grazie.» «Ci amano, vogliono che siamo prudenti. Quel ragazzo è un insegnante
delle medie! Che ne sa della violenza?» «Più di quanto vorrebbe.» «Lo so, lo so... Le scuole sono posti pericolosi, al giorno d'oggi. Ma non è la stessa cosa. Noi giriamo armati. Diavolo, Blake! Tu ammazzi i vampiri e resusciti i morti! Come potrebbe essere peggio di così?» «Lo so», replicai, anche se non era così, perché essere licantropi era anche peggio. «No, non credo che tu lo sappia, Blake. Amare qualcuno che vive sempre in mezzo alla violenza non è mica facile. È già un miracolo che ci sia qualcuno che ci vuole, quindi non spaventarti.» «Ho forse detto che sono spaventata?» «Non l'hai detto, ma si vede.» «Lasciamo perdere.» «Come vuoi. Dolph sarà entusiasta quando saprà che hai deciso di allacciare il cappio... Ehm, il nodo...» Mi rannicchiai sul sedile, per quanto la cintura di sicurezza me lo permetteva. «Non ho mica deciso di sposarmi.» «Non ancora, forse, ma so riconoscere l'espressione tipica, Blake. Sei una donna che annega, e l'unica via di salvezza è la chiesa.» Avrei voluto ribattere, ma ero troppo confusa. Una parte di me credeva a Zerbrowski, mentre un'altra voleva smetterla di frequentare Richard e tornare alla sicurezza della vecchia vita. È vero, non era stata esattamente una vita sicura, prima, con Jean-Claude sempre intorno, ma almeno non ero fidanzata. Be', naturalmente, non lo ero neanche adesso... «Tutto okay, Blake?» Sospirai. «Vivo sola da parecchio tempo, e sono ormai affezionata alle mie vecchie abitudini.» Senza contare che Richard era un lupo mannaro, ma quello non lo dissi, anche se avrei voluto, perché avevo bisogno di sentire l'opinione di qualcun altro. D'altronde, un poliziotto, e soprattutto Zerbrowski, non era certo la persona più adatta. «Ti sta addosso?» «Sì.» «Vuole il matrimonio, i figli, e tutto il resto?» Figli... Nessuno ne aveva parlato. Richard immaginava forse una tranquilla vita domestica in una bella casetta, con lui in cucina, io al lavoro e qualche marmocchio intorno? Oh, dannazione! Avremmo dovuto sederci a discuterne seriamente. Se fossimo riusciti a fidanzarci come gente normale, che cosa avrebbe significato? Era mai possibile che Richard volesse
figli? Io, di sicuro, non ne volevo. E dove avremmo vissuto? Il mio appartamento era troppo piccolo. A casa sua? Non ero sicura che l'idea mi piacesse, visto che era casa sua. Non avremmo dovuto avere una casa nostra? Figli, io? Incinta, io? Non in questa vita. Avevo pensato che la licantropia fosse il nostro problema più grosso, ma forse mi sbagliavo. 29 Il fiume turbinava nero e freddo, le rocce spuntavano come zanne gigantesche, la riva alle mie spalle era ripida e fitta di alberi, fra i quali la neve calpestata rivelava le foglie che coprivano il suolo. Sulla sponda opposta, una rupe s'innalzava sul fiume. Impossibile scendere là, a meno di non essere disposti a buttarsi, ma l'acqua era profonda meno di un metro e mezzo al centro del fiume, quindi saltare da una decina di metri non era una gran bella idea. A pochi centimetri dalle acque nere che scorrevano impetuose, mi fermai, con prudenza, sulla riva franosa dalla quale spuntavano le radici degli alberi. La neve, le foglie e la pendenza quasi verticale sembravano cospirare per spingermi in acqua, ma ero decisa a resistere. I sassi formavano una sorta di basso muro diroccato nel fiume, alcuni al pelo dell'acqua turbinosa. Quasi al centro, sopra un masso che spuntava di circa un metro, era drappeggiata la pelle. Ancora una volta Dolph aveva dimostrato di essere un maestro nell'attenuazione della verità. Una pelle non avrebbe dovuto essere più grande di una Toyota. Dato che la testa sembrava sistemata con cura, Dolph l'aveva lasciata in mezzo al fiume affinché la vedessi così, in caso avesse qualche significato rituale. I sommozzatori in attesa sulla riva indossavano mute stagne, che garantivano maggiore protezione dal freddo. Un sommozzatore di alta statura, che indossava già il cappuccio, stava accanto a Dolph, che lo aveva presentato come MacAdam. «Possiamo andare a prendere la pelle?» «Anita?» chiese Dolph. «Be', direi che è meglio che ci vadano loro, là...» risposi. «Non c'è pericolo?» chiese Dolph. Era una domanda diversa, che esigeva una risposta sincera. «Non ne sono certa.» MacAdam mi guardò. «Cosa potrebbe mai esserci? È soltanto una pelle, no?»
Scrollai le spalle. «Non sono sicura di che tipo di pelle sia...» «E allora?» «E allora... Ricorda il Mago Pazzo degli anni '70?» «Non credevo che lei lo conoscesse», disse MacAdam. «L'ho studiato al college, al corso di terrorismo magico. Il Mago era specializzato nel lasciare trappole esplosive in luoghi impervi. Una delle sue preferite era una pelle animale che si attaccava a chiunque la toccasse per primo. Ci voleva una strega per toglierla.» «Era pericolosa?» chiese MacAdam. «Se si attaccava al viso, uccideva per soffocamento.» «E come diavolo faceva ad attaccarsi al viso?» «Difficile chiederlo ai morti. Negli anni '70 la professione del risvegliante non esisteva ancora.» MacAdam si girò a guardare il fiume. «Okay... Come si fa a scoprire se è pericolosa?» «Nessuno è ancora entrato in acqua?» Col pollice, MacAdam indicò Dolph. «Lui non ce lo ha permesso, e lo sceriffo Titus ha detto di lasciare tutto come stava per una grande esperta di mostri.» Mi squadrò dalla testa ai piedi. «È lei?» «Sono io.» «Be', faccia il suo lavoro, così i miei ragazzi e io potremo fare il nostro.» «Vuoi accendere il riflettore, adesso?» chiese Dolph. Avevano illuminato il fiume come a una prima teatrale, ma io, dopo una prima occhiata, avevo detto di spegnere tutto. Per certe cose c'è bisogno di luce, ma altre si vedono meglio nell'oscurità. «Non ancora. Prima lasciami guardare al buio.» «Perché niente luce?» «Ci sono cose che sfuggono alla luce, Dolph, ma che possono azzannare i sommozzatori.» «Sta dicendo sul serio?» domandò MacAdam. «Non le piace l'idea, eh?» Mi scrutò per un lungo momento, poi annuì. «Ma come farà a guardarla più da vicino? L'acqua è fredda senza muta.» «Camminerò sui sassi. Magari immergerò una mano per vedere se qualcosa abbocca all'esca, ma cercherò di bagnarmi il meno possibile.» «Vedo che i mostri li prende sul serio. Be', io prendo sul serio l'acqua, e le assicuro che con questo freddo si va in ipotermia in meno di cinque minuti, quindi cerchi di non cadere.»
«Grazie del consiglio.» «Si bagnerà», sentenziò Aikensen, che stava proprio sopra di me, appoggiato a un albero, col suo cappello Smokey Bear ben calcato sulla testa e col folto colletto di lana sollevato fino al mento. Nonostante quello, aveva ancora le orecchie e gran parte della faccia esposte al freddo, e io mi auguravo che si beccasse un bel raffredore. Si mise la torcia accesa sotto il mento, come in uno scherzo di Halloween, e sorrise. «Non abbiamo toccato niente, Miss Blake.» Non lo corressi a proposito del «Miss», visto che lo aveva usato soltanto per irritarmi. Il sorriso da Halloween scomparve e la fronte si corrugò alla luce della torcia. Evidentemente la mia apparente noncuranza lo aveva irritato. Bene. «Che c'è, Aikensen? Non volevi bagnarti i piedini delicati?» Si scostò dall'albero, ma troppo bruscamente. Scivolò giù per la riva, agitando le braccia nel tentativo di rallentare la caduta, ma finì sul sedere e continuò a scivolare, dritto verso di me. Mi spostai lateralmente di un passo e, sentendo franare la riva, saltai nel fiume, sul sasso più vicino, al quale mi aggrappai, quasi carponi, per non cadere in acqua. La roccia era bagnata, viscida e così fredda da gelare le ossa. Aikensen finì nel fiume con un grido e si immerse fin quasi al petto nella turbinosa acqua gelida, percuotendola con le mani guantate come per punirla, ma col risultato di bagnarsi ancora di più. La pelle non scivolò giù dalla roccia per avvolgerlo. Nulla lo afferrò. Nell'aria non percepii niente di magico. Sentii soltanto il freddo e il fragore del fiume. «Suppongo che non ci sia niente in procinto di divorarlo», suggerì MacAdam. «Direi di no», confermai, cercando di nascondere la delusione. «Aikensen! Esci dall'acqua!» tuonò Titus dalla stradina sul ciglio della riva, dov'era rimasto con quasi tutti gli altri poliziotti e due ambulanze. Da quando la legge di Gaia era entrata in vigore, tre anni prima, doveva esserci sempre un'ambulanza se esisteva la possibilità che i resti ritrovati fossero umanoidi. Capitava che si chiamassero ambulanze a prelevare carogne di coyote come se fossero cadaveri di lupi mannari, benché la legge fosse stata emanata senza una copertura finanziaria adeguata. A quelli di Washington piaceva complicare le cose. Ci trovavamo dietro una casa estiva. Alcune di quelle residenze avevano
il pontile e persino la rimessa per la barca, se l'acqua era abbastanza profonda, ma in quel tratto sassoso avrebbe potuto passare al massimo una canoa, quindi non c'erano pontili, né rimesse. Soltanto l'acqua nera, fredda, e un vicesceriffo molto bagnato. «Aikensen! Porta il tuo culo su uno di quei sassi e aiuta Ms. Blake a uscire, visto che sei già bagnato!» «Non ho bisogno del suo aiuto!» gridai a Titus. «Be', Ms. Blake, questa è la nostra contea. Non vogliamo mica che lei sia divorata da qualche mostro, mentre noi ce ne stiamo quassù a riva, belli tranquilli...» Aikensen si alzò, ma subito scivolò sul fondo sabbioso, rischiando di cadere per la seconda volta. Si girò a lanciarmi un'occhiataccia, come se fosse tutta colpa mia, poi si arrampicò sulla roccia, dalla parte opposta. Aveva perso la torcia ed era tutto gocciolante, a parte il cappello Smokey Bear, che era riuscito a mantenere asciutto. Sembrava di pessimo umore. «Noto che questa volta si tiene in disparte, sceriffo», lo punzecchiai. Senza una parola, Titus cominciò a scendere, e se la cavò molto meglio di me, che mi ero spostata da un albero all'altro barcollando come un'ubriaca. Lui invece non ebbe quasi mai bisogno di aggrapparsi, anche se si tenne sempre pronto a farlo. Alla fine si fermò accanto a Dolph. «Delegare, Ms. Blake. È questo che ha reso grande il Paese.» «Che ne pensi, Aikensen?» dissi, a voce più bassa. Mi lanciò un'occhiataccia. «Il capo è lui.» Non ne sembrava molto contento, però ci credeva. «Falla finita, Anita», intervenne Dolph. Traduzione: smettila di rompere le balle. Volevano tutti tornarsene al caldo, e io non potevo certo biasimarli, visto che ero perfettamente d'accordo. Mi alzai con la massima prudenza sulla roccia scivolosa. L'acqua increspata rifletteva la luce della mia torcia come uno specchio nero, opaco e solido. Illuminai il primo sasso, pallido e luccicante d'acqua, nonché, probabilmente, di ghiaccio. Ci montai sopra, sempre con prudenza. Tutto okay anche al sasso successivo. Chi avrebbe mai pensato che le Nike Airs andassero bene anche per camminare sui sassi gelati? Non riuscivo a togliermi dalla testa l'avvertimento di MacAdam sull'ipotermia. Finire all'ospedale sarebbe stato proprio quello che mi ci voleva! Non avevo già abbastanza problemi, senza dover lottare anche con la natu-
ra? Fra i due sassi successivi c'era soltanto un passo, ma un po' troppo lungo per compierlo senza rischi. Stavo sopra una roccia quasi a pelo d'acqua, saldamente conficcata nel fondo. Quella su cui dovevo spostarmi era invece convessa e un po' appuntita da una parte. «Hai paura di bagnarti i piedi?» I denti bianchi di Aikensen lampeggiarono nell'oscurità, più come zanne snudate che come un sorriso. «Sei geloso perché io sono ancora asciutta e tu no?» «Posso farti bagnare io...» «Soltanto nei miei incubi.» Ero costretta a saltare, nella speranza che un miracolo d'equilibrio mi salvasse. Girai la testa a lanciare un'occhiata alla riva. Avrei potuto chiedere ai sommozzatori se avessero una muta per me, ma sarebbe sembrata una vigliaccata, con Aikensen che tremava di freddo. E poi, forse ce la potevo fare. Sì, forse... Indietreggiai fino al bordo del sasso su cui mi trovavo e, infine, saltai. Un attimo in aria, poi atterrai. Un piede scivolò, facendomi cadere carponi. Mi aggrappai al sasso con tutt'e due le mani e con un piede, ma l'altra gamba sprofondò fino alla coscia nell'acqua gelida. Il freddo mi strappò un'imprecazione. Mi arrampicai sul sasso, con una gamba dei jeans fradicia, consapevole di non aver toccato il fondo col piede. A giudicare dallo spettacolino che aveva dato Aikensen, l'acqua in quel tratto avrebbe dovuto arrivarmi alla cintola, invece c'era un punto più profondo. Era una fortuna che me la fossi cavata bagnandomi soltanto una gamba. Aikensen rideva di me. Se fosse stato un altro, chiunque altro, forse avrei riso con lui, visto che tutta quanta la situazione era ridicola. Ma si trattava di lui, e stava ridendo di me. «Se non altro, io non ho perso la torcia.» La battuta suonò infantile persino a me, ma lui smise di ridere. A volte, se ci si comporta in modo infantile, si ottiene quello che si vuole. Ormai ero vicina alla pelle, che sembrava ancora più impressionante. Già osservandola dalla riva avevo capito che era di un rettile, ma da vicino potei stabilire che si trattava di un serpente. Le scaglie più grandi avevano le dimensioni dei miei palmi, mentre i buchi degli occhi erano come palle da golf. Quando mi protesi per toccarla, qualcosa mi sfiorò il braccio. Urlai, prima di accorgermi che si trattava della pelle che ondeggiava sulla superficie dell'acqua. Non appena fui di nuovo in grado di respirare in modo normale, la toccai. Mi aspettavo che fosse sottile e leggera, come dopo la
muta, invece era spessa e pesante. Rovesciai il bordo e lo illuminai, scoprendo che il serpente non aveva mutato la pelle, bensì era stato scuoiato. Non ero in grado di stabilire se lo fosse stato da vivo, comunque ormai doveva essere morto, dato che pochissime creature sopravvivono dopo essere state scuoiate. Le scaglie e la forma della testa mi ricordavano un cobra, ma alla luce della torcia erano iridescenti come un arcobaleno o una chiazza d'olio. Il colore era indefinito, cangiante. «Hai intenzione di giocarci, oppure i sommozzatori possono venire a prenderla?» chiese Aikensen. Lo ignorai, perché in mezzo alla fronte, fra gli occhi, c'era qualcosa di liscio, rotondo e bianco. L'accarezzai, appurando che si trattava di una perla enorme. Che diavolo ci faceva una perla gigantesca conficcata nella testa di un serpente? E perché chi l'aveva scuoiato non l'aveva presa? Aikensen si sporse ad accarezzare la pelle. «Che schifo... Cosa diavolo è?» «Un serpente gigante.» Ritirò la mano di scatto, con un grido, e cominciò a strofinarsi le braccia come per eliminare la sensazione. «Paura dei serpenti, Aikensen?» Mi lanciò un'occhiataccia. «No!» Era una balla, e lo sapevamo tutti e due. «Vi state divertendo, voi due, su quella roccia?» gridò Titus. «Datevi una mossa!» «Riesci a capire qualcosa da com'è disposta la pelle, Anita?» chiese Dolph. «Non direi. Potrebbe essersi semplicemente impigliata alla roccia. Non credo che sia stata lasciata qua di proposito.» «Allora possiamo spostarla?» Annuii. «I sommozzatori possono tuffarsi. Aikensen ha già dimostrato che in acqua non ci sono predatori.» Aikensen mi guardò. «Che diavolo vuoi dire?» «Che avrebbe potuto esserci qualche mostro, in acqua, ma, dato che non sei stato aggredito, non c'è pericolo.» «Mi hai usato come esca...?» «Ci sei caduto tu, nel fiume.» «Ms. Blake dice che possiamo portare via quella cosa?» chiese Titus. «Sì», rispose Dolph.
«Andate, ragazzi.» I sommozzatori si scambiarono un'occhiata. «Possiamo usare il riflettore, adesso?» chiese MacAdam. «Sicuro», risposi. La luce mi colpì, costringendomi a sollevare una mano per proteggere gli occhi tanto bruscamente che rischiai di scivolare giù dalla roccia. Cristo, se era intensa! L'acqua appariva ancora opaca, nera, increspata, ma le rocce scintillavano, e d'improvviso Aikensen e io ci trovammo al centro della scena. La luminosità del riflettore cancellò ogni colore dalla pelle di serpente. MacAdam indossò la maschera e imboccò l'erogatore, imitato da uno soltanto degli altri sommozzatori. Suppongo che non fosse necessario immergersi in quattro per andare a prendere la pelle. «Perché si mettono le bombole, visto che per arrivare qui non avrebbero neanche bisogno di nuotare?» chiese Aikensen. «Per sicurezza, in caso la corrente li porti via o trovino un punto molto profondo.» «La corrente non è così tanto forte.» «Abbastanza per portare via la pelle. Se succedesse, potrebbero inseguirla ovunque, con le bombole.» «Sembra che tu lo sappia per esperienza.» «Ho il brevetto.» «Be', devo dire che sei proprio dotata...» I sommozzatori ci raggiunsero. Le bombole sporgevano dall'acqua come dorsi di balena. MacAdam sollevò la testa nascosta dalla maschera, si aggrappò alla roccia con una mano guantata e si tolse di bocca l'erogatore, poi, sempre tenendosi aggrappato, nuotò con le gambe per non essere catturato dalla corrente. L'altro sommozzatore si avvicinò ad Aikensen. «C'è qualche problema se strappiamo la pelle?» chiese MacAdam. «La stacco io, da questo lato.» «Si bagnerà il braccio...» «Ma sopravvivrò. Giusto?» Non riuscii a vedere la sua espressione, a causa del cappuccio e della maschera, ma avrei scommesso che si era accigliato. «Sopravvivrà...» Spostai la mano lungo la parte anteriore della pelle fino a toccare l'acqua. Esitai a causa del freddo, ma soltanto per un momento, e infine immersi il braccio fino alla spalla per liberare la pelle, toccando così qualcosa
di diverso, che era viscido e solido. Ritirai la mano di scatto, con un breve strillo, rischiando di cadere, ma recuperai subito l'equilibrio e impugnai la pistola. Ebbi soltanto il tempo di dire: «C'è qualcosa quaggiù...» prima che emergesse. Un essere dal viso rotondo, con una bocca strillante priva di labbra, sbucò dall'acqua e protese le mani verso MacAdam. Intravidi gli occhi scuri prima che scomparisse di nuovo sott'acqua. I sommozzatori tagliarono la corda come se fossero inseguiti dal demonio in persona, nuotando verso riva con bracciate vigorose. Nell'indietreggiare, Aikensen scivolò e cadde in acqua. Quando riemerse, sputacchiando, impugnava la pistola. «Non sparare!» ordinai, mentre la cosa riemergeva. La affiancai, ed essa strillò, protese una mano di forma umana, mi afferrò per la giacca e mi attirò a sé. Anche se impugnavo la pistola, non feci fuoco. Invece Aikensen mirò alla cosa, mentre dalla riva giungevano grida e altri sbirri accorrevano. Tuttavia non c'era tempo. Nel fiume c'eravamo soltanto Aikensen e io. La creatura si aggrappò a me senza più strillare, come se io fossi l'ultima cosa al mondo, e mi affondò nel petto la faccia senza orecchie. Puntai la pistola al petto di Aikensen. La minaccia sembrò attirare la sua attenzione. Batté le palpebre, mettendo a fuoco la vista su di me. «Che diavolo stai facendo?» «Puntala da qualche altra parte, Aikensen.» «Sono stanco di trovarmi a fissare la canna della tua pistola!» «Lo stesso vale per me.» Grida e movimenti di gente che accorreva, sempre più vicina. Ancora qualche secondo e sarebbe arrivato qualcuno a salvarci, ma era ormai troppo tardi. Una pallottola colpì l'acqua, abbastanza vicino ad Aikensen da spruzzarlo. Lui trasalì e fece fuoco, la creatura si spaventò, ma io mi stavo già tuffando verso le rocce, così rimase aggrappata a me come se fosse incollata. Ci trovammo a galleggiare vicino alla roccia più grande, intralciati dalla pelle di serpente, tuttavia riuscii a puntare la Browning contro Aikensen. L'eco della sua Magnum vibrava ancora nell'aria, con un riverbero che mi penetrava nelle ossa. Se Aikensen si fosse girato verso di noi, avrei fatto fuoco. «Dannazione, Aikensen! Metti via quella dannata pistola!» Sentendo
qualcuno che diguazzava pesantemente nel fiume pensai che fosse Titus, ma non me la sentii di distogliere lo sguardo da Aikensen, che invece non guardava me, bensì coloro che stavano arrivando. Il primo fu Dolph, che torreggiò su di lui come l'angelo della vendetta. «Puntami contro quella pistola e te la faccio mangiare», minacciò, con voce cupa ed echeggiante, che sentii distintamente anch'io, sebbene fossi ancora mezza assordata. «Se te la punta contro», dissi, «gli sparo.» «Nessuno gli spara, tranne me!» Arrivò anche Titus, che nell'acqua faticava più degli altri perché era più basso di tutti, esclusa me. Afferrò Aikensen per la cintura, lo spinse e gli strappò la pistola mentre cadeva di nuovo in acqua. Aikensen riemerse ansimante, sputacchiante, inferocito. «Perché diavolo lo ha fatto?» «Chiedilo a Ms. Blake, perché l'ho fatto! Chiedilo a lei!» Lo sceriffo era basso e fradicio, ma era comunque in grado d'intimorire il suo vice. «Perché?» chiese Aikensen. Abbassai la Browning, ma senza rinfoderarla. «Il guaio delle pistole di grosso calibro, Aikensen, è che trapassano parecchia carne.» «Cosa?» Titus lo spinse di nuovo, facendolo barcollare, ma lui riuscì a mantenere l'equilibrio. «Se tu avessi sparato alla creatura che le sta addosso, ragazzo, avresti ammazzato anche lei.» «Credevo che la stesse proteggendo! Ha detto di non sparare! Guardate!» Allora tutti si girarono a fissarmi. In appoggio sui sassi, mi alzai. La creatura era un peso morto, come se fosse svenuta aggrappata alla mia giacca. Rinfoderare la pistola mi fu molto più difficile di quanto lo fosse stato estrarla, per colpa del freddo, dell'adrenalina e della mano di un uomo sulla giacca, sopra la fondina. Quello che mi si era aggrappato, infatti, era un uomo. Un uomo che era stato scuoiato vivo, ma che per qualche ragione non era morto. Naturalmente, non era proprio umano. «È un uomo, Aikensen», riprese Titus. «Ed è ferito. Se non fossi stato tanto indaffarato a sfoderare la pistola e a sparare a tutto quello che si muoveva, forse lo avresti capito anche tu.» «È un naga», dissi. Titus sembrò non avere sentito. Dolph chiese: «Cos'hai detto?»
«È un naga.» «Chi?» chiese Titus. «Quest'uomo.» «E cosa diavolo è un naga?» «Tutti fuori dall'acqua, adesso!» gridò una voce dalla riva. Era un paramedico con una bracciata di coperte. «Forza, gente. Vediamo di non essere costretti a ricoverare tutti quanti in ospedale.» Non ne fui sicura, ma mi sembrò di sentirlo mormorare: «Dannati imbecilli...» «Che cosa diavolo è un naga?» chiese di nuovo Titus. «Glielo spiego se mi aiuta a portarlo a riva. Mi sto gelando, qua in acqua.» «Aiutatela», ordinò Titus. Due agenti in uniforme, che erano già entrati in acqua, mi si avvicinarono diguazzando e cercarono di prendere il naga, che però rimase aggrappato alla mia giacca con una stretta mortale. Gli palpai la gola per controllare la pulsazione, che era debole ma regolare. Il paramedico avvolse tutti quanti nelle coperte man mano che salivano a riva. Una sua collega, una bionda snella, fissò il naga, che nella luce del riflettore scintillava come una ferita aperta. «Che cosa diavolo gli è successo?» chiese un agente. «È stato scuoiato», risposi. «Cristo santo...» «Pensiero giusto, religione sbagliata.» «Come?» «Niente. Riuscite a fargli aprire le mani?» Ogni tentativo fu inutile, così lo trasportarono in due di peso, tirandosi dietro me, che li seguii barcollando. Nessuno cadde, e fu un secondo miracolo. Il primo era che Aikensen non era morto. Anzi, a guardare il corpo scuoiato e bluastro di quel poveraccio, forse si sarebbe potuto dire che il totale dei miracoli fosse superiore a due. La paramedica bionda s'inginocchiò accanto al naga ed emise un gran sospiro. L'altro avvolse nelle coperte me e i due agenti. «Non appena sarà riuscita a sbarazzarsi di questo coso, salga sull'ambulanza e si tolga quei vestiti fradici. Il prima possibile, mi raccomando.» Quando aprii la bocca per ribattere, mi minacciò con l'indice puntato. «O si toglie i vestiti e rimane seduta al caldo in ambulanza, oppure la portiamo in ospedale. Scelga lei.» «Sì, capitano, va bene.»
«E non se ne dimentichi», ribadì, prima di allontanarsi per distribuire coperte e impartire ordini al resto degli sbirri. «E la pelle?» chiese Titus, anche lui avvolto in una coperta. «Che la portino a riva», risposi. «È sicura che fosse l'unica sorpresa?» domandò MacAdam. «Credo che sia il nostro unico naga, per stanotte.» Annuì, prima di tuffarsi di nuovo insieme col suo collega. Era bello essere ubbidita senza discussioni. Forse era merito del corpo nudo e scuoiato del naga. Le sue mani sembravano contratte nel rigor mortis, così i paramedici furono costretti ad aprirgliele a forza, un dito per volta. «Sa cos'è?» chiese la bionda. «Un naga.» Lei scambiò un'occhiata col collega, che scosse la testa. «E che cosa diavolo è un naga?» «Una creatura delle leggende indù, raffigurata quasi sempre in forma di serpente.» «Grande...» commentò il paramedico. «Reagisce come un rettile o come un mammifero?» «Non lo so.» I paramedici allestirono un sistema di pulegge per aiutare tutti a salire fino alle ambulanze e mettersi al caldo. Erano in gamba, ma non erano sufficienti. Avevano bisogno di rinforzi. Il naga fu avvolto in un morbido lenzuolo di cotone cosparso di soluzione salina calda. L'intero corpo era come una ferita aperta, con tutto quello che ciò comportava. Il rischio più grosso era quello delle infezioni. Gli esseri immortali erano vulnerabili alle infezioni? E chi lo sapeva? Io ero esperta di esseri soprannaturali, ma... Il pronto soccorso per immortali? Be', non era il mio campo. Mentre il naga veniva avvolto in alcune coperte, guardai interrogativamente l'infermiere, che sembrava un sergente istruttore. «Anche se è un rettile, le coperte non possono nuocergli», disse. E aveva ragione. «Il polso è debole, ma regolare», riferì la bionda. «Dobbiamo rischiare un'endovena, oppure...?» «Non lo so», rispose il collega. «Non dovrebbe neanche essere vivo. Carichiamolo in ambulanza, manteniamolo in vita e portiamolo in ospedale.» In lontananza si udivano le sirene di altre ambulanze. I rinforzi stavano
arrivando. Con una barella di salvataggio e le pulegge, il naga fu trasportato sulla strada. «Ha qualche altra informazione che possa aiutarci a curarlo?» chiese il paramedico, con sguardo molto schietto. «Non credo.» «Allora salga in ambulanza, e subito.» Non protestai: avevo freddo e i vestiti mi si stavano gelando addosso nonostante la coperta. Mi ritrovai così nel caldo di un'ambulanza, vestita soltanto di una coperta, mentre altri infermieri m'irroravano di ossigeno caldo. Dolph e Zerbrowski finirono nella mia stessa ambulanza. Be', meglio loro di Titus e Aikensen. Nell'attesa che ci confermassero che saremmo sopravvissuti, Dolph ritornò al lavoro. «Parlami dei naga.» «Come ho detto, sono creature delle leggende indù, raffigurate soprattutto come serpenti, in particolare cobra. Possono assumere forma umana o presentarsi come serpenti con testa umana. Sono i protettori delle gocce di pioggia e delle perle.» «Puoi ripetere?» chiese Zerbrowski, che aveva già i capelli asciutti, ma tutti spettinati. Era saltato nel fiume per salvare me, anche se non sapeva nuotare. «Nella testa della pelle c'è una perla, quindi credo che fosse del naga. Qualcuno lo ha scuoiato, ma non è morto. Non so come la pelle sia finita nel fiume, né come ci sia finito lui.» «Vuoi dire che era un serpente e che lo hanno scuoiato, ma che non è morto?» chiese Dolph. «A quanto pare...» «Come mai adesso è in forma umana?» «Non lo so.» «Perché non è morto?» «I naga sono immortali.» «Non avresti dovuto dirlo agli infermieri?» intervenne Zerbrowski. «È ancora vivo, sebbene lo abbiano scuoiato dalla testa ai piedi, quindi credo che riusciranno a capirlo anche da soli.» «Ben detto.» «Chi di voi due ha sparato ad Aikensen?» «È stato Titus», rispose Dolph. «Poi lo ha rimproverato e lo ha disarmato», aggiunse Zerbrowski.
«Spero che non intenda ridargli la pistola. Se mai esiste qualcuno che non dovrebbe andare in giro armato, quello è proprio Aikensen.» «Hai con te un cambio d'abiti, Blake?» chiese Zerbrowski. «No.» «Io ho un paio di felpe nel baule della macchina, e adesso voglio tornare a quello che resta del mio anniversario.» Il pensiero d'indossare una felpa usata che era rimasta per chissà quanto tempo nel bagagliaio della macchina di Zerbrowski fu troppo anche per me. «Non credo proprio, Zerbrowski.» Mi sorrise. «Sono pulite. Katie e io avremmo voluto andare ad allenarci, oggi, ma non abbiamo avuto tempo.» «Non siete mai arrivati fino alla palestra, eh?» «No.» Zerbrowski arrossì subito, quindi doveva essersi trattato di qualcosa di molto bello, oppure di molto imbarazzante. «E come vi allenate, voi due?» «Un uomo ha bisogno di fare allenamento», dichiarò Dolph solennemente. Zerbrowski mi guardò, inarcando le sopracciglia. «E quanto allenamento ti fa fare, il tuo spasimante?» Si volse a Dolph. «Ti ho detto che Blake ha trovato un fidanzato? Adesso sta dormendo a casa sua.» «Mr. Zeeman ha risposto al telefono», disse Dolph. «Ehi, Blake!» Zerbrowski mi guardò sgranando gli occhi marroni nella sua espressione più innocente. «Non hai il telefono accanto al letto?» «Dammi la felpa e riportami a casa», tagliai corto. Zerbrowski rise, e Dolph si unì alla risata. «Questa è la felpa di Katie, quindi non sporcarla. Se vuoi davvero allenarti, fallo nuda.» Per tutta risposta, gli mostrai di scatto il medio sollevato. «Oh, rifallo, ti prego!» esclamò Zerbrowski. «Ti si è aperta la coperta!» Insomma, stavo facendo divertire tutti quanti. 30 Alle quattro del mattino ero nel mio corridoio, vestita di una felpa rosa e col fagotto degli indumenti bagnati sotto il braccio sinistro. Nonostante la felpa nuova, avevo freddo. I paramedici mi avevano lasciata andare soltanto perché avevo promesso di bere bevande calde e di fare un bagno. Avevo salito le scale di corsa, indossando soltanto i calzini da ginnastica, perché
le scarpe di Katie non erano della mia misura. Ero infreddolita, stanca, il viso mi faceva male, però l'emicrania era scomparsa, forse perché ero stata costretta a immergermi nell'acqua gelida, o forse a causa del contatto col naga. Non riuscivo a ricordare nessuna leggenda che collegasse i naga alle guarigioni spontanee, però era passato parecchio tempo dall'ultima volta che avevo letto qualcosa sull'argomento. Li avevo studiati alla fine del corso di biologia soprannaturale. Gli indizi che mi avevano messo sulla strada giusta erano stati la perla e la pelle di cobra. Avrei dovuto recuperare il mio vecchio libro di testo e rileggere la sezione che li riguardava. Ancora prima di me, avrebbe dovuto documentarsi il medico di turno all'ospedale in cui era stato portato il naga. C'era qualcosa di pertinente negli archivi informatici della sanità pubblica? Per legge avrebbe dovuto esserci. In caso contrario, il naga avrebbe avuto qualcuno che lo rappresentasse e che ricorresse in giudizio per suo conto? Oppure si sarebbe alzato dal suo letto di morte e avrebbe provveduto personalmente? Per la seconda volta in sei ore, mi trovai davanti al mio appartamento senza avere le chiavi. Per un attimo soltanto rimasi con la testa appoggiata alla porta a commiserare me stessa. Non volevo rivedere Richard quella notte. Dovevamo parlare di un sacco di cose che non avevano nulla a che fare con la sua licantropia. Era colpa mia se non avevo pensato ai figli, ma in quel momento non avevo voglia di discutere di piccoli bastardi, né di nient'altro. Volevo soltanto trascinarmi a letto e restare sola. Inspirai profondamente e raddrizzai la testa. Non avevo nessun bisogno di specchiarmi per sapere che avevo un aspetto terribile. Suonando il campanello del mio appartamento, giurai a me stessa di procurarmi al più presto una copia delle chiavi, ma non per Richard. Richard aprì la porta, coi capelli scompigliati dal sonno che cadevano in una pesante massa ondulata a incorniciare il viso; era senza camicia e scalzo, coi jeans parzialmente sbottonati. D'improvviso fui felice di vederlo. La lussuria è davvero una cosa meravigliosa. Afferrandolo per il bordo dei jeans, lo attirai a me. Quando i vestiti bagnati gli toccarono il petto nudo, trasalì, ma senza ritrarsi. Era caldo quasi come se avesse la febbre perché era appena uscito dal letto, così, lasciando cadere il fagotto bagnato sul pavimento, mi riscaldai le mani accarezzandogli la schiena, e lui, di nuovo, trasalì al contatto gelido, ma senza scostarsi. Ci baciammo, e le sue labbra furono delicate. Intanto lo accarezzai pericolosamente in basso, alla vita, lungo l'orlo dei jeans. Quando mi accostò
la bocca all'orecchio mi aspettai di sentire dolci sciocchezze, o magari promesse oscene, invece mi sussurrò dolcemente: «Abbiamo compagnia». Rimasi come congelata, immaginando Ronnie, o, peggio ancora, Irving, che dal divano osservava le nostre effusioni. «Merda...» mormorai. «Finalmente sei a casa, ma petite...» Dannazione... Fissai Richard a bocca aperta. «Che sta succedendo?» «È arrivato mentre dormivo. Mi sono svegliato quando si è aperta la porta.» D'improvviso mi raggelai di nuovo dalla testa ai piedi. «Stai bene?» «Vuoi davvero discuterne in corridoio, ma petite?» chiese Jean-Claude, in tono molto, ma molto ragionevole. Avrei voluto restare in corridoio soltanto per fargli dispetto, però sarebbe stato infantile, senza contare che l'appartamento era mio. Varcai la soglia affiancata dalla calda presenza di Richard e, anziché raccoglierli, calciai dentro i vestiti bagnati, in modo da avere le mani libere. La fondina ascellare era perfettamente visibile sopra la felpa e non era assicurata alla cintura, però avrei potuto estrarre la pistola, se necessario. Probabilmente quella necessità non si sarebbe presentata, tuttavia era bene rammentare al Master che non ero in vena di scherzi. Richard chiuse la porta e vi si appoggiò, con le mani dietro la schiena, il viso parzialmente nascosto da un ciuffo, gli addominali scolpiti che sembravano invitare alle carezze. Probabilmente ci saremmo dedicati proprio a quel tipo di effusioni, se non ci fosse stato un vampiro nel mio soggiorno. Jean-Claude era seduto sul divano, con la camicia nera aperta sul torso nudo a rivelare i capezzoli, appena più scuri della pelle pallida, e le braccia distese lungo il bordo superiore dello schienale. Un sorrisino gli incurvava le labbra. S'intonava perfettamente al divano bianco e al resto dell'arredamento. Ci mancava solo quello. Avrei dovuto cambiarlo tutto, escludendo il nero e il bianco. «Che ci fai qui, Jean-Claude?» «È così che si accoglie un nuovo corteggiatore?» «Ti prego, non rompere le scatole, almeno per stanotte. Sono troppo stanca e troppo indolenzita per sopportarlo. Dimmi perché sei qui e cosa vuoi, così la facciamo finita.» Si alzò come una marionetta, con liquida agilità, e se non altro la camicia si richiuse parzialmente sulla pallida purezza del suo torace. Era già qualcosa.
«Sono qui per vedere te e Richard.» «Perché?» Rise, e la risata mi ricoprì come un'onda di pelliccia, morbida, soffice, eccitante, e priva di vita. Sospirando profondamente, mi sfilai la fondina. Non era lì per nuocere, ma per flirtare. Passando davanti a tutti e due, andai ad appenderla allo schienale di una sedia della cucina. Sentire gli sguardi di entrambi che mi seguivano fu lusinghiero, però mi fece sentire anche dannatamente a disagio. Mi girai a guardarli. Richard stava ancora accanto alla porta, discinto e provocante. Jean-Claude era assolutamente immobile vicino al divano, come il ritratto tridimensionale di un sogno erotico. Nella stanza si era accumulato un potenziale sessuale astronomico. La certezza che nulla sarebbe successo era quasi deprimente. Dovevo bere il caffè caldo che era rimasto e fare davvero un bagno, così forse avrei scacciato il freddo e scongiurato un principio di congelamento. «Perché volevi vedere Richard e me?» Versai il caffè nella mia tazza col pinguino, lavata da poco. Richard era bravo a sbrigare le faccende domestiche. «Ho saputo che Monsieur Zeeman intendeva trascorrere qui la notte.» «E con questo?» «Chi te lo ha detto?» chiese Richard, scostandosi dalla porta. Notai che si era persino abbottonato del tutto i jeans. Un vero peccato. «Me lo ha detto Stephen.» «Non lo avrebbe mai fatto spontaneamente», commentò Richard, fermandosi molto vicino a Jean-Claude. Anche se fisicamente era più alto e più grosso, era pur sempre seminudo, quindi avrebbe dovuto essere un po' incerto, esitante, eppure sembrava completamente a suo agio. Non aveva mostrato nessun imbarazzo neanche quando ci eravamo incontrati per la prima volta, sebbene fosse stato a letto, completamente nudo. «Non lo ha fatto spontaneamente», confermò Jean-Claude. «È sotto la mia protezione.» «Non sei ancora il capobranco, Richard. Puoi proteggere Stephen dagli altri licantropi, ma è ancora Marcus che comanda, e lui mi ha consegnato Stephen, proprio come mi ha consegnato te.» Richard si limitò a rimanere là, immobile, però all'improvviso l'aria cominciò a ondeggiare intorno a lui. Sarebbe bastato battere le palpebre per non accorgersene. Un'onda di potere si allargò, lambendomi la pelle. «Io non appartengo a nessuno.»
Jean-Claude si voltò verso di lui, con espressione schietta e affabile, parlando in tono disinvolto. «Non riconosci l'autorità di Marcus?» Fu una domanda a trabocchetto, e lo capimmo tutti. «Che cosa succederebbe se rispondesse di no?» chiesi io. Jean-Claude si rivolse a me con calcolata inespressività. «Lo ha già fatto.» «E tu lo dirai a Marcus. Poi?» Il vampiro incurvò lentamente le labbra in un sorriso, mentre i suoi occhi di un blu puro scintillavano. «Marcus la considererebbe una sfida esplicita alla sua autorità.» Posai la tazza del caffè, girai intorno al tavolo e mi misi fra loro due. L'energia di Richard mi strisciò sulla pelle come una falange d'insetti, mentre Jean-Claude non emanava assolutamente nulla. I non morti non fanno rumore. «Se fai uccidere Richard, anche indirettamente, il nostro accordo salta.» «Non ho bisogno che tu mi protegga», intervenne Richard. «Se ti fai ammazzare perché affronti Marcus, è una cosa, ma, sei ti fai ammazzare perché Jean-Claude è geloso di te, allora la colpa è mia.» Quando Richard mi toccò una spalla, il suo potere fu come una scossa elettrica, ma, non appena mi sentì rabbrividire, lasciò ricadere la mano. «Potrei semplicemente cedere a Marcus e riconoscere la sua autorità. Così sarei al sicuro.» Scossi la testa. «Ho visto come si comporta Marcus. Non saresti neanche lontanamente al sicuro.» «Marcus non sapeva che avessero girato due finali», spiegò Richard. «E così gliene hai parlato?» «Ti riferisci ai deliziosi filmini diretti da Raina?» chiese Jean-Claude. Tutti e due ci girammo a guardarlo. Il potere di Richard, sempre più forte, guizzò con tale violenza che mi diventò difficile respirare. Fu come cercare di deglutire in una tempesta. Scossi la testa. Un problema alla volta. «Che ne sai dei film?» Jean-Claude ci guardò a turno, infine si soffermò a scrutare nei miei occhi. «Il tuo tono lo rende più importante di quanto dovrebbe... Cos'ha fatto Raina?» «Come sai dei film?» Richard si avvicinò di un passo, sfiorandomi la schiena col petto e lasciandomi senza fiato. Ancora una volta fu come una scossa elettrica, una sensazione quasi travolgente, ma niente affatto dolorosa, anzi piacevole. Sapevo, però, che se si fosse prolungata sarebbe di-
ventata pericolosa, così mi scostai, in modo da pormi di nuovo fra loro, senza mostrare la schiena a nessuno dei due. Mi guardarono entrambi, con espressioni quasi identiche, aliene, come se non avrei mai neanche potuto sognare i loro pensieri. Ero l'unica umana presente nella stanza. «Jean-Claude, dimmi soltanto che cosa sai dei film di Raina. E niente scherzi, okay?» Mi fissò per un attimo, prima di scrollare graziosamente le spalle. «Benissimo. La vostra femmina Alfa mi ha invitato a partecipare con lei a un film pornografico, offrendomi un ruolo da protagonista.» Sapevo che aveva rifiutato, perché non era un esibizionista, anzi desiderava mantenere sempre i suoi spettacoli entro i confini di un certo decoro, che il porno travalicava. «Ti è piaciuto fare sesso con lei mentre vi filmavano?» Richard parlò sottovoce, mentre la sua energia allagava il soggiorno. Jean-Claude si rivolse a lui, con la collera che scintillava nello sguardo. «Lei si vanta di te, mio villoso amico. Dice che sei stato magnifico.» «Colpo basso, Jean-Claude», commentai. «Vedo che non mi credi, ma... Sei così certa di lui?» «Che non farebbe sesso con Raina? Come no...» Un'espressione strana passò sul volto di Richard. Lo fissai. «Non lo hai fatto, vero?» Jean-Claude rise. «Io avevo diciannove anni, e lei era la mia femmina Alfa. Non credevo di poter scegliere.» «Certo...» «Lei ha diritto di scegliere fra i maschi giovani. E questa è proprio una delle usanze cui vorrei porre fine.» «Vai ancora a letto con lei?» chiesi. «Non più, da quando posso scegliere», rispose Richard. «Raina parla molto affettuosamente di te, Richard, e con tanti dettagli amorevoli. Non può essere passato tanto tempo...» «Sette anni.» «Davvero?» Quell'unica parola espresse un intero universo di dubbio. «Non ti sto mentendo, Anita», assicurò Richard. Poi avanzò di un passo e Jean-Claude gli andò incontro. Il testosterone minacciò di soverchiare il potere soprannaturale, col rischio che affogassimo tutti nell'uno e nell'altro. Mi misi fra loro, posando una mano sul petto di ciascuno. Nell'istante in
cui toccai la pelle nuda di Richard, il suo potere mi avvolse il braccio come un liquido freddo ed elettrico. Il contatto con Jean-Claude avvenne l'istante successivo e, a causa di un movimento della camicia, o del vampiro, fu con la sua pelle nuda, fredda e morbida. Allora, attraversando il mio corpo, il potere di Richard percosse quella pelle pura. Nello stesso istante l'onda del potere vampiresco si levò. Le due energie non si contrastarono, bensì si mescolarono dentro di me e rifluirono. Quella di Jean-Claude era un freddo vento tempestoso, mentre quella di Richard era elettricità rovente. Ciascuna nutrì l'altra come legna e fuoco. E sotto tutto ciò io sentii dentro di me crescere quella cosa che mi permetteva di resuscitare i defunti, e che, in mancanza di termini migliori, definisco magia. I tre poteri si fusero in un impeto che accapponò la pelle, accelerò il cuore, serrò lo stomaco. Mi cedettero le ginocchia. Crollai carponi sul pavimento e rimasi lì, ansimante, con la sensazione che la pelle mi si volesse staccare dal corpo e col cuore in gola, incapace di respirare. Tutto aveva una sorta di alone dorato e chiazze di luce mi danzavano davanti agli occhi. Stavo rischiando di svenire. «Cosa diavolo era?» La voce di Richard sembrò più lontana. Non lo avevo mai sentito imprecare prima d'allora. Jean-Claude s'inginocchiò accanto a me, senza cercare di toccarmi. Guardandolo negli occhi a quella distanza scoprii che le pupille erano scomparse, lasciando soltanto quel bellissimo blu notte. Era così che diventavano i suoi occhi quando si manifestava in tutto il suo essere vampiresco, ma in quel momento non ebbi affatto l'impressione che lo facesse di proposito. Anche Richard s'inginocchiò, però si protese a toccarmi e, nel momento in cui stava per farlo, si generò fra noi una scarica di potere, che lo obbligò a ritirare la mano. «Cos'era?» Sembrava un po' spaventato, e anch'io lo ero. «Ma petite, riesci a parlare?» Annuii. Vedevo tutto con una limpidezza estrema, come per effetto di un scarica di adrenalina. Le ombre che la camicia gettava sul petto di JeanClaude mi apparivano solide, palpabili, e il tessuto di un nero quasi metallico, come il dorso di uno scarafaggio. «Di' qualcosa, ma petite...» «Anita... Stai bene?» Quasi al rallentatore, mi girai a guardare Richard. Ogni ciocca dei capel-
li che cadevano a nascondergli un occhio risaltava, perfettamente scolpita. Ogni sua ciglia intorno all'occhio marrone spiccava con nitidezza sbalorditiva. «Sto bene.» Ma era vero? «Cos'è successo?» chiese Richard. Non capii se la domanda fosse rivolta a me oppure a Jean-Claude, comunque io non ero in grado di rispondere. Jean-Claude sedette accanto a me sul pavimento, addossato al tavolo, chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo, tremante. Espirando, riaprì gli occhi, che erano ancora di un blu profondissimo, come se fosse in procinto di nutrirsi. La sua voce suonò normale. «Non ho mai assaporato un tale potere senza prima avere versato sangue.» «Non c'è dubbio...» commentai. «Sai sempre qual è la cosa più adatta da dire.» Richard, che mi stava accanto come se volesse aiutarmi, ma avesse paura di toccarmi, lanciò un'occhiata furibonda a Jean-Claude. «Che cosa ci hai fatto?» «Io?» Il bel viso di Jean-Claude era quasi fiacco, gli occhi socchiusi. «Io non ho fatto niente...» «È una bugia!» Richard sedette a gambe incrociate, a distanza di sicurezza, ma abbastanza vicino perché il riflusso di energia continuasse a lambirci. Mi scostai un po', scoprendo che la vicinanza a Jean-Claude non era meglio. Qualunque cosa fosse, non era temporanea, bensì indugiava nell'aria intorno a noi, e anche dentro di noi. Guardai Richard. «Sembri molto sicuro che sia stato lui, e ti credo. Ma che cosa sai che io non so?» «Non sono stato io e non sei stata tu. E dato che riconosco la magia, quando la fiuto, allora dev'essere stato lui.» Fiutava la magia? Mi volsi di nuovo a Jean-Claude. «Ebbene?» Il vampiro rise, e di nuovo la sua risata mi accarezzò la schiena come pelliccia, morbida, soffice, sconcertante. Era passato troppo poco tempo dall'esplosione di potere che avevamo sperimentato insieme. Rabbrividii, e lui rise ancora di più. Era doloroso, ma era anche molto bello. La sua risata era sempre pericolosamente deliziosa, come un dolce avvelenato. «Ti giuro, su tutto quello che vuoi, che non ho fatto niente... Di proposito.» «E per caso cos'hai fatto?» «E tu, ma petite? Non sono l'unico Master del soprannaturale in questa
stanza.» Be', mi aveva incastrata. «Stai dicendo che è stato uno di noi?» «Sto dicendo che non so chi è stato, né che cosa sia. Però Monsieur Zeeman ha ragione nel dire che si tratta di magia, un potere tale da arruffare la pelliccia a qualunque lupo.» «E questo che cosa vorrebbe dire?» chiese Richard. «Se tu fossi in grado di controllare un tale potere, mio caro lupo, persino Marcus sarebbe obbligato a riconoscerne la superiorità.» Richard raccolse le gambe contro il petto, gli occhi pensosi, smarriti in qualche remota lontananza. Evidentemente la prospettiva lo intrigava. «Sono forse l'unica fra i presenti che non sta cercando di consolidare il proprio dominio?» Richard mi guardò, con espressione quasi di scusa. «Non voglio uccidere Marcus. Se riuscissi a manifestare abbastanza potere, forse si piegherebbe.» Jean-Claude mi sorrise, molto soddisfatto. «Tu riconosci che non è umano e, adesso che vuole il potere, può diventare capobranco.» Il suo sorriso si allargò, finché non mancò poco che scoppiasse di nuovo a ridere. «Non sapevo che fossi un fanatico della musica degli anni '60.» «Ci sono molte cose che non sai di me, ma petite...» Mi limitai a fissarlo. Immaginare Jean-Claude che ballava alla musica degli Shangri-La fu la cosa più strana che mi accadde quella notte. Dopotutto, avevo sempre creduto ai naga, ma non avevo mai pensato che JeanClaude avesse qualche hobby. 31 Un bagno caldo, un'altra T-shirt troppo grande, i pantaloni di una tuta e un paio di calzini. Sapendo di essere la persona peggio vestita dell'appartamento, decisi che alla prima occasione avrei comprato una vestaglia nuova. I miei due corteggiatori sedevano alle opposte estremità del divano, il più lontano possibile l'uno dall'altro. Jean-Claude sembrava un manichino, con un braccio sullo schienale e l'altro sul bracciolo, e una caviglia sul ginocchio a esibire la perfezione degli stivali. Richard invece stava raggomitolato, con una gamba raccolta contro il petto nudo e l'altra ripiegata sul divano. Il licantropo sembrava a suo agio, mentre il vampiro sembrava in attesa
di un fotografo. I due uomini della mia vita... Lo sopportavo a stento. «Ho bisogno di dormire un po', quindi, chi vuole togliere il disturbo, si accomodi.» «Se ti riferisci a me, ma petite, non ho nessuna intenzione di andarmene, a meno che Richard non esca con me.» «Stephen ti ha spiegato perché sono qui», disse Richard. «Anita è ferita. Non può rimanere sola.» «Guardala, Richard, ti sembra ferita?» Il vampiro sollevò graziosamente una mano. «Ammetto che ha preso un po' di botte, ma non sembra che abbia bisogno del tuo aiuto. Forse non ha bisogno neppure del mio...» «Ho invitato Richard a restare, non te.» «Invece mi hai invitato, ma petite...» «Primo, smettila di chiamarmi così, per favore. Secondo, quando mai ti ho invitato?» «L'ultima volta che sono stato qui. In agosto, credo.» Accidenti, l'avevo dimenticato... Ero stata imprudente e avevo messo in pericolo Richard. Avevo sperato che la situazione potesse sistemarsi, ma adesso mi rendevo conto di aver lasciato solo Richard, in un posto dove Jean-Claude poteva andare e venire a piacere. «Posso rimediare subito.» «Se un gesto melodrammatico ti soddisfa, non avere remore. Ma Richard non può trascorrere la notte qui.» «Perché no?» «Perché so che, quando concedi il corpo, concedi anche il cuore. Se dormissi col nostro Monsieur Zeeman, temo che potrebbe essere un punto di non ritorno.» «Il sesso non è un impegno.» «Per la maggior parte della gente non lo è, ma per te è diverso.» Rendermi conto che mi conosceva così bene mi fece arrossire. «Non intendo dormire con Richard.» «Ti credo, ma petite, ma vedo come lo guardi. Se ne sta seduto lì, attraente, caldo e molto vivo. Se io non fossi stato qui, quando sei tornata, gli avresti forse resistito?» «Sì.» Scrollò le spalle. «Può darsi... La tua forza di volontà è tremenda, tuttavia non posso correre questo rischio.» «Non credi che sarei capace di non saltargli addosso? Non ti fidi di me?» Di nuovo scrollò le spalle in una maniera che avrebbe potuto significare
qualsiasi cosa, con un sorriso invitante e condiscendente. «Perché? Lo desideri anche tu, forse?» La domanda lo colse alla sprovvista. La sorpresa sul suo viso uguagliò lo sdegno su quello di Richard. Poi Jean-Claude guardò Richard con la massima attenzione, lasciando vagare gli occhi sul suo corpo in una lenta danza intima, soffermandosi non sul petto o sull'inguine, bensì sul collo. «In verità, il sangue dei licantropi è più dolce di quello umano... È una bella esperienza, se si riesce a succhiarli senza essere fatti a pezzi.» «Sembri uno stupratore», commentai. Il suo sorriso sbocciò in un involontario lampeggiare di zanne. «Non è un paragone sbagliato!» «Era un insulto, e lo sai», precisai. «Certo...» «Credevo che avessimo un accordo», intervenne Richard. «Infatti lo abbiamo.» «E tu riesci a star seduto lì, a dire che ti piacerebbe nutrirti del mio sangue.» «Dissanguarti sarebbe una gioia per molte ragioni. Però hai ragione, abbiamo un accordo, e non intendo violarlo.» «Quale accordo?» chiesi. «Stiamo esplorando i nostri poteri», spiegò Jean-Claude. «Che cosa significa, esattamente?» «Non ne siamo sicuri», disse Richard. «Non abbiamo ancora stabilito i dettagli.» «Abbiamo soltanto concordato di non ammazzarci a vicenda, ma petite. Lasciaci un po' di tempo per escogitare il resto.» «Benissimo. Allora potete andarvene tutti e due.» Richard si alzò a sedere. «Anita! Hai sentito cos'ha detto Lillian. Devi essere svegliata ogni ora, per precauzione.» «Userò la sveglia. Ascolta, Richard... Sto benissimo. Adesso vestiti e vai.» Sembrò perplesso, nonché un po' addolorato. «Anita...» Jean-Claude invece era piuttosto compiaciuto. «Richard non trascorrerà la notte qui. Sei contento?» «Sì.» «Comunque, neanche tu puoi rimanere.» «Non ne avevo nessuna intenzione.» Si alzò e si volse a fronteggiarmi. «Me ne andrò non appena avrò ricevuto il mio bacio della buonanotte.»
«Il tuo... cosa?» «Il mio bacio.» Girò intorno al divano per avvicinarsi. «In realtà, speravo che avresti indossato qualcosa di più...» Mi afferrò una manica. «Lascivo... Ma bisogna sapersi accontentare.» Liberai bruscamente la manica. «Tu non hai ancora avuto niente!» «È vero, ma sono fiducioso.» «Non capisco perché.» «L'accordo fra Richard e me si basa sul fatto che tu hai acconsentito a uscire anche con me. Ti corteggiamo tutti e due. Siamo come una piccola, affettuosa famiglia.» «Puoi sbrigarti? Voglio andare a letto.» La sua fronte si corrugò un poco fra gli occhi. «Anita, non stai facilitando le cose.» «Appunto.» La sua fronte si spianò, mentre sospirava. «Non diventerai mai una donna conciliante, vero?» «Mai.» «Un bacio della buonanotte, ma... Anita. E, se davvero hai intenzione di uscire con me, non sarà certo l'ultimo.» Lo guardai rabbiosamente. Avrei voluto mandarlo all'inferno, ma notai qualcosa di strano nel suo atteggiamento. «E se rifiutassi il bacio?» «Per stanotte me ne andrei.» Con un passo mi si avvicinò tanto che la sua camicia sfiorò la mia T-shirt. «Ma, se decidessi di baciare Richard senza concedere anche a me lo stesso privilegio, allora il nostro accordo sarebbe annullato. Se lui potesse toccarti e io no, sarebbe sleale.» Avevo accettato di uscire con lui perché sul momento mi era sembrata una buona idea, ma in quel momento... In realtà non avevo considerato tutte le implicazioni. Uscire insieme, baciarsi, fare sesso... Cristo! «Niente baci, se non dopo il primo appuntamento.» «Ma tu mi hai già baciato.» «Non volontariamente.» «Dimmi che non ti è piaciuto, ma petite...» Sarebbe stato bello mentire, ma nessuno dei due l'avrebbe bevuta. «Sei un bastardo invadente!» «Non quanto vorrei.» «Non sei costretta a fare niente contro la tua volontà», intervenne Richard, in ginocchio sul divano, aggrappato con le mani allo schienale. Scossi la testa. Non ero sicura di essere in grado di spiegarlo, però, se in-
tendevamo davvero mantenere l'accordo, Jean-Claude aveva ragione. Non potevo tenere per mano Richard e non lui, anche se ciò mi forniva un incentivo per non andare sino in fondo con Richard. Occhio per occhio, e tutto il resto. «Dopo il primo appuntamento ti bacerò, ma non prima», dissi, tentando la vecchia strategia adolescenziale. Scosse la testa. «No, Anita. Tu stessa mi hai detto che non soltanto ami Richard, ma che ti è simpatico, e che non ti dispiacerebbe trascorrere la vita con lui. E forse è davvero più simpatico di me. Quanto a questo, non posso competere.» «Puro vangelo», commentai. Mi fissò con gli occhi molto blu, senza usare il suo potere e senza magia, anche se molto intensamente e molto pericolosamente. «Però c'è un campo in cui posso competere...» Il suo sguardo pesante su di me fu come una carezza, e mi fece rabbrividire. «Smettila!» «No.» Una sola parola, morbida, carezzevole. La voce era una delle sue caratteristiche migliori. «Un bacio soltanto, Anita. Oppure possiamo farla finita qui, stanotte. Non intendo rinunciare a te senza lottare.» «Saresti disposto ad affrontare subito Richard soltanto perché non voglio baciarti...» «Non si tratta del bacio, ma petite, ma di quello che ho visto quando lui ti ha aperto la porta. Siete diventati una coppia sotto i miei occhi. Se non intervenissi subito, tutto sarebbe perduto.» «Userai la voce per ingannarla», disse Richard. «Prometto di non ricorrere a nessuna illusione.» Sapevo che non mentiva, ma ciò significava anche che, pur di avere un bacio, non avrebbe esitato a battersi con Richard. E io avevo lasciato le pistole in camera da letto, credendo che non ci fosse pericolo, senza contare che ero davvero troppo stanca per lottare. «Okay.» «Non sei costretta a farlo», ripeté Richard. «Se proprio dobbiamo finire per massacrarci a vicenda, tanto vale che sia per qualcosa di più importante di un bacio.» «Lo vuoi!» esclamò Richard. «Vuoi baciarlo!» E non sembrò per niente contento. Cosa avrei dovuto dire? «Quello che voglio di più, in questo momento, è andare a letto, e da sola. Voglio dormire un po'.» Quella, almeno, era la verità, magari non tutta, ma abbastanza perché Richard si accigliasse, per-
plesso, e Jean-Claude, esasperato, sospirasse. «Allora, se per te è un dovere tanto spiacevole, sbrighiamoci», disse Jean-Claude. Eravamo così vicini, che dopo un passo già ci toccammo. Quando le sollevai per respingerlo, le mie mani scivolarono sul suo stomaco liscio e nudo. Mi ritrassi di scatto, serrando i pugni, con la sensazione della sua pelle che restava aggrappata alle mie dita. «Che c'è, ma petite?» «Lasciala in pace.» Richard si alzò dal divano, chiudendo i pugni, ma senza stringerli. Il suo potere, strisciando come un vento lento, mi fece formicolare la pelle. I capelli cadevano a velargli lo sguardo, ombreggiandogli metà del viso. La luce scintillava sulla sua pelle nuda, dipingendo sfumature grigie, dorate e nere sul suo torace. All'improvviso aveva qualcosa di primordiale. Nel soggiorno si diffuse un brontolio soffocato, quasi palpabile. «Smettila, Richard!» «Sta usando i suoi poteri su di te.» La sua voce era irriconoscibile, trasformata in un cupo brontolio sempre meno umano. Ero contenta che i capelli gli nascondessero il viso. Mi ero talmente preoccupata delle intenzioni bellicose di Jean-Claude, che non avevo considerato la possibile aggressività di Richard. «Non sta usando i suoi poteri su di me. L'ho soltanto toccato.» Quando Richard avanzò, la luce mi rivelò che il suo viso era normale. Ma che cosa stava succedendo dentro quella gola liscia, dietro quelle belle labbra da baciare, per trasformare la sua voce in un suono tanto mostruoso? «Vestiti e vattene.» «Cosa?» Mosse le labbra, ma sempre parlando con quella voce brontolante. Era come assistere a un film col sonoro difettoso. «Se c'è un patto di non belligeranza, allora rispettalo. Credevo di avere a che fare con un solo mostro. Se non riesci a comportarti da essere umano, Richard, allora vattene.» «E il mio bacio, ma petite?» «Avete esagerato tutti e due, perciò adesso basta. Fuori tutti!» La risata di Jean-Claude riempì la semioscurità. «Come vuoi! All'improvviso non sono più tanto preoccupato di quello che potresti fare con Monsieur Zeeman.» «Non cantare vittoria troppo presto, Jean-Claude... Revoco il mio invi-
to!» Si udì una specie di schiocco attutito, seguito da un ruggito. La porta spalancata sbatté contro la parete, e un vento innaturale irruppe come un fiume invisibile. «Non farlo», mormorò Jean-Claude. «Invece lo faccio.» Fu come se una mano invisibile lo spingesse fuori e chiudesse rumorosamente la porta alle sue spalle. «Mi dispiace.» La voce di Richard era ancora gutturale, ma ormai quasi normale. «Non dovrei arrabbiarmi così quando la luna piena è imminente.» «Non voglio spiegazioni. Vattene e basta.» «Mi dispiace, Anita. Di solito non perdo il controllo in questo modo, neppure quando si avvicina la luna piena.» «Cosa c'è di diverso, adesso?» «Non ero mai stato innamorato, e questo, a quanto pare, mi fa perdere la concentrazione.» «Potrebbe essere la gelosia...» «Dimmi che non ho motivo di essere geloso. Convincimi che è così.» Sospirai. «Vattene, Richard... Prima di andare a dormire devo ancora pulire le pistole e il pugnale.» Sorrise e scosse la testa. «Immagino che quello che è successo stanotte non ti abbia rassicurata sulla mia umanità.» Girò intorno al divano e si curvò a raccogliere il maglione dal pavimento, poi infilò e allacciò le scarpe. Il soprabito lungo, che gli cadeva fino alle caviglie, nella semioscurità sembrava un mantello. «Suppongo che non voglia baciare neanche me...» «Buonanotte.» Inspirò profondamente, quindi espirò lentamente. «Buonanotte.» Lui uscì e io chiusi la porta a chiave, quindi pulii le armi e andai a dormire. Dopo lo spettacolo inscenato da Richard e Jean-Claude, la Browning era più o meno l'unica cosa con cui ero disposta a condividere il letto. E va bene, lo ammetto... La pistola e un pinguino di peluche. 32 Il telefono squillava, e da parecchio, a quanto pareva. Rimasi sdraiata nel letto ad ascoltare, chiedendomi quando la dannata segreteria si sarebbe
decisa a rispondere, poi mi girai, allungandomi per prendere la cornetta, ma non la trovai. Gli squilli provenivano dal soggiorno. Avevo dimenticato di riportare il telefono in camera da letto. Strisciai fuori dal letto caldo e, barcollando, andai in soggiorno. Il telefono squillò almeno quindici volte prima che riuscissi a rispondere. Mi afflosciai sul pavimento. «Chi è?» «Anita?» «Ronnie?» «Hai una voce tremenda...» «L'aspetto è anche peggio.» «Che succede?» «Dopo. Intanto dimmi perché mi chiami...» Guardai l'orologio. «... alle sette del mattino. Ti conviene avere una buona ragione, Ronnie.» «Oh, è buona, eccome! Credo proprio che dovremmo parlare con George Smitz prima che vada al lavoro...» «Perché?» Mi sentivo pulsare la faccia. Sempre col ricevitore all'orecchio, mi sdraiai sulla moquette, che era molto soffice. «Anita! Ci sei?» Sbattendo le palpebre, mi resi conto di essermi riaddormentata. Mi alzai di nuovo a sedere e mi addossai alla parete. «Ci sono, ma non ho più sentito una parola, dopo che hai detto che dovremmo parlare con Smitz.» «So che non sei mattiniera, Anita, ma non ti eri mai addormentata al telefono. Quanto hai dormito stanotte?» «Circa un'ora.» «Oh, Dio! Mi dispiace... Ma ero sicura che avresti voluto saperlo. Ho trovato una prova inconfutabile.» «Ti prego, Ronnie... Di cosa stai parlando?» «Ho una serie di fotografie di George Smitz insieme con un'altra donna.» Mi lasciò un paio di secondi per assimilare la notizia. «Ci sei?» «Sono qui. Sto pensando.» In realtà, fu molto difficile. Non sono mai al mio meglio di primo mattino, ma, dopo avere dormito soltanto un'ora, dire che ero rintronata era un eufemismo. «Perché dici che è una prova inconfutabile?» «Be', capita spesso che un coniuge denunci la scomparsa del consorte per deviare i sospetti.» «Credi che Smitz abbia fatto fuori la moglie?» «Quanto sei poetica... Comunque, sì, lo credo.» «Perché? Mica tutti gli uomini che tradiscono le mogli poi le uccidono.»
«Il fatto è questo. Dopo avere scattato le fotografie, ho parlato con alcuni armaioli della zona, e quello che ha il negozio vicino alla macelleria mi ha detto che Smitz ha comprato proiettili d'argento.» «Non è stato molto sveglio...» «Come la maggior parte degli assassini.» Annuii, anche se Ronnie non poteva vedermi. «Benissimo. A quanto pare Mr. Smitz non è il vedovo addolorato che fingeva di essere. Che cosa vuoi fare?» «Andare a casa sua e interrogarlo.» «Perché non avverti gli sbirri?» «L'armaiolo non è del tutto sicuro che fosse proprio Smitz.» Chiusi gli occhi. «Magnifico... E tu credi che sia disposto a confessare l'omicidio a noi?» «Può darsi. Ha vissuto con la moglie per quindici anni, era la madre dei suoi figli... Dovrà pure avere un po' di senso di colpa.» Davvero non riuscivo a riflettere lucidamente dopo avere dormito soltanto un'ora. «Gli sbirri... Dovremmo almeno chiamarli, avvisarli...» «È un mio cliente, e io non consegno i clienti agli sbirri, se non è inevitabile. Se confesserà, lo farò arrestare. Altrimenti, li metterò al corrente di quello che ho scoperto. Ma prima voglio fare a modo mio.» «Benissimo. Lo chiami tu per dirgli che andiamo da lui, o preferisci che lo faccia io?» «Ci penso io.» «Quando ci vediamo?» «Adesso non è ancora al lavoro. Lo chiamo e passo a prenderti.» Avrei voluto dire: «No, devo tornare a dormire!» Ma se davvero fosse stato lui l'assassino? E forse era implicato anche nelle altre sparizioni. Anche se Smitz non mi era sembrato tanto pericoloso da riuscire a fare una cosa del genere, e quando lo avevo incontrato mi aveva dato l'impressione di essere sinceramente preoccupato per sua moglie. Sinceramente preoccupato per sua moglie... Che diavolo ne sapevo io? «Sarò pronta.» Riagganciai senza salutare. Evidentemente stavo prendendo le cattive abitudini di Dolph. Mi sarei scusata più tardi. Il telefono squillò di nuovo prima che riuscissi ad alzarmi. «Che c'è, Ronnie?» «Sono Richard.» «Scusa, Richard. Che c'è?» «Hai una voce tremenda...»
«Tu invece no, eppure non hai dormito molto più di me. Com'è possibile? Ti prego, dimmi che non sei un tipo mattiniero.» Rise. «Scusa, ma mi dichiaro colpevole!» Potevo anche accettare che fosse un lupo mannaro, ma un tipo mattiniero... Dovevo pensarci. «Richard, non prendertela a male, ma... Che cosa vuoi?» «Jason è scomparso.» «Chi è Jason?» «Il giovane biondo che ti si è strusciato addosso al Lunatic Cafe.» «Ah, sì... È scomparso?» «Sì. Stanotte è luna piena, ma Jason è uno dei membri del branco più recenti, quindi non può essere uscito da solo. Quando è andata a casa sua, la sua guida non lo ha trovato.» «La sua guida, come negli Alcolisti Anonimi?» «Qualcosa del genere.» «Nessun segno di lotta?» «No.» Mi alzai faticosamente, col ricevitore in mano, e mi sforzai di pensare, nonostante la stanchezza. «A proposito del marito di Peggy Smitz... Ronnie lo ha sorpreso con un'altra donna, e c'è la possibilità che abbia comprato proiettili d'argento.» Silenzio all'altro capo della linea. Per un poco sentii soltanto il respiro lieve di Richard, un po' accelerato. «Di' qualcosa.» «Se ha ucciso Peggy, allora ce ne occupiamo noi.» «Non hai pensato che potrebbe esserci proprio lui, dietro tutte le sparizioni?» «Non vedo come.» «Perché no? Coi proiettili d'argento si può far fuori qualunque licantropo, e non c'è bisogno di essere particolarmente abili. Basta godere della fiducia dei licantropi.» Di nuovo un lungo silenzio. «Okay. Che cosa vuoi che faccia?» «Stamattina Ronnie e io andiamo a interrogarlo e, dato che anche Jason è scomparso, non possiamo permetterci di essere caute. Puoi mandarmi uno o due licantropi per darci una mano con Smitz? Forse un po' di muscoli ci aiuteranno ad arrivare alla verità più in fretta.» «Oggi ho lezione, senza contare che non posso permettermi di rivelargli la mia vera natura...»
«Non ti ho chiesto di venire di persona, ma soltanto se puoi mandarmi un paio dei vostri, però dall'aspetto minaccioso. Irving sarà anche un lupo mannaro, ma non incute molta paura.» «Manderò qualcuno. Al tuo appartamento?» «Sì.» «Quando?» «Al più presto. Ah, Richard...» «Sì?» «Non rivelare a nessuno i nostri sospetti su George. Non voglio arrivare a casa sua e trovarlo fatto a pezzi.» «Non lo farei mai.» «Tu no, ma Marcus forse sì, e Raina di sicuro.» «Dirò soltanto che hai qualche sospetto e che ti serve appoggio. Non dirò di chi si tratta.» «Magnifico, grazie.» «Se trovi Jason ancora vivo, sarò in debito con te.» «Ti chiederò un compenso in natura.» Mi pentii subito della battuta. In un certo senso era vero, ma non del tutto, dopo quello che era successo la notte precedente. Rise. «D'accordo! Be', adesso devo andare al lavoro. Ti amo.» Esitai soltanto un attimo. «Ti amo anch'io. Fa' il bravo con gli studenti.» Tacque per alcuni istanti, perché aveva percepito l'esitazione. «Senz'altro. Ciao.» «Ciao.» Rimasi immobile accanto al telefono per un po'. Se c'era qualcuno che andava in giro a sparare ai licantropi, allora Jason era morto, quindi il massimo che avrei potuto fare sarebbe stato localizzare il cadavere. Meglio di niente, ma non granché. 33 Ci fermammo di fronte alla casa di George Smitz poco dopo le nove. Ronnie era alla guida e io sedevo accanto a lei, mentre Gabriel e Raina erano sul sedile posteriore. Se fosse dipeso da me, avrei scelto aiutanti ben diversi. In particolare, avrei escluso l'ex amante del mio fidanzato. A che cosa aveva pensato, Richard? Forse Raina non gli aveva lasciato scelta, ma solo per quanto riguardava la missione del giorno, non per il sesso. A quel proposito continuavo a essere incerta... E va bene, non ero affatto incerta, ero incazzata. D'altronde, anch'io avevo avuto altri amanti. Chi è senza
peccato, eccetera... In ogni caso, Richard mi aveva mandato esattamente quello che avevo chiesto, cioè licantropi minacciosi e terrificanti, e io non ero abituata a ottenere esattamente quello che volevo. La volta successiva sarei stata più precisa. Gabriel era vestito di nuovo in cuoio nero, forse con lo stesso identico completo con cui lo avevo visto la prima volta, incluso il guanto destro borchiato. Però non portava più gli orecchini, e le orecchie erano indenni come se non ne avesse mai portati. Raina era vestita in modo abbastanza normale, per così dire. Portava una pelliccia di volpe lunga fino alla caviglia. Il cannibalismo era una cosa, ma... Indossare le pellicce dei propri morti? Sembrava un po' troppo spietato e crudele anche da parte di quella megera psicotica vomitata dall'inferno. Va bene, era una lupa, non una volpe, ma io rifiutavo le pellicce per questioni etiche, e lei, invece, le ostentava. Raina si curvò sul sedile anteriore. «Che ci facciamo davanti alla casa di Peggy?» Era arrivato il momento di vuotare il sacco, eppure non ne avevo nessuna voglia. Perché? Sganciai la cintura di sicurezza e mi girai. Lei mi guardava con espressione abbastanza gradevole. Aveva modellato il viso con gli zigomi alti e la bocca sensuale, magari perché progettava qualcosa di nefasto. Appoggiato al sedile anteriore, Gabriel protese la mano guantata ad accarezzare un braccio di Ronnie, che rabbrividì, sebbene indossasse una giacca di pelle. «Toccami ancora, e ti faccio mangiare quella mano.» Intanto si scostò per quanto possibile, cioè non molto. Durante il viaggio, Gabriel l'aveva già toccata diverse volte in modo provocante, ed era diventato seccante. «Le mani sono troppo ossute. Preferisco tagli di carne più tenera, soprattutto il seno e la coscia.» Gli occhi grigi di Gabriel erano inquietanti anche alla luce del giorno, forse persino più che di notte. Erano quasi luminosi, e io ero sicura di avere già visto occhi del genere in un passato più o meno recente, anche se non riuscivo a ricordare quando e dove. «Senti, Gabriel, so che sei un rompiscatole e che ti diverti a provocare Ronnie, ma, se non la smetti, scopriamo subito quanto sono efficaci i tuoi poteri di guarigione.» Gabriel si protese verso di me, e non fu un grande miglioramento. «Sono a tua disposizione.» «Sfiorare la morte è davvero l'idea che hai del sesso?»
«Finché fa male...» Ronnie ci guardò a occhi sgranati. «Prima o poi dovrete raccontarmi una delle vostre serate.» «Non ti piacerebbe», dissi. «Perché siamo qui?» chiese di nuovo Raina, che non aveva nessuna intenzione di lasciarsi distrarre da Mr. Cuoio. Buon per lei, ma non per me. Mi fissava intensamente, come se il mio viso fosse la cosa più importante al mondo. Era quello che piaceva a Marcus? Molti uomini sono estremamente lusingati da un'attenzione così totale. E poi, non lo siamo forse tutti? «Ronnie?» Dalla borsetta, Ronnie prese alcune fotografie che non avevano nessun bisogno di spiegazioni. George era stato tanto imprudente da non tirare le tende. Spaparanzato sul sedile posteriore, Gabriel sfogliò le foto con un gran sorriso sulla faccia. Soffermandosi su una in particolare, rise. «Impressionante!» La reazione di Raina fu molto diversa. Non si divertì affatto, anzi si arrabbiò. «Ci hai chiamati qui per punirlo di avere tradito Peggy?» «Non esattamente», risposi. «Crediamo che sia responsabile della sua scomparsa e, se lo è di una sparizione, potrebbe esserlo anche di altre.» Raina mi guardò con una concentrazione assoluta, come aveva fatto poco prima, ma questa volta fu molto inquietante. Esprimeva pura e semplice collera. George aveva fatto soffrire una femmina del branco, e perciò avrebbe pagato. Non c'era nessuna incertezza nei suoi occhi, soltanto un furore istantaneo. «Lasciate che lo interroghiamo Ronnie e io. Voi due siete qui soltanto per intimidirlo, ammesso che sia necessario.» «Se c'è qualche possibilità che abbia ucciso Jason, non possiamo permetterci tante sottigliezze», replicò Raina. Ero d'accordo con lei, ma non lo dissi. «Parliamo noi con lui. Voi state in disparte con aria minacciosa e basta, a meno che noi non vi chiediamo di intervenire. Okay?» «Sono qui perché me lo ha chiesto Richard», disse Raina. «È un maschio Alfa, quindi ubbidisco ai suoi ordini.» «Chissà perché, non ti ci vedo a ubbidire agli ordini di nessuno.» Mi abbagliò col lampo di un sorriso molto cattivo. «Ubbidisco a chi voglio.» Non ne dubitavo affatto. Col pollice, indicai Gabriel. «E lui? Chi lo ha
chiamato?» «L'ho scelto io. Gabriel sa essere molto minaccioso.» Era grande e grosso, tutto vestito di cuoio e di borchie, coi denti aguzzi... Sì, dovevo riconoscere che era minaccioso. «Voglio la vostra parola che non farete nulla di avventato.» «Richard ha detto che le tue richieste devono essere rispettate, come se fossero suoi ordini», disse Raina. «Grande. E cosa significa, dato che ubbidisci a Richard soltanto se e quando ti fa comodo?» Raina rise, con una sfumatura dura e nervosa. Il genere di risata che faceva pensare agli scienziati pazzi e ai reclusi che erano rimasti troppo a lungo in isolamento. «Lascerò fare a te, Anita Blake, finché farai un buon lavoro, ma Jason appartiene al mio branco, quindi non permetterò che la tua compassione metta a repentaglio la sua vita.» La situazione mi stava piacendo sempre meno. «Non sono una tipa compassionevole.» Sorrise. «Questo è vero. Scusa.» «Quanto a te, non sei un lupo. Che ci fai qui?» Gabriel mostrò i denti aguzzi in un sorriso, ancora intento a sfogliare le foto. «Perché così Marcus e Richard mi dovranno un favore. Anzi tutto il dannato branco sarà in debito con me.» Annuii, perché era un motivo che mi sembrava credibile. «Restituisci le foto a Ronnie, e niente commenti salaci. Fallo e basta.» Cercò di fingersi imbronciato, e ci sarebbe riuscito molto meglio se non avesse avuto le zanne. Comunque, restituì le fotografie a Ronnie e, sfiorandole le dita, indugiò, senza dire niente, proprio come avevo chiesto. Tutti i licantropi prendevano i discorsi così alla lettera? Mentre i suoi strani occhi mi fissavano, ricordai all'improvviso dove li avevo visti. Dietro la maschera, in un film che avrei preferito non vedere affatto. Gabriel era il secondo uomo dello snuff movie. Dato che non avevo dormito abbastanza, non riuscii a nascondere lo sgomento. Mi resi conto che il mio viso si sgretolava, ma non potei impedirlo. Gabriel reclinò la testa, come un cane. «Perché mi guardi come se mi fosse spuntata una seconda testa?» Cosa avrei potuto dire? «I tuoi occhi. Ho appena ricordato dove li ho già visti.» «Sì...» Si avvicinò di più, appoggiando il mento allo schienale, in modo che potessi guardare bene i suoi occhi luminosi. «E dove?»
«Allo zoo. Sei un leopardo.» Fu una bugia da poco, ma non riuscii a escogitare niente di meglio sul momento. Sbatté le palpebre, fissandomi. «Miao! Questo, però, non è quello che stavi pensando.» Sembrava molto sicuro di sé. «Non me ne frega un accidente di niente, che tu mi creda o no. Non avrai altre risposte.» Rimase là, col mento affondato nel sedile. Non gli si vedevano le spalle, quindi la testa sembrava staccata dal corpo, come se fosse impalata su una picca. Immagine precisa, se Edward fosse riuscito a scoprire chi era. E prima o poi lo avrebbe fatto. Io stessa sarei stata felice di dirglielo, se fosse servito a bloccare per sempre la produzione di quei film. Ma naturalmente non potevo esserne sicura, perché erano il parto della mente di Raina. Si poteva forse supporre che lei non fosse a conoscenza del finale alternativo? Ma certo... E come secondo lavoro io facevo Babbo Natale! Ronnie, che mi conosceva fin troppo bene, mi stava fissando. Senza averle parlato degli snuff movie, le avevo appena presentato due dei protagonisti... Smontammo dall'auto nella fredda e soleggiata mattina invernale, poi c'incamminammo sul marciapiede, seguite da un licantropo che avevo visto, in un film porno, assassinare una donna e divorarla mentre ancora palpitava e si muoveva. Pregai Dio che aiutasse George Smitz se era colpevole, e che aiutasse noi tutti se non lo era. Jason era scomparso, e Richard mi aveva detto che era uno dei membri più recenti del branco. Se non era stato George Smitz a farlo fuori, allora chi era l'assassino? 34 Raina mi afferrò la mano prima che potessi suonare il campanello. Fu talmente veloce che non ebbi il tempo di reagire. Poi, in modo che avvertissi la forza della sua mano delicata, mi conficcò nel polso le unghie lunghe perfettamente curate, ma senza ferirmi. Ma il suo sorriso disse che avrebbe potuto farlo facilmente. Sorrisi anch'io, sapendo che, per quanto fosse forte, non era una vampira. Avrei scommesso di poter sfoderare la pistola prima che finisse di stritolarmi il polso. Comunque, mi lasciò senza fare danni. «Forse io e Gabriel dovremmo entrare dalla porta posteriore, se vuoi che restiamo in disparte...» Continuò a sorridere, mostrandosi molto, ma molto ragionevole. Le impronte delle sue unghie non erano ancora scomparse dalla mia pelle. «Voglio dire... Guardaci, Ms. Blake, anche se stiamo zitti, non può igno-
rarci.» Aveva ragione. «Come farete a entrare se la porta posteriore è chiusa a chiave?» Raina mi guardò in modo degno di Edward, come se le avessi fatto una domanda molto stupida. Ero forse l'unica a non saper forzare le serrature? «Okay, andate pure.» Raina sorrise e si allontanò, coi capelli castano-ramati che scintillavano sulla pelle di volpe e gli stivali marroni dai tacchi alti che lasciavano piccole impronte nella neve, che stava già cominciando a sciogliersi. Gabriel la seguì, accompagnato dal tintinnio delle catenelle della giubba di cuoio. Con gli stivali da cowboy borchiati, cancellò quasi di proposito le orme delicate di Raina. «Nessuno potrebbe mai scambiarli per venditori porta a porta», commentò Ronnie. Guardai i nostri jeans, le mie Nike, i suoi stivali, la mia giacca di cuoio e la sua lunga giacca di pelle. «Vale anche per noi.» «Ben detto.» Suonai il campanello. Restammo nella veranda ad ascoltare il gocciolio della grondaia. Era uno di quegli strani disgeli invernali per cui il Missouri era famoso. Il manto nevoso si scioglieva come un pupazzo di neve al sole. Comunque non sarebbe durata. Tanta neve a dicembre era insolita. Normalmente cominciava a nevicare davvero soltanto in gennaio o in febbraio. Smitz stava impiegando un po' troppo tempo per venire ad aprire, quando sentii finalmente un movimento, abbastanza pesante per essere quello di una persona. George Smitz aprì la porta, con un grembiule insanguinato sopra i jeans e una T-shirt azzurra. Aveva anche una spalla insanguinata, come se avesse trasportato un grosso pezzo di carne. Si sfregò le mani aperte sul grembiule, ripetutamente, come se non riuscisse a pulirle. Forse era semplicemente poco abituato a essere tutto imbrattato di sangue o, forse, aveva i palmi sudati. Sorrisi, offrendogli la mano, e lui la strinse. In effetti aveva i palmi sudati, era nervoso. «Come sta, Mr. Smitz?» Strinse la mano anche a Ronnie, poi ci fece entrare in un piccolo ingresso, con un armadio a muro e, di fronte, un tavolino con un vaso pieno di fiori in seta gialla sotto uno specchio. Le pareti erano tinte di un giallo chiaro simile a quello dei fiori. «Volete darmi le giacche?»
Se era un assassino, era il più cortese che avessi mai incontrato. «No, grazie, non importa.» «Peggy mi sgridava sempre, se non chiedevo agli ospiti di darmi le giacche: 'George! Non sei mica cresciuto in una stalla! Chiedi ai signori se vogliono darti le giacche!' Così diceva...» L'imitazione sembrò ben riuscita. Ci spostammo in un soggiorno con carta da parati gialla a fiorellini marroni. Il divano, il divanetto e la poltrona reclinabile erano di un giallo molto chiaro, quasi bianco. Sul tavolo di legno chiaro c'era un altro vaso pieno di fiori in seta, gialli. Le cornici dei quadri alle pareti, i soprammobili sugli scaffali, persino la moquette erano gialli. Sembrava di essere all'interno di una goccia di limone. Forse George lo capì dalla mia espressione, o forse ci era abituato. «Il giallo era il colore preferito di Peggy.» «Era?» «Voglio dire... è... Oh, Dio!» Crollò sul divano color limone, coprendosi il viso con le grosse mani. Era l'unica cosa della stanza che non si adattava alle tendine di pizzo giallo. «L'incertezza è così frustrante.» Ci guardò con gli occhi pieni di lacrime. Un'interpretazione da Oscar. «Ms. Sims ha detto di avere notizie di Peggy... L'avete trovata? Sta bene?» I suoi occhi erano così sinceri che faceva male guardarli. Non sembrava affatto che stesse mentendo. Se non avessi visto le fotografie che lo ritraevano insieme con un'altra donna, non lo avrei mai creduto. Naturalmente, l'adulterio era ben diverso dall'omicidio. Poteva essere colpevole dell'uno e non dell'altro. Certo... Ronnie era seduta sul divano, ma il più lontano possibile da lui. Comunque, riusciva a essere abbastanza socievole, più di quanto fossi disposta a essere io con quel figlio di buona donna. Se mai fossi riuscita a sposarmi e mio marito mi avesse tradita, non sarei stata io la persona scomparsa. «La prego, Ms. Blake, si accomodi. Mi scusi, non sono molto bravo come ospite.» Mi appollaiai sul bordo della poltrona reclinabile gialla. «Credevo che lavorasse nell'edilizia, Mr. Smitz. Come mai quel grembiule?» «Quando non fu più in grado di gestire il negozio da solo, anni fa, il padre di Peggy lo cedette a lei, che da allora fa quasi tutto, così... Forse dovrò lasciare il mio lavoro, ma sa... Siamo una famiglia, non posso lasciarlo nei guai. Ha quasi novantadue anni e non può più mandare avanti la bottega da solo.»
«Sarà lei a ereditare la macelleria?» chiesi. Eravamo già entrate automaticamente nei ruoli dello sbirro buono e dello sbirro cattivo. Indovinate qual era la mia parte? Mi fissò, sbattendo le palpebre. «Be', sì... Immagino di sì.» Questa volta non chiese nuovamente se sua moglie stesse bene. Si limitò a fissarmi con occhi pieni di sentimento. «Ama sua moglie?» «Sì, certo. Che razza di domanda è questa?» Cominciò a sembrare meno addolorato e più arrabbiato. «Ronnie...» mormorai. Lei prese le foto dalla borsetta e le porse a Smitz. La prima fotografia lo ritraeva mentre abbracciava una donna bruna. Peggy era bionda. Arrossì, anzi divenne paonazzo, quindi sbatté tutte le foto sul tavolino senza guardare le altre, sparpagliando così le istantanee sue e della sua amante sempre più svestiti, che si baciavano, si palpavano, e sembravano in procinto di farlo in piedi. Con gli occhi che gli schizzavano dalle orbite, sempre più paonazzo, col respiro accelerato e faticoso, si alzò. «Che cosa diavolo sono queste?» «Credo che le fotografie si spieghino da sole», replicai. «L'ho assunta per trovare mia moglie, non per spiare me!» Si girò di scatto a torreggiare su Ronnie, stringendo le grosse mani in pugni ancora più grossi, coi muscoli che si gonfiavano e con le vene che risaltavano come vermi striscianti. Ronnie si alzò, sfruttando il suo metro e settantacinque. Era calma. Se la preoccupava fronteggiare un uomo che pesava quasi cinquanta chili più di lei, non lo dimostrava affatto. «Ci dica... Dov'è Peggy?» Lui mi lanciò un'occhiata, poi guardò di nuovo Ronnie e sollevò una mano, come per colpirla. «Dove ha nascosto il corpo?» Si girò di scatto verso di me, che rimasi seduta a guardarlo. Per mettermi le mani addosso avrebbe dovuto girare intorno al tavolino, oppure saltarlo, perciò mi sentivo al sicuro. All'occorrenza avrei potuto sfoderare la pistola e catapultarlo fuori della finestra. Una prospettiva che mi allettava sempre di più. «Fuori!» Intanto, Ronnie si era allontanata indietreggiando, così lui era rimasto là come una montagna dalla faccia purpurea, girandosi dall'una all'altra di
noi. «Fuori da casa mia!» «Non possiamo, George. Sappiamo che l'hai uccisa tu.» Forse sappiamo era una parola un po' grossa, ma siamo sicure che l'hai uccisa tu non sarebbe suonato altrettanto bene. «Se non hai davvero intenzione di cominciare a menare le mani, ti consiglio di rimetterti a sedere.» «Sì, George, rimettiti seduto.» Non mi girai per vedere dove fosse Raina. Non credevo che Smitz volesse davvero aggredirmi, ma era sempre meglio essere prudenti. Distogliere lo sguardo da un tizio che pesava un centinaio di chili sarebbe stata una pessima idea. Lui fissò Raina e sembrò confuso. «Che diavolo significa questo?» «Oh, mio Dio!» esclamò Ronnie, guardando fisso alle mie spalle, a bocca aperta. Dietro di me stava succedendo qualcosa, ma cosa? Mi alzai, sempre senza perdere di vista George, che però non guardava più me. Mi allontanai da lui per rimanere a distanza di sicurezza e, così, potei vedere la porta. Raina indossava un pagliaccetto di seta marrone e scarpe coi tacchi alti. E basta. La pelliccia era aperta e la fodera sanguigna esaltava drammaticamente le curve del suo corpo. «Avresti dovuto restare nascosta!» Raina lasciò cadere la pelliccia, quindi attraversò la stanza, ondeggiando tutto quello che si poteva scuotere. Ronnie e io ci scambiammo un'occhiata. Lei pronunciò silenziosamente la domanda: «Che sta succedendo?» E io, che non ne avevo la più pallida idea, scrollai le spalle. Raina si curvò sul vaso pieno di fiori di seta sul tavolino, offrendo a Smitz la possibilità di osservare per un lungo momento tutto il suo snello fondoschiena. Impallidendo, George aprì lentamente le mani e sembrò confuso. Benvenuto nel club. Raina gli sorrise e si alzò molto lentamente, in modo da offrirgli una vista completa del seno sodo. Gli occhi di lui erano incollati alla sua scollatura. Lei si accarezzò lentamente il seno e il ventre, con una bella passata finale fra le cosce. George sembrò avere qualche difficoltà a deglutire. Raina gli si avvicinò. Da pochi centimetri di distanza, alzò la testa a guardarlo e sussurrò, con le tumide labbra sensuali: «Dov'è Jason?» Lui si accigliò. «Chi è Jason?» Lei gli accarezzò una guancia con le unghie smaltate, che in un attimo si
sguainarono e si allungarono, trasformandosi in artigli dalla punta color zucca. Glieli spinse sotto il mento, trattenendosi a stento dallo squarciargli la pelle. «La più piccola pressione, e ti ritroverai a divertirti a ululare una volta al mese.» Era una balla, perché Raina era ancora in forma umana e, quindi, non era contagiosa, ma George era ormai pallido come carta. «Dov'è il corpo di tua moglie?» chiesi. La minaccia era così efficace da valere più di una domanda. «Io non capisco...» «Non mentirmi, George. Non mi piace.» Raina sollevò l'altra mano e sfoderò gli artigli, simili a pugnali sguainati. Lui gemette. «George...» sussurrò lei. «Dov'è Peggy?» Nonostante la minaccia implicita, la sua voce fu ancora seducente, come se avesse mormorato: Ti amo. Sempre premendogli gli artigli sotto il mento, abbassò lentamente l'altra mano. Lui la seguì con gli occhi e cercò di chinare la testa, ma gli artigli glielo impedirono, strappandogli un rantolo. Con due rapidi colpi, Raina squarciò il grembiule insanguinato senza neanche toccare la T-shirt sottostante. Puro talento. «Io... L'ho uccisa. Ho ucciso Peggy. Oh, Dio... Le ho sparato!» «Dov'è il corpo?» chiesi, perché Raina sembrava divertirsi troppo col suo gioco per prestare attenzione a tutti i dettagli. «È sepolto nella rimessa qua dietro, che non è pavimentata.» «Dov'è Jason?» domandò Raina, premendo la punta degli artigli sui jeans, in corrispondenza dei genitali. «Oh, Dio... Non so chi sia Jason...» George parlò a fatica, ansimando. «Ti prego... Non lo so! Non lo so!» Allora Gabriel entrò nella stanza. Aveva lasciato la giacca da qualche parte, perché indossava soltanto una T-shirt nera aderente sopra i jeans e gli stivali. «Non ha abbastanza fegato per aver fatto fuori Jason e gli altri.» «È così, George? Non hai abbastanza fegato?» Raina gli schiacciò il seno sul petto, sempre premendogli gli artigli sulla gola e sui genitali, poi trafisse i jeans senza strapparli. «Ti prego... Non farmi male.» Raina avvicinò moltissimo il proprio viso a quello di lui e spinse con gli artigli, obbligandolo ad alzarsi in punta di piedi per evitare che gli tagliassero la gola. «Sei patetico.» E affondò gli artigli nei jeans.
George svenne. Raina fu costretta ad abbassare le mani per non squarciargli la gola e il ventre. Un pezzo di jeans quasi perfettamente circolare le rimase infilato negli artigli. Le mutande bianche si vedevano attraverso il foro nei calzoni. Gabriel si accosciò accanto a George. «Non è stato questo umano a far fuori Jason.» «Un vero peccato», commentò Raina. Sì, era un vero peccato. Qualcuno aveva eliminato otto... anzi sette licantropi. L'ottava vittima era stata Peggy Smitz, e adesso il suo assassino era steso sul tappeto. Chi aveva ucciso gli altri e perché? Per quale motivo qualcuno avrebbe eliminato, o rapito, sette licantropi? Qualcosa scattò nella mia mente. Il naga era stato scuoiato vivo. Se fosse stato un licantropo, una strega avrebbe potuto usare la sua pelle per trasformarsi in serpente. Era un modo per diventare licantropi, senza però gli effetti collaterali, come essere schiavi dei cicli lunari. «Anita, stai bene?» chiese Ronnie. «Devo andare all'ospedale a parlare con qualcuno.» «Cosa?» Un'occhiata bastò perché Ronnie capisse. «Benissimo. Chiamo gli sbirri. Però guido io.» «Dannazione!» Avevo appena intravisto una macchina passare in strada. Una Mazda verde. «Ho trovato un passaggio.» Aprii la porta e uscii, agitando un braccio. L'auto rallentò, poi si fermò in doppia fila, accanto a quella di Ronnie. Il finestrino si abbassò con un ronzio. Al volante c'era Edward, con gli occhi nascosti da un paio di occhiali neri. «Sto seguendo Raina da giorni. Come hai fatto a scoprirmi?» «Fortuna cieca.» Sorrise. «Non tanto cieca...» «Mi serve un passaggio.» «E Raina, col suo amichetto vestito di cuoio?» Pensai di dirgli che Gabriel era il secondo licantropo dello snuff movie, ma, se lo avessi fatto in quel momento, Edward sarebbe entrato in casa ad ammazzarlo, o almeno avrebbe rifiutato di accompagnarmi all'ospedale. Era una questione di priorità. «Possiamo accompagnarli a casa, oppure lasciare che prendano un taxi...» «Vada per il taxi.» «Lo preferisco anch'io.»
Edward girò l'angolo e mi aspettò in fondo all'isolato. Raina e Gabriel accettarono la soluzione taxi, ma preferirono farsi caricare davanti a un'altra casa, dato che non volevano parlare con gli sbirri. Chissà perché... Io mi scusai con Ronnie e poi raggiunsi Edward, che mi accompagnò all'ospedale, con la speranza che il naga avesse ripreso conoscenza. 35 Un agente in uniforme era di guardia presso la stanza del naga. Edward era rimasto in auto perché, dopotutto, era ricercato dalla polizia. Uno degli svantaggi di lavorare con Edward era che non si poteva collaborare apertamente con gli sbirri. L'agente davanti alla porta era una donna, piccola e bionda, con gli occhi chiari e la coda di cavallo. C'era una sedia, lì accanto, ma lei stava in piedi, con una mano sul calcio della pistola, e mi scrutava sospettosamente a occhi socchiusi. Mi salutò con un cenno della testa. «Lei è Anita Blake?» «Sì.» «Posso vedere un documento d'identità?» chiese in tono duro, inflessibile. Doveva essere una nuova, perché soltanto le reclute avevano quell'atteggiamento ostentato. Uno sbirro esperto avrebbe saputo imporre la propria autorità in maniera più pacata. Mostrai il tesserino che mi appendevo alla camicia quando dovevo esaminare una scena del crimine. Non era un distintivo della polizia, però non avevo di meglio. Lei lo prese e lo esaminò a lungo, mentre io mi sforzavo di non chiederle se fosse convinta che poi l'avrebbero interrogata in proposito. Non è mai utile far irritare i poliziotti, soprattutto per le sciocchezze. Finalmente mi restituì il tesserino. Aveva gli occhi azzurri e freddi come un cielo d'inverno. Probabilmente si allenava allo specchio tutte le mattine. «Nessuno può interrogare l'uomo in assenza della polizia. Quando ha chiamato per chiedere di parlare con lui, ho contattato il sergente Storr, che sta arrivando.» «Quanto dovrò aspettare?» «Non lo so.» «Senta, un uomo è scomparso e le perdite di tempo potrebbero costargli la vita.» Avevo catturato la sua attenzione. «Il sergente Storr non ha parlato di
persone scomparse.» Avevo dimenticato che gli sbirri non sapevano dei licantropi scomparsi. «Non credo che me la caverei dicendole semplicemente che la tempestività è un fattore essenziale... Che ne pensa di alcune vite in pericolo?» Il suo sguardo duro divenne seccato. «Il sergente Storr è stato molto preciso. Vuole essere presente all'interrogatorio.» «È sicura che fosse il sergente Storr e non il detective Zerbrowski?» Sarebbe stato tipico di Zerbrowski mettermi i bastoni fra le ruote per il puro gusto d'irritarmi. «So con chi ho parlato, Ms. Blake.» «Non intendevo insinuare il contrario, agente. Volevo soltanto dire che Zerbrowski potrebbe essersi confuso sul grado di accesso che mi è consentito quando si tratta di... ehm... testimoni.» «Ho parlato col sergente, e ricordo bene cosa mi ha detto. Ho l'ordine di non farla entrare prima che arrivi lui.» Fui sul punto di ribattere sgradevolmente, ma mi trattenni. L'agente aveva ragione. Era suo dovere ubbidire agli ordini, ed era decisa a farlo scrupolosamente. Lessi il suo nome sulla targhetta. «Benissimo, agente Kirlin. Andrò ad aspettare in sala d'attesa.» Mi girai e mi allontanai prima di aggiungere qualcosa di meno cortese. Avrei voluto far valere l'autorità del grado ed entrare nella stanza, ma non avevo nessun grado e nessuna autorità. Era in casi come quello che ero costretta a ricordare di essere una civile, e non mi piaceva affatto. Sedetti su un divano multicolore, davanti a una delle file di piante che dividevano la sala d'attesa in tre spazi, garantendo un'illusione d'intimità a chi ne aveva bisogno. Un televisore era montato a una parete, in alto, ma nessuno si era ancora preso la briga di accenderlo. Era un ospedale tranquillo. L'unico rumore che si sentiva era quello che proveniva dall'impianto di riscaldamento. Detestavo aspettare. Jason era scomparso. Era forse morto? E, se era vivo, per quanto ancora lo sarebbe rimasto? Per quanto avrei dovuto aspettare? Proprio in quel momento, Dolph svoltò l'angolo. Era stato piuttosto veloce. Mi alzai. «L'agente Kirlin dice che hai accennato a una persona scomparsa. Mi stai forse nascondendo qualcosa?»
«Non per mia scelta. Ho alcuni clienti che non hanno voluto rivolgersi alla polizia, anche se ho cercato di convincerli.» Scrollai le spalle. «Ma, solo per il fatto che io ho ragione e loro torto, non significa che posso rivelare ciò che li riguarda senza il loro consenso.» «Non c'è nessun vincolo di segreto professionale fra risvegliante e cliente, Anita. Se io ti chiedessi l'informazione, saresti legalmente obbligata a fornirmela.» Non avevo dormito abbastanza per affrontare quella situazione. «Altrimenti?» Si accigliò. «Altrimenti finisci al fresco per ostacolo alla giustizia.» «Benissimo. Sbattimi dentro.» «Non forzarmi la mano, Anita.» «Ascolta, Dolph, ti dirò tutto non appena avrò l'okay dei miei clienti. Anzi forse te lo dirò comunque perché sono stupidi. Però se cerchi di costringermi non ti dico un bel niente.» Inspirò profondamente attraverso il naso, poi espirò lentamente. «Benissimo. Andiamo a parlare col nostro testimone.» Apprezzai il fatto che il naga fosse ancora il nostro testimone. «Andiamo.» Lasciammo la sala d'aspetto e c'incamminammo lungo il corridoio, in silenzio. Comunque era un silenzio amichevole, che non era necessario riempire con chiacchiere oziose o battute di spirito. La porta venne aperta da un medico in camice bianco, che portava in spalla lo stetoscopio come se fosse stato un boa di piume. L'agente Kirlin, ancora al suo posto, sempre vigile, mi dedicò il migliore dei suoi sguardi di acciaio inossidabile. Aveva ancora bisogno di lavorarci. Ma, quando si è piccole, bionde, donne e sbirre, bisogna almeno cercare di sembrare dure. «Può parlare soltanto per poco tempo. È un miracolo che sia ancora vivo, figuriamoci in grado di parlare. Rimarrò ad assistere e, se lo turberete, interromperò l'interrogatorio.» «Per me sta più che bene, dottor Wilburn. È una vittima e un testimone, non un sospetto. Non abbiamo nessuna intenzione di minacciarlo.» Anche se non sembrava del tutto convinto, il medico rientrò nella stanza e ci tenne aperta la porta. Dolph torreggiava alle mie spalle come una potenza inamovibile, quindi non mi era difficile capire perché il dottore temeva che intimidissimo il testimone. Dolph non sarebbe riuscito a sembrare innocuo neanche se si fosse sforzato, quindi non ci provava nemmeno.
Il naga giaceva nel letto, tutto coperto di cavi e di tubicini. Si vedevano le chiazze della pelle che si stava già riformando sul suo corpo scorticato. Sembrava ancora che fosse stato bollito vivo, però era migliorato. Girò gli occhi per guardarci, poi mosse la testa molto lentamente, per vederci meglio. «Mr. Javad, ricorda senz'altro il sergente Storr... È tornato con una persona che vuole parlare con lei.» «La donna...» disse il naga, con voce bassa e dolente. Deglutì piano, e riprovò. «La donna del fiume...» Mi avvicinai. «Sì, ero al fiume.» «Mi ha aiutato.» «Ho tentato.» Dolph si avvicinò a sua volta. «Mr. Javad, ci può dire chi è stato a farle questo?» «Streghe», rispose lui. «Ha detto 'streghe'?» chiese Dolph. «Sì.» Dolph mi guardò, senza bisogno di chiedere niente, perché quello era il mio campo. «Ha riconosciuto le streghe? Può dirmi i loro nomi?» Dopo avere deglutito nuovamente, rispose a fatica: «No...» «Dove si trovava, quando le hanno fatto questo?» Chiuse gli occhi. «Sa dove si trovava, quando è stato... scuoiato?» «Sono stato drogato.» «Da chi?» «Donna... Occhi...» «Cosa avevano gli occhi?» «Oceano...» Fui costretta a chinarmi su di lui per udire l'ultima parola, perché la sua voce si stava affievolendo. D'improvviso spalancò le palpebre. «Occhi... Oceano...» Emise un basso suono gutturale, come se stesse soffocando un urlo. Il medico si avvicinò per controllare i segni vitali, toccando con estrema cautela il corpo scorticato. Nonostante ciò, il naga si dimenò per il dolore. Finalmente il medico premette un tasto dell'interfono sul comodino. «È l'ora della medicazione di Mr. Javad. Porti l'iniezione.» «No», disse Javad. Mi afferrò per un braccio e, anche se il movimento gli procurò una sofferenza tale da mozzargli il fiato, non mollò la presa. Le
sue dita erano come calda carne cruda. «Non primo...» «Non primo? Non capisco...» «Altri...» «Hanno fatto questo anche ad altri?» «Sì... Li fermi...» «Lo farò. Lo prometto.» Si lasciò ricadere sul letto, ma non riuscì a restare immobile, perché soffriva troppo. Ogni movimento era doloroso, ma la sofferenza era tale che non riusciva a sopportarla rimanendo fermo. Un'infermiera in camice rosa entrò con una siringa e gli praticò una endovenosa. In pochi istanti, Javad si rilassò, chiuse gli occhi sbattendo le palpebre e si addormentò. La morsa che mi serrava il petto si allentò. Tanta sofferenza era difficile da sopportare, anche solo a guardarla. «Quando si sveglierà dovremo sedarlo nuovamente. Non ho mai visto nessuno con una tale capacità rigenerativa, ma il fatto che riesca a guarire non significa che non soffra.» Dolph mi prese da parte. «'Occhi', 'altri'... Che cosa voleva dire?» «Non lo so.» In parte era vero, perché non sapevo che cosa aveva voluto dire parlando di «occhi», ma sospettavo che gli «altri» fossero i licantropi scomparsi. In quel momento entrò Zerbrowski, che con un cenno chiamò Dolph. Uscirono entrambi in corridoio, mentre l'infermiera e il medico si occupavano del naga. Non potevo certo lamentarmi del comportamento dei due poliziotti. Se io non davo loro le informazioni di cui ero in possesso, perché loro avrebbero dovuto comportarsi diversamente? La porta venne riaperta e Dolph m'invitò con un cenno a uscire. In corridoio non era più di guardia l'agente Kirlin. Probabilmente le era stato ordinato di assentarsi per un po'. «Non siamo riusciti a trovare nessun caso di persona scomparsa che fosse connesso a te», m'informò Dolph. «Hai mandato Zerbrowski a controllare?» Dolph si limitò a scrutarmi con occhi assolutamente freddi e remoti. Occhi da sbirro. «A parte Dominga Salvador», aggiunse Zerbrowski. «Anita ha detto di non sapere che cosa sia successo a Mrs. Salvador.» Dolph continuò a fissarmi con uno sguardo duro, decisamente più efficace di quello dell'agente Kirlin. A stento riuscii a non tradire l'imbarazzo. Dominga Salvador era morta,
e io lo sapevo perché ne ero stata testimone, anzi, metaforicamente parlando, ero stata io a premere il grilletto. Dolph sospettava che avessi qualcosa a che fare con la sua scomparsa, ma non era in grado di dimostrarlo. Inoltre Dominga era stata una donna molto malvagia. Se fosse stata condannata per tutti i crimini di cui era sospettata, la pena di morte sarebbe stata garantita. Alla legge, le streghe non piacevano molto più dei vampiri. Tuttavia, io mi ero servita di uno zombie per ammazzarla, e ciò sarebbe stato sufficiente a mandarmi sulla sedia elettrica. Il mio cercapersone suonò. Salvata dal gong! Lessi il numero senza riconoscerlo, ma non era il caso di dirlo. «Un'emergenza. Devo trovare un telefono.» Me ne andai prima che Dolph potesse dire qualcosa. Mi sembrò la soluzione meno rischiosa. Le infermiere furono così gentili da lasciarmi usare il loro telefono e Richard rispose al primo squillo. «Anita?» «Che succede?» «Sono a scuola. Stamane Louie non si è presentato alle lezioni.» Abbassò tanto la voce, che per sentirlo fui costretta a tapparmi l'altro orecchio. «Stanotte è luna piena, e lui, per evitare di suscitare sospetti, non salterebbe mai le lezioni.» «Perché hai chiamato me?» «Ha detto di avere appuntamento con la tua amica scrittrice, Elvira qualcosa.» «Elvira Drew?» Pronunciando il suo nome, rividi il viso dagli occhi verdeazzurri come l'oceano. Merda! «Credo di sì.» «Quando doveva incontrarla?» «Oggi.» «Ci è andato?» «Non lo so. Sono al lavoro. Non sono ancora passato da lui.» «Hai paura che gli sia successo qualcosa, vero?» «Sì.» «Non sono stata io a organizzare l'incontro. Chiamerò l'ufficio per scoprire chi l'ha fatto. Posso richiamarti a questo numero?» «Adesso devo rientrare in classe, ma tornerò a controllare non appena possibile.» «Okay. Ti richiamo quando so qualcosa.» «Devo andare...» «Aspetta! Credo di sapere che cosa è successo ai licantropi scomparsi.»
«Cosa?» «C'è un'indagine di polizia in corso, quindi non posso discuterne, ma, se parlassi alla polizia delle sparizioni, forse riusciremmo a ritrovare più in fretta Louie e Jason.» «Marcus ti ha detto di non parlarne?» «Già.» Rimase in silenzio per un minuto. «Racconta tutto. Mi assumo io la responsabilità.» «Grande! Ti richiamo.» Soltanto nell'udire il segnale di libero mi resi conto di non aver detto ti amo. Composi il numero dell'ufficio e non appena sentii la voce di Mary non persi tempo in saluti e convenevoli. «Passami Bert.» «Ti senti bene?» «Fallo e basta.» Mary ubbidì senza discussioni. «Anita, ti conviene che sia importante, perché sono con un cliente.» «Oggi hai parlato con qualcuno per un appuntamento con un ratto mannaro?» «Be', sì.» Provai un improvviso dolore allo stomaco. «Quando e dove?» «Questa mattina, intorno alle sei. Mr. Fane voleva passarci prima di andare al lavoro.» «Dove?» «A casa di lei.» «Dammi l'indirizzo.» «Cosa c'è che non va?» «Credo che Elvira Drew abbia teso una trappola a quell'uomo per assassinarlo.» «Stai scherzando, vero?» «L'indirizzo.» Me lo diede. «Forse stanotte non potrò lavorare.» «Anita...» «Risparmiati la solfa, Bert. Se fanno fuori quel tizio, siamo responsabili noi.» «Va bene, va bene... Fai quello che devi.» Riagganciai. Era la prima volta che Bert cedeva, ma ne sarei stata molto più impressionata se non avessi saputo che in quel momento gli stavano
danzando in testa immagini di cause legali. Tornai al nostro gruppetto, che era del tutto silenzioso. «Nella nostra zona sono stati rapiti sette licantropi.» «Di che stai parlando?» chiese Dolph. Scossi la testa. «Ascolta e basta.» Quindi gli raccontai tutto sui licantropi scomparsi, concludendo così: «In questi giorni ne sono spariti altri due. Sospetto che il naga sia stato scuoiato da qualcuno che credeva che fosse un licantropo. Mediante la magia è possibile usare la pelle di un licantropo per trasformarsi, ottenendo tutti i vantaggi della licantropia, come la forza e la velocità sovrumane, ma senza essere condizionati dalla luna». «Perché col naga non ha funzionato?» chiese Zerbrowski. «Perché è immortale. Invece il licantropo deve morire alla fine del rituale.» «Adesso sappiamo cos'è successo», disse Dolph. «Ma dove diavolo sono?» «Ho un indirizzo.» «Come l'hai avuto?» «Te lo spiegherò strada facendo. Il rituale funziona soltanto se viene celebrato di notte, ma non possiamo essere certi che li tengano in vita, perché sicuramente temono che il naga si rimetta abbastanza per parlare.» «Dopo avere visto in che condizioni era la notte scorsa», commentò Zerbrowski, «io non avrei il minimo timore...» «Tu non sei una strega.» Uscimmo. Avrei voluto avere l'appoggio di Edward, perché, se avessimo dovuto affrontare alcune streghe cattive e qualche licantropo in una notte di luna piena, avere le spalle coperte da un tipo come lui non sarebbe stata una brutta idea. Tuttavia non riuscii a escogitare nessun modo per coinvolgerlo. Dolph e Zerbrowski non erano mammolette, però erano sbirri, quindi non potevano sparare alla gente senza avere concesso la possibilità di arrendersi. Ma Elvira Drew aveva scuoiato un naga, perciò non ero per niente sicura di volerle concedere la minima opportunità. Non ero sicura neppure che fossimo in grado di sopravvivere allo scontro. 36 Una folta striscia di alberi e cespugli separava la casa a due piani di Elvira Drew dalla strada. Il cortile, nascosto alla vista, si vedeva soltanto quando si svoltava nel vialetto. C'era bosco tutt'intorno, come se qualcuno
avesse posato la casa laggiù e si fosse scordato di avvertire chicchessia. Un'autopattuglia ci seguì nel vialetto sterrato. Dolph parcheggiò dietro una Grand Am verdemare come gli occhi di Elvira. Nel cortile c'era un cartello con la scritta AFFITTASI. Un altro cartello giaceva accanto, in attesa di essere piantato, probabilmente sulla strada. Nell'auto c'erano due borse e parecchie scatole sul sedile posteriore. La fuga era imminente. «Se è un'assassina, perché ha dato il suo vero indirizzo?» chiese Zerbrowski. «Noi ci accertiamo sempre dell'identità dei clienti, e non soltanto controllando gli indirizzi. Siamo più scrupolosi delle banche.» «Perché?» «Perché ogni tanto capita qualche pazzo, o magari un giornalista di un periodico scandalistico, quindi dobbiamo sapere con chi abbiamo a che fare. Scommetto che ha cercato di pagare in contanti senza mostrare documenti e che, quando le sono state chieste tre serie di dati per verificare la sua identità, è stata colta impreparata.» Dolph ci precedette alla porta e noi lo seguimmo come bravi soldati. L'agente Kirlin era con un collega più anziano, il quale aveva i capelli brizzolati e un po' di pancetta, che però, avrei scommesso, non tremava come gelatina. Aveva scolpita in faccia un'espressione aspra, dalla quale si capiva che aveva visto di tutto e che niente gli era piaciuto. Dolph bussò. Silenzio. Bussò di nuovo, più forte, tanto da far tremare la porta. Finalmente Elvira aprì. Indossava una vestaglia verde brillante legata in cintura ed era perfettamente truccata. Lo smalto delle unghie s'intonava alla vestaglia. I lunghi capelli biondi erano pettinati all'indietro e raccolti con un fazzoletto di un verde appena più azzurro della vestaglia. Gli occhi ardevano dello stesso colore. «Occhi come l'oceano...» mormorò Dolph. «Mi scusi, ma che sta succedendo?» «Possiamo entrare, Ms. Drew?» «Perché?» Non avevamo avuto il tempo di procurarci un mandato, anzi Dolph non era neppure sicuro che ci sarebbe stato concesso quello che avevamo chiesto. Il colore degli occhi non è esattamente una prova. Nascosta dalla corporatura imponente di Dolph, feci capolino, per così dire, mostrandomi alla donna. «Salve, Ms. Drew. Dobbiamo farle qualche domanda a proposito di Louis Fane.»
«Ms. Blake, non sapevo che fosse nella polizia.» Lei sorrise, io pure. Louie era lì e lei ci stava trattenendo per dare a qualcun altro il tempo di ammazzarlo? Dannazione! Se non ci fosse stata la polizia, avrei sfoderato la pistola e sarei entrata. Rispettare la legge ha i suoi svantaggi. «Stiamo indagando sulla scomparsa di Mr. Fane, e lei è stata l'ultima a vederlo.» «Oh, cielo!» Elvira non si spostò dalla soglia. «Possiamo entrare a farle qualche domanda?» chiese Dolph. «Be', non so proprio cosa potrei dirvi... Mr. Fane non si è presentato al nostro appuntamento. Non l'ho visto affatto.» E rimase là, come un bel muro sorridente. «Dovremmo entrare a dare un'occhiata, Ms. Drew, soltanto per un controllo.» «Avete un mandato?» Dolph la scrutò. «No.» Il suo sorriso divenne abbagliante. «Allora mi spiace, ma non posso lasciarvi entrare.» L'afferrai per la vestaglia, stringendola abbastanza per capire che non portava il reggiseno. «Fatti da parte o ti passiamo sopra!» La mano di Dolph calò sulla mia spalla. «Mi scusi, Ms. Drew. Purtroppo Ms. Blake tende a essere un po' troppo zelante.» Lo disse a denti stretti, però lo disse. «Dolph...» «Lasciala, Anita. Subito.» Fissai gli occhi strani di Elvira, e ci vidi qualcosa di diverso, anche se continuava a sorridere. Paura. «Se lui muore, muori anche tu.» «I sospetti non bastano per la condanna a morte», replicò lei. «Non mi riferivo all'esecuzione della pena capitale.» Lei sgranò gli occhi. Dolph mi tirò per la spalla, obbligandomi a scendere i gradini, mentre Zerbrowski già si scusava per il mio passo falso. «Cosa diavolo credi di fare?» chiese Dolph. «È qui, lo so.» «No, non lo sai. Ho già chiesto un mandato. Per il momento, noi non possiamo entrare, a meno che lei non ce lo permetta, o che lui si affacci alla finestra a chiamare aiuto. Questa è la legge.» «Be', fa schifo.» «Può darsi, ma siamo poliziotti. Se non la rispettiamo noi, chi lo fa?»
Incrociai le braccia, conficcandomi le dita nelle carni, per non cedere all'impulso di correre in casa a spaccare la faccia perfetta di Elvira Drew. Là dentro c'era Louie, e la colpa era mia. «Vai a fare una passeggiata, Anita, e vedi di calmarti.» Alzai la testa per guardarlo. Avrebbe potuto dirmi di andare a sedere in macchina, ma non lo aveva fatto. La sua faccia inespressiva da sbirro era impenetrabile. «Una passeggiata... Buona idea!» M'incamminai verso il bosco senza che Dolph mi richiamasse, anche se sicuramente sapeva che cosa stavo per fare. Mi addentrai fra gli alberi spogli, sotto le gocce di neve sciolta che mi cadevano sulla testa e sul viso, finché non riuscii più a vedere chiaramente le persone davanti alla casa. D'inverno si vede abbastanza lontano anche nei boschi, ma per il nostro giochetto era sufficiente. Tornai verso la casa, impregnandomi le Nike di neve sciolta, sul fradicio tappeto di foglie. Avevo due pistole e due pugnali, dato che avevo sostituito quello che Gretchen non mi aveva mai restituito. A suo tempo, me n'ero fatti fare quattro uguali, perché era difficile trovare pugnali che contenessero abbastanza argento per ammazzare i mostri e non perdessero il filo. Però non potevo ammazzare nessuno. Il mio compito era quello di entrare, trovare Louie e chiamare aiuto, perché, se qualcuno avesse chiamato aiuto dall'interno della casa, la polizia avrebbe potuto entrare anche senza mandato. Erano quelle le regole. Se non avesse avuto il sospetto che la vita di Louie era in pericolo, Dolph non mi avrebbe mai permesso di fare quello che stavo facendo. Nonostante la legge, star seduti fuori ad aspettare che il sospetto ammazzasse la sua prossima vittima era dura da mandar giù. Mi accosciai al riparo della fila di alberi dietro la casa. Nella veranda posteriore vidi due porte, una delle quali con un vetro. A St. Louis, molte case hanno il seminterrato e, ad alcune di quelle più vecchie, cui si accedeva, in origine, soltanto dall'esterno, sono state aggiunte una verandina e una porta. Per nascondere qualcuno, il seminterrato sembrava il posto più adatto. E, se si fosse rivelato soltanto un ripostiglio, non sarei entrata. Osservai le finestre del primo piano, dove tutte le tende erano tirate. Se c'era qualcuno a spiare, lassù, non potevo vederlo. Potevo soltanto sperare che l'eventuale qualcuno non mi notasse. Attraversai il prato senza sfoderare la pistola. Erano streghe, e le streghe, come regola generale, non sparano, anzi, se sono streghe vere, non ricorrono granché alla violenza. Le seguaci della Wicca non hanno niente a che fare coi sacrifici umani. Comunque, il termine «strega» designa molte cose
diverse e, sebbene alcune di queste possano diventare molto spaventose, di rado usano le armi da fuoco. M'inginocchiai accanto alla porta della veranda e accostai la mano alla maniglia il più possibile, senza toccarla. Nessun calore, nessun... Diavolo, non c'è parola, né definizione. In ogni caso, non era stato lanciato nessun incantesimo sulla maniglia. Talvolta persino le streghe buone incantano le porte d'ingresso, in modo da essere preavvisate in caso di furto con scasso o di aggressione. Poniamo che l'intruso entri senza rubare niente: l'incantesimo gli rimane addosso, permettendo alla strega e ai suoi amici di rintracciarlo. Ma le streghe cattive possono fare molto di peggio e, dato che avevamo già stabilito a quale categoria appartenevano quelle che occupavano la casa, la prudenza sembrava una buona tattica. Bastò spingere un po' con la punta di un pugnale per aprire la porta. Non l'avevo forzata, ma era pur sempre violazione di domicilio. Dolph mi avrebbe arrestata? Probabilmente no. Però lo avrebbe fatto se Elvira mi avesse costretta a spararle in assenza di testimoni. Mi avvicinai alla porta che speravo conducesse al seminterrato. La sfiorai, ed ecco l'incantesimo. Non sono una strega, quindi non so decifrare i sortilegi. Tuttavia li percepisco, e questo è più o meno il mio limite. Ah, c'è un'altra cosa: posso spezzarli, anche se per riuscirci devo proiettare un'esplosione di potere. Così, attinsi a ciò che mi consente di resuscitare i morti, qualunque cosa sia, e afferrai la maniglia. In genere funziona, ma è come sfondare una porta senza sapere cosa c'è dall'altra parte. Si può anche finire col beccarsi una scarica di pallettoni in faccia. Il vero problema era che, se anche fossi riuscita a passare indenne, chi aveva gettato l'incantesimo lo avrebbe saputo. Ma che diavolo! Una strega in gamba avrebbe percepito l'accumularsi del mio potere ancor prima che toccassi la maniglia. Se dietro la porta ci fosse stato Louie, tanto meglio. Lo avrei protetto finché alle mie grida non fosse accorsa la cavalleria. Altrimenti le streghe avrebbero potuto lasciarsi prendere dal panico e farlo fuori. Nella maggior parte dei casi, le streghe, buone o cattive, sono adoratrici della natura, fino a un certo punto, però. Se si fosse trattato di seguaci della Wicca, avrebbero celebrato i loro riti all'aperto. In quel caso, invece, un luogo chiuso e buio avrebbe potuto essere sufficiente. Se avessi dovuto compiere un sacrificio umano, avrei imprigionato la vittima il più vicino possibile al luogo cerimoniale, quindi stavo rischiando grosso. Forse stavo commettendo un errore e loro avrebbero ucciso
Louie... No, non volevo più indugiare sulle prospettive peggiori. Era ancora giorno, un pomeriggio invernale con un pallido sole grigio. Le mie capacità si manifestano soltanto dopo il tramonto. Durante il giorno posso percepire i morti e fare alcune cose, ma sono limitata. Tuttavia, il mio approccio alla magia è simile al mio carattere. Dritto avanti e forza bruta. Comunque, ero fiduciosa nel fatto che i miei poteri fossero più potenti dell'incantesimo. Quindi, più o meno, in teoria sarei stata in grado di sopportare più colpi di quelli che il mio avversario, femmina o maschio che fosse, sarebbe stato in grado d'infliggermi. Era valida anche durante il giorno? Non avremmo tardato a scoprirlo. Avevo soltanto un dubbio a proposito dell'incantesimo: proteggeva esclusivamente la maniglia? Era possibile. Quanto a me, se fossi stata al posto della strega, non mi sarei affidata soltanto all'incantesimo, bensì avrei anche chiuso la porta a chiave. Perché non tagliare fuori anche l'uomo comune? Sfoderai la Browning e indietreggiai. Poi mi concentrai, non sulla serratura, ma su un punto accanto a essa, e aspettai finché quel pezzo di legno non diventò l'unica cosa esistente. Una sorta di silenzio mi riempì le orecchie. Calciai con tutta la forza che avevo. La porta tremò, ma senza aprirsi. Altri due calci e il legno si schiantò e la serratura cedette. Non fu un'esplosione di luce. Se ci fosse stato qualche spettatore, non avrebbe visto un accidente di niente, tranne me che cadevo all'indietro. Mi prudeva tutto il corpo come se avessi infilato un dito in una presa di corrente. Mentre strisciavo verso la porta aperta, sentii il rumore di qualcuno che correva all'interno della casa. Mi alzai faticosamente aggrappandomi a un corrimano. Una corrente d'aria fredda mi sferzò il viso. Cominciai faticosamente a scendere i gradini. Dovevo trovare Louie prima che Elvira trovasse me. Se non avessi scoperto nessuna prova, lei avrebbe potuto farmi arrestare per violazione di domicilio e la nostra situazione sarebbe peggiorata. Scesi la scala barcollando, aggrappata alla ringhiera con la mano libera e con la pistola nell'altra. L'oscurità sembrava velluto nero. Non vedevo un accidente di niente, a parte un filo di luce che proveniva da fuori. Anche per vedere al buio ho bisogno di un po' di luce, dopotutto. Sentii un rumore di passi alle mie spalle. «Louie, sei laggiù?» Qualcosa si mosse nell'oscurità sotto di me, e sembrò qualcosa di grosso.
«Louie?» Elvira apparve in cima alla scala, stagliandosi a figura intera nella luce che l'avvolgeva come un alone. «Ms. Blake, devo insistere affinché esca subito da casa mia.» Avevo ancora la pelle accapponata a causa del sortilegio. Riuscivo a reggermi in piedi soltanto perché mi aggrappavo al corrimano. «Hai lanciato un incantesimo sulla porta?» «Sì.» «Sei brava...» «Non abbastanza, a quanto pare. Adesso, però, devo davvero insistere. Se ne vada.» Un ringhio provenne dall'oscurità. Non sembrò la voce di un ratto, e di sicuro non era umana. «Esci, fatti vedere, ovunque tu sia!» esclamai. Il ringhio divenne più forte e più vicino. Qualcosa di grosso e di villoso sfrecciò attraverso la zona pallidamente illuminata. Fu sufficiente. In caso, potevo giustificarmi dicendo di avere creduto che fosse Louie. Saldamente aggrappata al corrimano, gridai, chiamando aiuto con tutto il fiato che avevo in corpo. Elvira si girò di scatto a guardare indietro. In lontananza si udirono le grida dei poliziotti che accorrevano alla porta principale. «Che tu sia maledetta!» «Le parole non costano niente.» «Non saranno più soltanto parole, non appena ne avrò il tempo.» «Sei fregata.» Invece di scappare, Elvira rientrò in casa. Avevo sbagliato? Mi trovavo laggiù con qualche altra palla di pelo? Magari Jason? «Jason?» Qualcosa si avvicinò alla scala e guardò su, verso la luce fioca. Era un cane, un grosso bastardo dalla pelliccia folta. Era grande come un pony, ma non era un licantropo. «Dannazione...» Ringhiò di nuovo. Mi alzai e cominciai a risalire. Non volevo sparargli. Dove si era cacciato Dolph? Ormai avrebbe dovuto essere lì. Il cane mi lasciò risalire. A quanto pareva, aveva soltanto il compito di proteggere il seminterrato. Be', a me stava benissimo. «Bravo cagnolino.» Finalmente raggiunsi la porta sfondata, la richiusi di scatto, rumorosa-
mente, e mi aggrappai alla maniglia. Il cane la urtò con uno schianto, ma rimase chiusa. Lentamente aprii la porta posteriore della casa, affacciandomi a una cucina lunga, stretta e quasi bianca. Dalla facciata giungevano voci. Un cupo brontolio che si diffondeva echeggiando in tutta la casa mi fece rabbrividire. «Non c'è bisogno che si faccia male nessuno», disse Dolph. «Esatto», convenne Elvira. «Andatevene subito, e nessuno si farà male.» «Non possiamo andarcene.» Un passaggio che costeggiava una rampa di scale conduceva dalla cucina verso il soggiorno e le voci. Controllai la scala, che era deserta, quindi proseguii con prudenza verso le voci, e udii nuovamente il brontolio, questa volta più vicino. «Anita!» urlò Dolph. «Vieni subito qui!» Trasalii, sapendo che non poteva avermi vista. La porta sul soggiorno era aperta. Mi piegai su un ginocchio e sbirciai oltre. Elvira stava di fronte ai poliziotti, affiancata da un lupo grande come un pony, che a prima vista avrebbe potuto essere scambiato per il grosso cane che stava nel seminterrato. Era un bel camuffamento. Vedendo il lupo, i vicini avrebbero creduto che fosse il cane. C'era anche un leopardo nero, dalla pelliccia folta e liscia, che avrebbe fatto vergognare qualunque felino di Halloween e che aveva bloccato Zerbrowski in un angolo. Gli arrivava con la spalla alla cintura. Cristo... Era gigantesco. Perché i poliziotti non avevano sparato? Avevano la facoltà di farlo, per difendersi. «Sei Louie Fane oppure Jason?» chiese Dolph. Rendendomi conto che stava interrogando un licantropo, ricordai di non avergli specificato in quale animale si trasformava Louie. In effetti, il lupo avrebbe potuto essere Jason, anche se non sapevo perché stava aiutando Elvira. Ma non avevo bisogno di saperlo. Mi alzai e varcai la soglia. Forse il movimento fu troppo improvviso o, forse, semplicemente il leopardo si era già spazientito, perché balzò ad attaccare Zerbrowski, che fece fuoco. Il lupo si girò verso di me, e tutta l'azione rallentò. Ebbi l'illusione di avere a disposizione un'eternità per prendere la mira e premere il grilletto. Tutte le armi presenti nella stanza fecero fuoco. Il lupo crollò col cervello spappolato dalla mia pallottola, nonché colpito da altri proiettili, anche se
non avrei saputo dire esattamente chi li avesse sparati. Le urla di Zerbrowski colmarono il silenzio echeggiante, mentre il leopardo gli stava addosso, straziandolo con gli artigli. Dolph sparò un'altra volta, poi gettò la pistola sul pavimento e cercò di afferrare il felino, che si girò di scatto per colpire con gli artigli affilati come pugnali. «Dolph, a terra! Lo inchiodo io!» Lui cercò di togliersi dalla linea di tiro, ma il leopardo gli saltò addosso, atterrandolo. Con la pistola puntata, mi avvicinai alla massa rotolante. Se gli avessi sparato, anche Dolph sarebbe morto. M'inginocchiai e conficcai la pistola nella pelliccia calda, poi, mentre gli artigli mi straziavano il braccio, premetti il grilletto due volte. Il felino si afflosciò, si dibatté e, infine, morì. Dolph mi fissò, sbattendo le palpebre. Aveva una guancia insanguinata, però era vivo. Mi alzai, sentendomi tutto il braccio sinistro intorpidito, segno che le ferite erano gravi. Non appena il torpore fosse svanito, avrei dovuto farmi visitare da un medico. Zerbrowski giaceva sulla schiena, tutto coperto di sangue. M'inginocchiai accanto a lui, posando la Browning sul pavimento, e gli tastai il collo. Era vivo. Avrei voluto piangere di sollievo, ma non ne ebbi il tempo, perché mi accorsi della nera chiazza di sangue sul suo addome. Scostai la giacca e rischiai di vomitargli addosso. Se avesse visto la mia reazione, forse avrebbe riso di me. Quasi sbudellato dal felino, aveva le viscere che si riversavano dalla ferita. Quando cercai di togliermi la giacca per comprimergli il ventre, mi accorsi di avere il braccio sinistro come paralizzato. «Qualcuno mi aiuti!» Ma nessuno lo fece. L'agente Kirlin aveva ammanettato Elvira, che aveva la vestaglia verde aperta: sotto non portava nient'altro. Piangeva per i suoi compagni caduti. «È vivo?» chiese Dolph. «Sì.» «Ho chiamato un'ambulanza», disse l'altro agente in uniforme. «Vieni qui e aiutami a fermare l'emorragia.» Lui mi guardò, con espressione piuttosto vergognosa. Né lui né Kirlin si mossero. «Che avete voi due? Aiutatemi!» «Non vogliamo prenderla.» «Che cosa?»
«La malattia.» Strisciai vicino al leopardo, che era enorme anche da morto. Era quasi il triplo di un leopardo normale. Gli tastai il ventre finché non trovai il fermaglio. Non un bottone, né una fibbia, ma il fermaglio che tratteneva la pelliccia avvolta intorno a un uomo nudo. La aprii. «Possono assumere forma animale, ma non sono licantropi. È un incantesimo. Non sono contagiosi, vigliacco figlio di puttana!» «Anita, non esagerare.» La voce di Dolph suonò così strana e così distante, che gli ubbidii. L'agente si tolse il giubbotto e lo posò su Zerbrowski, poi premette, ma con una certa prudenza, come se ancora diffidasse del sangue. «Allontanati!» Mi appoggiai al giubbotto con tutto il peso per impedire la fuoriuscita delle viscere, che si mossero sotto la mia mano come se fossero vive, con un rumore fradicio. Erano calde. «Quando diavolo ti deciderai a fornire alla tua squadra delle munizioni d'argento?» chiesi. Dolph quasi rise. «Presto, spero.» Forse avrei potuto regalarne loro qualche scatola per Natale. Implorai Dio perché concedesse a tutti noi il privilegio di arrivare vivi a Natale e tornai a fissare il viso pallido di Zerbrowski. Dopo essermi accorta che aveva perduto gli occhiali nella lotta, guardai intorno senza riuscire a trovarli. Mi sembrava importante. Così, inginocchiata nel sangue, piansi perché non riuscivo a trovare quei dannati occhiali. 37 Dopo avere ricucito Zerbrowski, i medici non ci dissero niente, se non che era sotto osservazione, ma in condizioni critiche. Anche Dolph era ricoverato. Non era grave, però avrebbe dovuto restare in ospedale un giorno o due. Purtroppo Zerbrowski non riprendeva conoscenza, così rimasi ad aspettare e, nel frattempo, arrivò sua moglie Katie. Era soltanto la seconda volta che la vedevo. Era una donna minuta, coi capelli scuri, lunghi e folti raccolti in una coda di cavallo, ed era bella anche senza la minima traccia di trucco. Non ero mai riuscita a immaginare come diavolo avesse fatto Zerbrowski ad accalappiarla. Mi si avvicinò con gli scuri occhi sgranati, stringendo la borsetta al petto come uno scudo, le dita affondate nel cuoio. «Dov'è?» chiese, con voce acuta e al tempo stesso soffocata, simile a
quella di una bambina. Era la sua voce normale. Prima che potessi rispondere, un medico sbucò in fondo al corridoio. Katie lo vide e rimase paralizzata dal terrore. Alzandomi per avvicinarmi a lei, ebbi l'impressioni che stesse fissando il medico come se fosse un mostro scaturito da uno dei suoi incubi peggiori. «È lei la signora Zerbrowski?» chiese il medico. Katie annuì, stringendo la borsetta con le mani tremanti per la tensione. «Suo marito è stabile e sembra in buone condizioni. Ce la farà.» Dopotutto, era Natale. Katie emise un breve sospiro. Nel momento in cui le cedettero le ginocchia, l'afferrai e la sostenni. Si abbandonò a corpo morto, ma non pesava più di quaranta chili. «C'è qui la sala d'attesa, se riesce...» Il medico mi guardò e scrollò le spalle. Sollevai Katie di peso. «Faccia strada.» Quando me ne andai, Katie sedeva al capezzale di Zerbrowski tenendogli una mano. Lui la stringeva come se fosse consapevole della sua presenza, e forse era proprio così. Con lei c'era anche Lucilie, la moglie di Dolph. Volevo restare fino al risveglio di Zerbrowski, ma il medico mi aveva detto che probabilmente avrebbe ripreso conoscenza soltanto l'indomani, e io sapevo di non poter resistere tanto a lungo senza dormire. I nuovi punti di sutura distorcevano la cicatrice da ustione a forma di crocifisso sul mio braccio sinistro. Gli artigli avevano mancato l'ammasso di tessuto cicatriziale nella piegatura del gomito. Quando avevo trasportato Katie, qualche punto aveva ceduto e il sangue era filtrato attraverso le bende, così il medico che aveva operato Zerbrowski mi aveva suturata di nuovo, personalmente, e intanto aveva dedicato parecchia attenzione alle cicatrici. Il braccio, bendato dal gomito al polso, mi faceva male, però eravamo tutti vivi. Louie era stato drogato e legato nel seminterrato. Elvira aveva ammesso di aver scuoiato un lupo mannaro e un leopardo mannaro, nonché il naga, però aveva negato di avere mai visto Jason, che nella casa non era stato trovato. D'altronde, che bisogno avrebbe avuto della pelle di un altro lupo mannaro? Aveva dichiarato, infatti, che lei stessa avrebbe indossato quella del ratto mannaro. Anche quella di serpente, a quanto diceva, era per lei. Ma era molto più probabile che fosse coinvolta almeno un'altra persona che lei non intendeva denunciare. Era una strega e aveva usato la magia per uccidere, perciò la condanna a
morte era assicurata. La sentenza sarebbe stata eseguita entro quarantotto ore dal verdetto, senza appello e senza grazia. Pena di morte. Gli avvocati stavano cercando di convincerla a denunciare l'ipotetico responsabile della scomparsa degli altri licantropi, perché in tal caso sarebbe stato forse possibile commutare la sentenza. Forse... Una strega assassina: non credevo che avrebbe ottenuto clemenza, però non si poteva escludere. Il taxi mi scaricò sotto casa a un'ora decente. Richard sedeva davanti alla porta del mio appartamento. Non pensavo di rivederlo. Dato che era una notte di luna piena e tutto il resto, gli avevo lasciato un messaggio in segreteria per informarlo che Louie era libero e stava bene. La polizia stava cercando di mantenere la riservatezza, soprattutto sull'identità di Louie, e io mi auguravo che ci riuscisse. Se non altro, era vivo. Il cane di Elvira era stato affidato alla protezione animali. «Ho avuto il tuo messaggio. Grazie per aver salvato Louie.» Infilai la chiave nella serratura. «Figurati...» «Noi non siamo riusciti a ritrovare Jason. Credi davvero che lo abbiano rapito le streghe?» Aprii la porta, aspettai che Richard entrasse e la richiusi. «Non lo so. Sono preoccupata anch'io per Jason. Se fosse stato rapito da Elvira, lo avremmo trovato nella casa.» Rimuovendo la pelle di lupo, avevamo scoperto che l'aveva indossata una donna che non conoscevo. Mi recai in camera da letto, come se fossi stata sola, e Richard mi seguì. Provavo una sensazione quasi euforica di lontananza e di vaga irrealtà. Mi avevano tagliato la manica del maglione e quella della giacca. Avevano tagliato anche la guaina, che adesso avevo in tasca insieme col pugnale. Perché al pronto soccorso tagliano sempre tutto quello che trovano? Richard si avvicinò e sollevò le mani all'altezza delle mie spalle, in corrispondenza del braccio ferito, ma non mi toccò. «Non avevi detto di essere ferita.» Squillò il telefono, e io risposi senza riflettere. Una voce maschile chiese: «Anita Blake?» «Sì.» «Sono Williams, il naturalista dell'Audubon Center. Ho riascoltato alcuni dei miei nastri con le registrazioni notturne delle strigi. In uno ho sentito quella che giurerei fosse una iena. Ho informato la polizia, ma ho l'impressione che non abbiano capito cosa significa. Si rende conto di che cosa potrebbe voler dire la voce di una iena?» «Una iena mannara.»
«Sì, è quello che ho pensato anch'io.» Nessuno gli aveva detto che probabilmente l'assassino era un lupo mannaro, tuttavia uno dei licantropi scomparsi era una iena. Forse era vero che Elvira non sapeva che cosa fosse successo agli altri. «Ha detto di avere informato la polizia?» «Sì, infatti.» «A chi ha telefonato?» «Ho chiamato l'ufficio dello sceriffo Titus.» «E con chi ha parlato?» «Aikensen.» «Sa se lui lo ha riferito a Titus?» «No, ma... Perché non avrebbe dovuto farlo?» Già, perché? «C'è qualcuno alla porta. Può aspettare un momento?» «Non credo...» «Torno subito.» «Williams! Non apra la porta!» Stavo già parlando al vuoto. Sentii il rumore dei passi, della porta che si apriva, poi un'esclamazione soffocata di sorpresa, passi più pesanti dei precedenti, qualcuno che sollevava il ricevitore. Lo sentii respirare, ma non disse niente. «Parla, figlio di puttana!» Il respiro divenne più pesante. «Se gli torci anche soltanto un capello, Aikensen, ti apro come un maiale!» Lui rise e riagganciò. Non avrei mai potuto testimoniare in tribunale sull'identità di qualcuno che avevo soltanto sentito respirare e ridere al telefono. «Dannazione!» «Qualcosa non va?» Chiamai il servizio elenco abbonati per avere il numero del dipartimento di polizia di Willoton, quindi premetti il tasto che corrispondeva al servizio per la composizione automatica del numero. «Anita, cosa sta succedendo?» Sollevai una mano per far tacere Richard. Rispose una donna. «Vicecapo Holmes?» Non era lei. Riuscii a farmi passare il capo Garroway insistendo sul fatto che si trattava di una questione di vita o di morte. Riuscii anche a non alzare la voce, meritando così molti punti a mio favore. E finalmente potei for-
nire a Garroway una versione in stile Reader's Digest di quello che era successo. «Non posso credere che un tipo come Aikensen sia coinvolto in una faccenda del genere, comunque manderò una macchina.» «Grazie.» «Perché non hai chiamato semplicemente il 911?» chiese Richard. «Perché sarebbe stata subito avvisata la polizia di contea, e la chiamata avrebbe potuto essere passata proprio ad Aikensen.» Notando gli sforzi con cui cercavo di togliermi la giacca massacrata, Richard mi aiutò a sfilarla dalla spalla sinistra. Senza di lui, forse non ce l'avrei fatta. Però mi resi conto di avere esaurito soprabiti e affini. Ne avevo distrutti due in altrettanti giorni. Afferrai l'unico capo del genere che mi restava, cioè una giacca ampia, lunga e cremisi che avevo indossato soltanto due volte, l'ultima a Natale. Così rossa, sarebbe stata ben visibile anche di notte, quindi, se avessi avuto bisogno di muovermi furtivamente, avrei fatto meglio a togliermela. Richard fu costretto ad aiutarmi a infilare nella manica il braccio sinistro, che faceva ancora male. «Andiamo a liberare Jason», disse. Lo guardai. «Tu non vai da nessuna parte, se non dove vanno i licantropi quando è luna piena, ovunque sia.» «Non riesci neanche a infilare la giacca, come farai a guidare?» Non aveva torto. «Potresti trovarti in pericolo...» «Sono un lupo mannaro adulto, e stanotte è luna piena. Credo di essere in grado di cavarmela.» Aveva uno sguardo remoto negli occhi, come se stesse ascoltando voci che io non avrei mai conosciuto. «D'accordo, andiamo. Per prima cosa, però, dobbiamo salvare Williams. Credo che i mannari siano dalle sue parti, anche se non so esattamente dove.» Mi accorsi che Richard indossava il suo lungo spolverino sopra una T-shirt bianca, un paio di jeans con un ginocchio lacero e strappato, e un paio di scarpe meno che decenti. «Com'è che sei vestito così male?» «Precauzione. Se mi trasformo senza spogliarmi, i vestiti si stracciano. Sei pronta?» «Sì.» «Andiamo.» C'era qualcosa di diverso in lui, una sorta di tensione latente, come acqua sul punto di traboccare. Quando guardai nei suoi occhi marroni, qualcosa si nascose. Là dentro c'era una forma mannara che aspettava di uscire. Finalmente riconobbi cosa percepivo in lui, e cioè un ardore, una brama
impaziente. La bestia dentro di lui guardava il mondo esterno attraverso i suoi sinceri occhi marroni, e non vedeva l'ora di uscire a farsi i fatti suoi. Cosa potevo dire? Uscimmo. 38 Edward era appoggiato alla mia Jeep con le braccia incrociate e il fiato che si condensava. La temperatura si era abbassata di parecchi gradi col buio, l'acqua era ghiacciata e la neve scricchiolava sotto i piedi. «Che ci fai qui?» «Stavo per salire da te quando vi ho visti scendere.» «Che vuoi?» «Voglio giocare.» Lo fissai. «Ah, sì, eh? Non sai che cosa sto facendo, ma vuoi partecipare...» «Seguirti mi permette di ammazzare un sacco di gente.» Triste, ma vero. «Non ho tempo di discutere. Monta.» Lui scivolò sul sedile posteriore. «Esattamente, chi ammazzeremo stanotte?» Richard avviò il motore e io allacciai la cintura di sicurezza. «Vediamo... Un poliziotto corrotto e il rapitore di sette licantropi, chiunque sia.» «Non sono state le streghe?» «Soltanto in parte.» «Credi che dovrò ammazzare qualche licantropo?» Edward voleva stuzzicare Richard, credo. Ma Richard non si offese. «Stavo cercando di capire chi potrebbe essere riuscito a catturarli senza dover lottare... Ebbene, può essere stato soltanto qualcuno di cui si fidavano.» «E di chi avrebbero potuto fidarsi?» chiesi. «Di uno di noi.» «Oh, cielo!» esclamò Edward. «Ci sono licantropi sul menu, stanotte!» Richard non lo corresse. E, se stava bene a lui, stava bene anche a me. 39 Williams giaceva afflosciato su un fianco, ucciso da due colpi d'arma da fuoco al cuore esplosi a distanza ravvicinata. E tanti saluti al dottorato. Gli avevano messo in mano una 357 Magnum. Ero pronta a scommettere
che la scientifica avrebbe trovato tracce di polvere pirica sulla pelle, proprio come se fosse stato davvero lui a sparare. Il vicecapo Holmes e il suo collega, di cui non riuscivo a ricordare il nome, giacevano morti nella neve. La Magnum le aveva strappato via metà del petto, e il suo viso da fatina, nel rilassamento della morte, non era più tanto grazioso. Con gli occhi spalancati a fissare il cielo non sembrava affatto addormentata. Sembrava soltanto morta. Il suo collega era quasi senza faccia. Il sangue e le cervella erano sparse sulla neve, e la mano impugnava ancora la pistola. Anche Holmes era riuscita a estrarre l'arma, per quello che le era servito. Dubitavo molto che uno di loro due avesse sparato a Williams, ma avrei scommesso un mese di paga che una delle loro armi lo aveva fatto. M'inginocchiai nella neve. «Merda...» Richard rimase accanto a Williams, fissandolo come per imprimersene il ricordo nella memoria. «Samuel non aveva armi. Era contrario anche alla caccia.» «Lo conoscevi?» «Ricordi che sono iscritto alla Audubon?» Annuii. Nulla sembrava reale, anzi sembrava tutto finto. Sarebbe riuscito a farla franca? No. «È un uomo morto», mormorai. Edward mi si avvicinò. «Chi?» «Aikensen. Continua a camminare e a parlare, però è già morto. Semplicemente, non lo sa ancora.» «Dove lo troviamo?» chiese Edward. Bella domanda. Purtroppo non avevo una bella risposta. Il mio cercapersone mi strappò un grido, uno di quegli strillini che sono sempre tanto imbarazzanti. Controllai il numero col cuore che mi martellava in petto. Non lo riconobbi. Chi poteva essere? Era tanto importante che dovevo richiamare subito? Comunque non potevo escludere che fosse l'ospedale, cui avevo lasciato il numero del mio cercapersone. Insomma, dovevo richiamare. Dovevo anche informare il capo Garroway che i suoi vice erano caduti in un'imboscata. Decisi di telefonare dalla casa di Williams. Edward mi seguì. Soltanto quando fummo nella veranda mi resi conto che Richard non era con noi. Mi girai, e lo vidi inginocchiato accanto a Williams. Sul momento pensai che stesse pregando, poi mi resi conto che stava toccando la neve insanguinata. Volevo davvero saperlo? Tornai indietro, mentre Edward rimase ad aspettarmi nella veranda sen-
za che glielo avessi chiesto. Un punto per lui. «Richard, tutto bene?» Era una domanda stupida, dato che davanti a lui giaceva morto un uomo che aveva conosciuto. Ma cos'altro avrei dovuto chiedere? La sua mano si chiuse a stritolare la neve insanguinata, poi scosse la testa. Pensai che fosse soltanto arrabbiato o afflitto, poi vidi il sudore sul suo viso. Alzò la testa, a occhi chiusi. Splendente, pesante, argentea, la luna piena illuminava tutto a giorno, là, lontano dalla città. Anche le nubi lacere che correvano nel cielo erano fulgide. «Richard?» «Lo conoscevo, Anita. Abbiamo fatto escursioni insieme per osservare gli uccelli, abbiamo discusso della sua tesi di dottorato... Lo conoscevo, eppure adesso riesco a pensare soltanto all'odore del suo sangue, che è ancora così caldo...» Aprì le palpebre e mi guardò. Attraverso i suoi occhi, in cui c'era tristezza, ma soprattutto oscurità, guardava fuori la bestia che era in lui. Mi girai, incapace di sostenere il suo sguardo. «Devo telefonare. Non mangiare nessuna prova.» E riattraversai il prato innevato, pensando che era stata una notte fin troppo lunga. Chiamai Garroway dal telefono nella cucina di Williams per informarlo di quello che avevamo scoperto. Non appena fu in grado di riprendere a respirare normalmente, imprecò un po', poi disse che sarebbe arrivato di persona. Probabilmente stava pensando che forse, se lo avesse fatto subito, le cose sarebbero andate diversamente. Le decisioni di un comandante sono sempre difficili. Riagganciai, quindi composi il numero apparso sul cercapersone. «Sì?» «Sono Anita Blake. Ho trovato questo numero sul cercapersone.» «Anita, sono Kaspar Gunderson.» L'uomo cigno. «Ciao, Kaspar. Che c'è?» «Hai una voce tremenda. È successo qualcosa?» «Parecchie cose. Comunque, perché mi hai chiamata?» «Ho trovato Jason.» Raddrizzai le spalle. «Stai scherzando?» «No. Adesso è qui, a casa mia. In verità, stavo cercando di contattare Richard. Sai dov'è?» «Con me.»
«Perfetto. Può venire a occuparsi di Jason prima che si trasformi?» «Be', sì... Credo di sì... Perché?» «Io sono soltanto un cigno, Anita, non un predatore. Non sono in grado di controllare un lupo mannaro inesperto.» «Okay, glielo dico. Dove abiti?» «Richard lo sa. Adesso devo tornare da Jason, per mantenerlo calmo. Se perderà il controllo prima che arrivi Richard, dovrò nascondermi. Perciò, se non risponderò al campanello, saprete cos'è successo.» «Sei in pericolo?» «Basta che vi sbrighiate.» E riagganciò. Nel frattempo era entrato Richard, che stava sulla soglia e sembrava attonito, come se stesse ascoltando una musica che soltanto lui poteva sentire. «Richard?» La sua testa si mosse lentamente verso il suono della mia voce, come in un video al rallentatore. Gli occhi erano di un pallido giallo dorato, color dell'ambra. «Cristo...» mormorai. Non distolse lo sguardo, ma sbatté le palpebre, fissandomi coi suoi nuovi occhi. «Che c'è?» «Ha chiamato Kaspar. Ha trovato Jason e ti stava cercando. Dice che quando si sarà trasformato non riuscirà più a controllarlo.» «Jason sta bene?» chiese, in un tono cantilenante. «Sì. E tu, stai bene?» «No. Devo trasformarmi al più presto, altrimenti sarà la luna a scegliere il momento per me.» Non capii esattamente che cosa intendesse dire, ma avrebbe potuto spiegarmelo durante il viaggio. «Guiderà Edward, in caso la luna facesse la sua scelta mentre siamo sulla Highway 44.» «Buona idea. Però Kaspar sta qua sulla montagna.» «Che vuoi dire?» «Kaspar abita in cima alla strada.» «Grande! Andiamo.» «Dovrete lasciare Jason e me lassù.» «Perché?» «Mi assicurerò che non faccia male a nessuno, però dovrà andare a caccia. Lo accompagnerò io, qua nei dintorni. Ci sono parecchi cervi nei boschi.»
Lo fissai. Era ancora Richard, il mio fidanzato, ma... I suoi occhi color ambra spiccavano in maniera sbalorditiva sul viso abbronzato. «Non ti trasformerai dentro l'auto, vero?» «No, non ti metterei mai in pericolo. Ho un controllo assoluto sulla mia bestia. Essere un lupo Alfa significa questo.» «Non avevo mica paura di essere divorata. Semplicemente, non vorrei che tutto quel fluido chiaro mi rovinasse i sedili nuovi.» Sul suo volto lampeggiò un sorriso, che sarebbe stato più confortante se i denti non fossero stati un po' più aguzzi del solito. Dio mio... 40 La casa di Kaspar Gunderson era in pietra o, almeno, era rivestita di granito, col tetto grigio chiaro e con la porta bianca come le finiture. Era semplice, pulita, eppure riusciva a sembrare rustica. Sorgeva in una radura in cima alla montagna, dove la strada finiva con un tornante. Richard suonò il campanello e Kaspar aprì. Nel vederci, sembrò molto sollevato. «Richard, grazie a Dio! È riuscito a restare umano, finora, ma non credo che possa resistere ancora per molto.» E ci tenne aperta la porta. Entrammo, e trovammo due sconosciuti seduti in soggiorno. Quello sulla sinistra era basso, bruno, con occhiali dalla montatura d'acciaio. L'altro era più alto, biondo, con la barba rossiccia. Erano le uniche due cose che stonavano con l'arredamento. Tutto il resto era bianco: moquette, divano, due sedie, le pareti... Era come trovarsi immersi in un cono gelato alla vaniglia. Notando che il divano di Kaspar era uguale al mio, decisi che era giunto il momento di rinnovare l'arredamento. «Chi sono?» chiese Richard. «Non sono dei nostri...» «Puoi ben dirlo.» Titus apparve sulla soglia della cucina con una pistola in mano. «Che nessuno si muova», intimò, con un accento meridionale spesso come una focaccia di mais. Aikensen sbucò dall'unica altra porta del soggiorno, impugnando un'altra Magnum enorme. «Le comprate all'ingrosso?» domandai. «Mi è piaciuta la tua minaccia al telefono. Mi ha eccitato.» Senza volerlo, avanzai di un passo. «Ti prego...» disse Aikensen, puntandomi la grossa rivoltella al petto. Titus teneva sotto tiro Richard, e anche i due tizi seduti avevano sfoderato
le armi. Era proprio una bella festa. Edward era ancora dietro di me. Riuscivo quasi a sentirlo mentre calcolava le probabilità. Lo schiocco dell'otturatore di un fucile alle nostre spalle ci fece trasalire tutti, incluso Edward. Sulla porta dietro di noi c'era un uomo coi capelli grigi, minacciati dalla calvizie incipiente. Impugnava un fucile, puntato alla testa di Edward. Se avesse fatto fuoco, non ne sarebbe rimasto abbastanza da riempire un sacchetto. «Mani in alto! Tutti quanti!» Ubbidimmo. Cosa avremmo potuto fare? «Intrecciate le dita sopra la testa», disse Titus. Di nuovo io ed Edward ubbidimmo subito. Richard fu più lento. «Subito, uomo lupo, altrimenti ti stendo, e magari sforacchio anche la tua amichetta.» Richard intrecciò le dita. «Kaspar, cosa sta succedendo?» Kaspar era seduto sul divano, anzi era comodamente disteso e sembrava del tutto a suo agio, soddisfatto come un gatto sazio... Ehm, come un cigno sazio. «Questi signori pagano una piccola fortuna per cacciare licantropi. Io fornisco le prede e il terreno di caccia.» «Mentre Titus e Aikensen garantiscono che nessuno lo scopra, giusto?» «Le ho detto che ho una certa esperienza di caccia, Ms. Blake», disse Titus. «Il morto era uno dei vostri cacciatori?» I suoi occhi ebbero un guizzo, non proprio distogliendosi, ma come ritraendosi. «Esatto.» Osservai i due sconosciuti armati, senza girarmi a guardare Capelli Grigi. «Voi tre pensate che per cacciare licantropi valga la pena morire?» Il bruno mi guardò con occhi distanti e calmi attraverso gli occhiali rotondi. Se lo impensieriva minacciare con una pistola altri esseri umani, non lo dava minimamente a vedere. Gli occhi del barbuto, invece, giravano tutt'intorno senza mai soffermarsi su niente. Non si stava divertendo. «Perché tu e Aikensen non avete ripulito tutto quel casino prima che Holmes e il suo collega trovassero il cadavere?» «Eravamo a caccia di licantropi», spiegò Aikensen. «Kaspar, siamo la tua gente!» esclamò Richard. «No.» Kaspar si alzò. «Niente affatto. Io non sono un licantropo, e la mia condizione non è neppure ereditaria. Sono vittima della maledizione di
una strega. Successe tanto tempo fa, che non voglio neanche ricordare quanto.» «Stai forse cercando di commuoverci?» chiesi. «No. Anzi credo di non dovervi proprio nessuna spiegazione per quello che faccio. D'altronde, siete stati tutti e due gentili con me, quindi forse dovrei sentirmi colpevole nei vostri confronti...» Scrollò le spalle. «Comunque, questa sarà la nostra ultima caccia. Una gran bella festa.» «Se tu avessi massacrato Raina e Gabriel, avrei quasi potuto capirlo», dissi. «Ma che cosa ti avevano fatto gli altri licantropi?» «Quando la strega mi raccontò quello che aveva fatto, ricordo di aver pensato che sarebbe stato bellissimo essere un grosso predatore. Avrei potuto continuare a cacciare, e persino massacrare i miei nemici. Invece mi aveva trasformato in un...» Allargò le braccia. «Li hai uccisi perché erano quello che avresti voluto essere.» Fece un sorrisino. «Gelosia, invidia... Sono sentimenti molto distruttivi.» Avrei voluto dirgli che era un bastardo, ma non sarebbe servito a niente. Erano già morte sette persone perché a quel bastardo non piaceva essere un cigno. «La strega avrebbe dovuto ucciderti lentamente.» «Voleva che imparassi la lezione e mi pentissi.» «Non sono molto portata per il pentimento. Preferisco la vendetta.» «Se non fossi sicuro che stanotte morirai, potrei preoccuparmi.» «Preoccupati.» «Dov'è Jason?» chiese Richard. «Vi porteremo da lui», intervenne Titus. «Vero, ragazzi?» Edward non aveva detto una parola. Non sapevo esattamente che cosa stesse pensando, però mi augurai che non mettesse mano alla pistola, perché, se lo avesse fatto, molti di quelli che si trovavano nel soggiorno sarebbero morti, tre dei quali saremmo stati noi. «Perquisiscili, Aikensen.» Aikensen sorrise e rinfoderò la sua grossa Magnum. Restavano una rivoltella, due automatiche e un fucile di grosso calibro. Era abbastanza. Anche se eravamo un dream team, io ed Edward avevamo i nostri limiti. Rapidamente, Aikensen frugò Richard, ma smise di divertirsi non appena gli vide gli occhi da lupo. Impallidì leggermente. Era un bene che fosse nervoso. Con un calcio mi obbligò a divaricare le gambe. Quando sollevò le mani all'altezza del mio seno, che non era certo la zona da cui cominciare la perquisizione, lo guardai male. «Se fai il porco, sfodero la pistola e corro i
miei rischi.» «Aikensen, tratta Ms. Blake come una signora. Niente volgarità.» Aikensen s'inginocchiò davanti a me. Non appena mi sfiorò i capezzoli, gli tirai una gomitata sul setto nasale. Il sangue schizzò. Lui si rotolò sulla moquette premendosi le mani sul naso rotto. Il bruno si alzò, puntandomi contro la pistola con molta fermezza. Il riflesso della luce sulle lenti nascondeva i suoi occhi. «Non perdiamo la calma», esortò Titus. «Credo che Aikensen se lo sia meritato.» Aikensen si alzò, con la metà inferiore del viso tutta coperta di sangue, e cercò goffamente d'impugnare la rivoltella. «Se sfoderi quella pistola, ti sparo io stesso», intimò Titus. Aikensen era costretto a respirare ansimando attraverso la bocca, perché ogni volta che cercava di respirare col naso gli usciva una schiuma sanguinolenta dalle narici. Sì, gli avevo decisamente rotto il naso. Sarebbe stato più bello sbudellarlo, però era già un inizio. Con la mano sulla pistola, ma senza sfoderarla, rimase in ginocchio per parecchio tempo, mentre i suoi occhi lasciavano trapelare il dissidio interiore. Aveva una gran voglia di spararmi, e si tratteneva a stento dal provarci. Lo stesso valeva per me. «Aikensen...» mormorò Titus, in tono molto serio, come se si fosse appena reso conto che il vice avrebbe anche potuto correre il rischio. «Dico sul serio, ragazzo... Non mettermi alla prova.» Aikensen si alzò, sputando sangue. «Stanotte morirai.» «Può darsi. Ma non sarai tu a farmi fuori.» «Ms. Blake, le sarei molto grato se la smettesse di provocare Aikensen. Almeno mi dia il tempo di allontanarlo da lei.» «Sono sempre felice di collaborare con la polizia.» Titus rise. Che bastardo... «Be', di questi tempi i criminali pagano molto meglio, Ms. Blake.» «Vaffanculo.» «Non c'è bisogno di offendere.» Titus rinfoderò la pistola. «Adesso non farò altro che perquisirvi e disarmarvi. Se farete qualche altra sciocchezza, saremo costretti a stendere uno di voi, tanto per dimostrare che facciamo sul serio. Non vorrà mica perdere il suo fidanzato, vero? O magari il suo amico?» Sorrise. Soltanto il buon vecchio sceriffo Titus, un caro amico... Dopo avermi tolto le pistole, mi perquisì una seconda volta, e sicuramente io trasalii, perché mi chiese: «Come si è ferita il braccio, Ms. Blake?»
«Aiutando la polizia nelle indagini su un altro caso.» «Sebbene sia una civile, le hanno permesso di correre dei pericoli?» «Il sergente Storr e il detective Zerbrowski sono all'ospedale. Sono rimasti feriti nell'esercizio del loro dovere.» Sul suo viso grasso passò qualcosa che avrebbe potuto essere rammarico. «Gli eroi non ottengono altro che la morte, Ms. Blake. Le converrebbe ricordarlo.» «Anche i cattivi muoiono, Titus.» Mi sollevò una manica della giacca rossa e mi tolse il pugnale, poi lo soppesò per valutarne il bilanciamento. «Fatto su commissione?» Annuii. «So apprezzare un buon equipaggiamento.» «Tienilo pure. Lo riprenderò più tardi.» Ridacchiò. «Devo riconoscere che ha fegato!» «E tu sei un fottuto codardo.» Il sorriso svanì. «Voler sempre avere l'ultima parola è un brutto difetto, Ms. Blake. Irrita la gente.» «È proprio questa l'idea.» Lo sceriffo perquisì Edward. Dovevo riconoscergli almeno una cosa, cioè che era metodico e scrupoloso, perché gli tolse due automatiche, una Derringer e un pugnale abbastanza grosso da passare per una spada corta. Non avevo idea di dove Edward potesse averlo nascosto. «Chi credete di essere, voi due? La cavalleria?» Edward non disse una parola. E, se stava zitto lui, stavo zitta anch'io. C'erano troppi tizi armati per farne arrabbiare uno, col rischio che anche gli altri perdessero la calma. Eravamo inferiori per numero e per armamento. Non era un bel modo per cominciare la settimana. «Adesso scendiamo tutti quanti dabbasso», disse Titus. «Vogliamo farvi partecipare alla nostra partita di caccia. Vi lasceremo liberi nel bosco e, se riuscirete a sfuggirci, sarete salvi e potrete correre al più vicino posto di polizia per denunciarci. Ma, se tenterete qualche brutto scherzo prima di essere liberati, vi ammazzeremo. È chiaro?» Ci limitammo a guardarlo. «Non riesco a sentirvi.» «Ho sentito quello che hai detto», risposi. «E tu, biondino?» «Ho sentito anch'io», disse Edward. «Uomo lupo, hai capito cosa ho detto?»
«Non chiamarmi così», disse Richard. Neanche lui sembrava particolarmente spaventato. Bene. Se proprio si deve morire, bisogna almeno morire con coraggio. Fa arrabbiare i nemici. «Adesso possiamo abbassare le mani?» chiesi. «No», rispose Titus. Il mio braccio sinistro cominciava a pulsare, ma, se fosse stata quella la cosa più dolorosa che mi sarebbe successa quella notte, sarei stata fortunata. Il primo a uscire fu Aikensen, quindi Richard, seguito dal bruno con gli occhi calmi, poi il barbuto, io, Titus, Edward, Capelli Grigi col suo fucile e, infine, Kaspar. Un'autentica processione. Le scale scendevano in una caverna naturale sotto la casa, che misurava circa diciotto metri per nove, ed era alta non più di tre metri e mezzo. Nella parete dirimpetto alla scala si apriva una galleria. Tutto era crudamente illuminato da luci elettriche gialle. Due gabbie erano inserite nelle pareti di granito. In quella più lontana stava rannicchiato in posizione fetale Jason, che al nostro arrivo non si mosse. «Cosa gli avete fatto?» chiese Richard. «Abbiamo cercato di convincerlo a trasformarsi per noi», rispose Titus. «L'amico Uccellino ha detto che sarebbe stato un bersaglio facile.» Kaspar sembrò a disagio, difficile dire se fosse perché lo sceriffo l'aveva chiamato Uccellino o per l'ostinazione di Jason. «Si trasformerà.» «Lo dici tu», commentò Capelli Grigi. Accigliato, Kaspar lo guardò. Aikensen aprì la gabbia vuota. Tamponarsi con qualche kleenex il naso ancora sanguinante non gli era servito granché. I fazzolettini di carta erano tutti cremisi. «Dentro, Lupacchiotto», disse Titus. Richard esitò. «Mr. Carmichael, il ragazzo, per favore.» Capelli Neri rinfoderò la sua calibro 9 e si sfilò dalla cintura una calibro 22 per puntarla contro Jason, che continuava a stare rannicchiato. «Abbiamo già considerato l'idea di piantargli una pallottola in corpo comunque, tanto per vedere se lo aiuta a trasformarsi per noi. E adesso entra in gabbia!» Richard rimase immobile. Carmichael infilò l'arma tra le sbarre per prendere la mira. «No», disse Richard. «Entro.»
«Adesso tu, biondino.» Edward ubbidì senza discutere. La stava prendendo molto meglio di quanto non mi sarei aspettata. Aikensen chiuse il cancello a chiave, poi si diresse alla seconda gabbia e attese senza aprirla, coi fazzoletti premuti sul naso. Una goccia di sangue cadde al suolo. «Lei alloggerà col nostro giovane amico.» Richard si aggrappò alle sbarre. «Non potete chiuderla lì dentro! Quando si trasformerà, avrà bisogno di nutrirsi!» «Ci sono due cose che favoriscono la trasformazione», disse Kaspar. «Il sesso e il sangue. E io ho visto quanto la tua amica piace a Jason.» «Kaspar, non farlo!» «Troppo tardi.» Se fossi entrata nella gabbia, sarei stata divorata viva e, guarda caso, quello era proprio uno dei cinque modi in cui non volevo morire. Perciò decisi che non sarei entrata nella gabbia. Piuttosto mi sarei fatta sparare. «Adesso Aikensen apre la gabbia e lei entra, Ms. Blake.» «No.» Titus mi guardò. «Ms. Blake, ubbidisca. Altrimenti il nostro Mr. Fienstein le spara. Vero, Mr. Fienstein?» Il barbuto dallo sguardo indeciso mi puntò contro la sua Beretta calibro 9. Bella pistola, se proprio non si vuole comprare armi americane. La canna sembrava molto grossa e solida, vista dalla parte sbagliata. «Benissimo. Che mi spari pure.» «Non stiamo mica scherzando...» «Neanche io. Visto che per me l'alternativa è morire divorata viva oppure a colpi di pistola, preferisco che mi spari.» «Mr. Carmichael, vuol puntare da questa parte la sua 22?» Carmichael ubbidì. «Possiamo ferirla, Ms. Blake. Possiamo piantarle una pallottola nella gamba e poi spingerla dentro la gabbia.» Scrutandolo negli occhietti lucenti, capii che Carmichael non avrebbe esitato. Entrare nella gabbia non mi piaceva, però, a dire il vero, mi piaceva ancor meno entrarci ferita. «Conterò fino a cinque, Ms. Blake, poi Mr. Carmichael la ferirà e la trascineremo nella gabbia. Uno... Due... Tre... Quattro...» «Va bene, va bene... Dannazione! Aprite quel maledetto cancello!» Aikensen aprì, poi il cancello fu richiuso rumorosamente alle mie spalle.
Rimasi accanto alle sbarre. Jason tremava tutto come se avesse la febbre, però, a parte quello, non si mosse. Gli uomini all'esterno sembrarono delusi. «Abbiamo pagato una bella somma per cacciare un lupo mannaro», disse Capelli Grigi, «ma le cose non stanno andando affatto come avevate promesso.» «Abbiamo tutta la notte, signori», disse Kaspar. «Non resisterà in eterno a questo bocconcino succulento.» Non mi piaceva essere chiamata bocconcino, succulento o no. «Prima che arrivassimo qui ho chiamato Garroway. L'ho informato che i suoi vice sono caduti in un'imboscata e gli ho detto che è stato Aikensen.» «Bugiarda.» Guardai Titus dritto negli occhi. «Tu mi credi, vero?» «Possiamo anche ammazzarvi subito e poi tagliare la corda, Ms. Blake.» «E restituire a questi gentiluomini i loro soldi?» «Vogliamo una partita di caccia, Titus», intervenne Carmichael. Non avevo l'impressione che i tre uomini armati fossero disposti ad andarsene senza essersi divertiti. «La polizia non sa che l'Uomo Uccello è coinvolto. Può tornare su e tranquillizzare eventuali visitatori.» Titus si asciugò i palmi sui calzoni. Aveva le mani sudate... Era nervoso? Speravo proprio di sì. «Non ha telefonato», disse Aikensen. «E soltanto un bluff.» «Obblighiamolo a trasformarsi», disse Carmichael. «Non la guarda neanche», obiettò Capelli Grigi. «Dategli tempo, signori.» «Hai detto che non abbiamo tempo.» «L'esperto sei tu, Kaspar. Trova una soluzione.» Kaspar sorrise, fissando qualcosa alle mie spalle. «Non credo che dovremo aspettare ancora per molto.» Mi girai lentamente. Jason era sempre raggomitolato, però aveva sollevato la testa per guardarmi. Con un movimento agile si alzò carponi e mi lanciò un'occhiata, quindi fissò gli uomini all'esterno della gabbia. «Non lo farò. Non mi trasformerò per far piacere a voi.» La sua voce era tesa, ma normale. Sembrava umana. «Hai già resistito molto a lungo, Jason», disse Kaspar. «Però la luna sta sorgendo. Fiuta la paura di Anita, fiuta il suo corpo... Sai che la desideri, Jason...» «No!» Con le braccia distese a terra e le gambe raccolte, Jason chinò la
testa e la scosse. «No!» La sollevò di nuovo. «Non farò il fenomeno da baraccone!» «Credi che sarebbe d'aiuto lasciare un po' d'intimità a Jason e a Ms. Blake?» chiese Titus. «Forse», rispose Kaspar. «Sembra che non gli piaccia avere un pubblico.» «Vi lasceremo un po' di respiro, Ms. Blake, e se al nostro ritorno lei non sarà più in vita... Be', è stato un piacere conoscerla.» «Non posso dire lo stesso, Titus.» «Allora addio, Ms. Blake.» «Marcisci all'inferno, puttana», fu l'ultima battuta di Aikensen. «Ti ricorderai di me tutte le volte che ti guarderai allo specchio, Aikensen.» Si portò la mano al naso, ma il semplice tocco fu doloroso. Mi fissò, però era difficile fare i duri con alcuni kleenex insanguinati che spuntavano dalle narici. «Spero che tu muoia lentamente.» «Lo spero anch'io per te.» «Ti prego, Kaspar...» supplicò Richard. «Non farlo. Mi trasformerò io per voi e mi farò cacciare. Ma tira fuori Anita da quella gabbia.» Tutti si fermarono a guardarlo. «Non aiutarmi, Richard.» «Vi offro la migliore caccia che abbiate mai avuto.» Richard stava aggrappato alle sbarre. «Sai che posso farlo, Kaspar. Dillo.» Kaspar lo guardò per un lungo momento, poi scosse la testa. «Credo che li ammazzeresti tutti quanti.» «Prometto di non farlo.» «Richard! Che stai dicendo?» Mi ignorò. «Ti prego, Kaspar...» «Devi amarla molto...» Richard si limitò a fissarlo. «Qualunque cosa tu faccia, Richard, non mi lasceranno andare.» Lui non mi ascoltava. «Richard!» «Mi spiace», concluse Kaspar. «Di te mi fido, Richard, ma la tua bestia... Non credo che la tua bestia sia altrettanto affidabile.» «Andiamo. Stiamo sprecando tempo. Garroway non sa che siamo qui, ma potrebbe anche arrivare. Lasciamo un po' d'intimità a questi due», intervenne Titus.
Se ne andarono tutti al seguito del grasso sceriffo. L'ultimo a salire la scala fu Kaspar. «Vorrei che ci fossero Gabriel e Raina, in gabbia. Mi spiace...» Ciò detto, l'uomo cigno scomparve. «Non abbandonarci così, Kaspar!» Le grida di Richard echeggiarono nella caverna, ma senza ottenere risposta. Eravamo soli. Alcuni rumori alle mie spalle mi indussero a girarmi di scatto. Jason era di nuovo in ginocchio. Qualcosa si muoveva dietro i suoi occhi azzurri, qualcosa di mostruoso e di niente affatto amichevole. Non ero sola neanche la metà di quanto avrei voluto essere. 41 Jason avanzò strisciando, poi si fermò. «No... No... No!» Ogni parola fu un gemito soffocato, e la testa gli cadde in avanti. I capelli biondi non erano abbastanza lunghi da toccare il suolo, però erano folti. Indossava una camicia azzurra e un paio di jeans troppo grandi: vestiti che potevano essere sacrificati in caso di trasformazione involontaria. «Anita...» mormorò Richard. Mi spostai, in modo da poter guardare l'altra gabbia senza perdere di vista Jason. Attraverso le sbarre, Richard protendeva un braccio verso di me, come per raggiungermi e attirarmi a sé. Intanto Edward si avvicinò al cancello e cominciò a toccare la serratura. Dato che dall'interno non poteva vederla, premette una guancia contro le sbarre e chiuse gli occhi. A volte, la vista diventa una distrazione. Si scostò dal cancello per sfilare di tasca un sottile astuccio in cuoio, poi aprì la cerniera, rivelando una serie di piccoli attrezzi. Da lontano non riuscii a vederli distintamente, però sapevo che erano grimaldelli. Avremmo potuto scappare nel bosco prima che si accorgessero della nostra scomparsa. La nottata stava cominciando a migliorare. Edward si accostò di nuovo alle sbarre, con le braccia ai lati della serratura e un grimaldello in ogni mano, gli occhi chiusi, il viso inespressivo, interamente concentrato su quello che stava facendo. Jason emise un gemito profondo e ricominciò a strisciare verso di me, molto lentamente, poi rizzò la testa. I suoi occhi erano ancora azzurri e innocenti come il cielo in primavera, però non c'era più nessuno in casa. Mi guardava come se riuscisse a vedere dentro di me e come se riuscisse a fiutare il sangue che mi scorreva nelle vene. Non era uno sguardo umano.
«Jason, resisti!» lo esortò Richard. «Fra pochi minuti saremo liberi. Devi soltanto resistere.» Jason non reagì, dandomi l'impressione di non avere sentito. In verità, pensavo che «pochi minuti» fosse una valutazione un po' troppo ottimistica, ma... Sarei stata più che disposta a crederci, se lo fosse stato anche Jason. Tuttavia, lui continuò a strisciare verso di me e io mi appiattii contro le sbarre. «Edward, come va con quella serratura?» «Non ho i grimaldelli adatti, ma ce la farò.» C'era qualcosa di strano nel modo in cui Jason strisciava verso di me, come se avesse muscoli che non avrebbe dovuto avere. «Sbrigati!» Edward non mi rispose. Non ebbi bisogno di guardare per sapere che stava lavorando alla serratura, ed ero sicura che sarebbe riuscito ad aprirla. Mi spostai lungo le sbarre, nel tentativo di mantenere la distanza fra me e il lupo mannaro. Sì, alla fine Edward avrebbe aperto il cancello, ma... Avrebbe fatto in tempo? Un rumore dalla scala mi indusse a girarmi. Carmichael entrò nella caverna. Aveva la calibro 9 in pugno e sorrideva. Non lo avevo mai visto più felice. Edward lo ignorò, continuando a lavorare alla serratura come se nessun uomo armato avesse appena sceso la scala. Carmichael puntò la pistola contro di lui. «Allontanati da quella serratura. Subito!» E arretrò il cane. Non è necessario, ma fa sempre impressione. «Tu non ci servi vivo.» A ogni parola si avvicinava un po' di più. «Allontanati... da... quella... serratura...» Edward alzò la testa. Era sempre impassibile, come se fosse ancora del tutto assorto nei propri gesti, non del tutto a fuoco su colui che lo minacciava con una pistola. «Lascia quei grimaldelli!» Edward lo fissò. Senza che la sua espressione cambiasse, buttò via i due grimaldelli. «Togliti di tasca l'astuccio e gettalo fuori della gabbia. Non provare neanche a dirmi che non ce l'hai. Se avevi due grimaldelli, sicuramente ne hai anche altri.» Mi chiesi che cosa facesse Carmichael nel mondo reale. Qualcosa di niente affatto bello, qualcosa che gli permetteva di essere bene informato sugli scassinatori di professione. «Questo è l'ultimo avvertimento», continuò Carmichael. «Se non getti
l'astuccio, premo il grilletto. Sono stufo di tutto questo casino.» Edward lanciò il sottile astuccio in cuoio, che atterrò sulla roccia con uno schiocco attutito. Carmichael non accennò nemmeno a raccoglierlo. Ormai era fuori della nostra portata, e quello era ciò che contava. Camminando all'indietro, in modo da non perdere di vista nessuno di noi, dedicò una parte della sua attenzione a Jason e a me. Che carino... «Il nostro lupetto mannaro è sveglio. Proprio come speravo.» Un cupo e lacero brontolio strisciò fuori della gola di Jason. Carmichael rise, una specie di latrato di delizia. «Volevo tanto assistere alla trasformazione. Ho fatto proprio bene a scendere a controllare.» «La tua presenza mi lusinga», commentai. Lui si avvicinò alla gabbia, ma restando sempre fuori della nostra portata, e fissò Jason. «Non ho mai assistito a una trasformazione.» «Fammi uscire, così la guardiamo insieme.» «E perché dovrei? Ho pagato per assistere allo spettacolo integrale.» Pregustava quello che stava per succedere, con gli occhi lustri e scintillanti come quelli di un bambino la mattina di Natale. Un ringhio riportò tutta la mia attenzione a Jason, che stava rannicchiato a terra, con le braccia piegate, le gambe raccolte. Guardarlo mentre le sue labbra umane emettevano quel brontolio mi fece rabbrividire. Però non stava guardando me. «Credo che stia ringhiando a te, Carmichael.» «Ma non ci sono mica io nella gabbia.» Aveva ragione. «Jason, non prendertela con lui», intervenne Richard. «La rabbia nutre la bestia, e tu non puoi permetterti di arrabbiarti.» La sua voce era meravigliosamente calma, persino tranquillizzante. Stava cercando di placare Jason per ritardare la trasformazione. «No, lupo», intervenne Carmichael. «Arrabbiati! Non vedo l'ora di tagliarti la testa per farne un trofeo da appendere nel mio studio.» «Ritornerà alla forma umana dopo la morte», dissi. «Lo so», replicò Carmichael. Cristo... «Se ti trovasse in possesso di una testa umana, la polizia potrebbe insospettirsi un po'...» «Ho parecchi trofei che tengo nascosti alla polizia.» «Che fai nel mondo reale?» «Non può essere più reale di così...» Scossi la testa. Era difficile discutere con lui, ma io ero decisa a provarci.
Jason strisciò verso le sbarre, un po' come una scimmia, poco armonioso ma con molta energia, come se si preparasse a saltare. «Calma, Jason», esortò Richard. «Rilassati.» «Forza, ragazzo! Provaci! Buttati contro le sbarre, così premo il grilletto.» Mentre guardavo, Jason contrasse tutti i muscoli e scattò. Si aggrappò alla gabbia, protese fuori le braccia il più possibile, agitandole, poi si girò per tentare di far scivolare una spalla fra due sbarre. Per un attimo Carmichael parve incerto, poi rise. «Sparami!» urlò Jason, in un ringhio che non aveva quasi più niente di umano. «Sparami!» «Non credo proprio», ribatté Carmichael. Jason afferrò la gabbia con le mani e si lasciò scivolare in ginocchio, la fronte premuta contro le sbarre. Ansimava come se avesse corso la maratona. Se fosse stato umano, avrebbe iperventilato e sarebbe svenuto. Invece girò la testa verso di me con dolorosa lentezza, come se non volesse farlo. Aveva cercato di costringere Carmichael a sparargli per non aggredirmi. Sebbene non fossimo amici, aveva messo a repentaglio la sua vita per me, quindi guadagnò un sacco di punti. Mi guardò col viso stravolto da un bisogno che non era sesso né fame, ma tutti e due e nessuno dei due. Non riuscivo a decifrare l'espressione dei suoi occhi, e non volevo farlo. Avanzò carponi verso di me. Io indietreggiai, quasi correndo. «Non correre!» avvertì Richard. «Lo eccita.» Mentre fissavo l'espressione aliena di Jason, fui costretta a ricorrere a tutta la mia forza di volontà per restare immobile, addossata alla gabbia, con le mani strette intorno alle sbarre con tanta violenza da far male. Jason si fermò a sua volta e si accoccolò, quindi posò una mano a terra e riprese ad avanzare, lentamente, come se non volesse, ma senza fermarsi. «Qualche altra brillante idea?» chiesi. «Non correre e non lottare. Cerca di stare calma e di non avere paura, perché anche la paura è molto eccitante.» «Parli per esperienza personale?» domandai. «Sì», rispose Richard. Avrei voluto girarmi a guardarlo, ma non ci riuscii. Avevo occhi soltanto per il lupo mannaro che strisciava verso di me. Quello nell'altra gabbia sapeva badare a se stesso. Jason si mise carponi, come un cane in attesa di un ordine, e sollevò la
testa. Una chiazza verde chiaro si dilatò nei suoi occhi, inghiottendo l'azzurro come in un gorgo. Alla fine della trasformazione, i suoi occhi furono verdi come l'erba novella a primavera, e per niente umani. Rimasi senza fiato mio malgrado. Lui si avvicinò ancor più, fiutando l'aria intorno a me. Quando mi sfiorò una gamba coi polpastrelli, mi ritrassi di scatto. Emise un lungo sospiro e sfregò una guancia contro la mia gamba. Aveva fatto molto di più al Lunatic Cafe, ma in quella occasione i suoi occhi erano quasi completamente umani, e io avevo le pistole. In quel momento avrei dato pressoché qualsiasi cosa per avere un'arma da fuoco. Jason afferrò il bordo della giacca, strinse le mani a pugno e tirò per farmi sdraiare. Neanche per sogno. Scrollai le spalle per liberare le braccia e Jason mi sfilò la giacca. Mentre mi allontanavo, la raccolse, se la strinse al viso e si rotolò come un cane con un pezzo di carne, dimenandosi nel mio odore. Poi si mise in ginocchio e avanzò verso di me con una liquida agilità che fu maledettamente snervante. Gli esseri umani non strisciano tanto armoniosamente. Indietreggiai con lentezza, senza correre, però non volevo che mi toccasse di nuovo. Lui accelerò, con la massima precisione di movimenti, gli occhi verde chiaro fissi su di me come se nient'altro esistesse al mondo. Accelerai anch'io, e lui m'imitò. «Ti prego, non correre...» ripeté Richard. Sbattendo all'improvviso contro la parete, mi lasciai sfuggire un urlo soffocato. Con due balzi agili Jason coprì la distanza che ci separava. Quando mi toccò le gambe con le mani, repressi un grido. Il cuore mi batteva tanto forte che mi sentivo soffocare. «Anita! Domina la paura. Calmati... Rifletti con calma...» «Rifletti tu con calma!» ribattei in tono stridulo, in preda al panico. Jason mi afferrò per la cintura e si sfregò contro le mie gambe, schiacciandomi contro le sbarre. Rimasi senza fiato per la paura, e per quello mi detestai. Se proprio dovevo morire, dannazione, allora non sarei morta piagnucolando. Assordata dal battito del mio cuore, cominciai a respirare lentamente e profondamente, fissando quegli occhi verdi come la primavera. Jason mi premette una guancia contro un fianco, accarezzandomi la vita. Ebbi un tuffo al cuore e deglutii. Mi concentrai sulle pulsazioni, finché non rallentarono. Era quel tipo di concentrazione che permette di eseguire una
tecnica nuova nel judo, quella concentrazione che permette di resuscitare uno zombie. Quando Jason sollevò di nuovo la testa per guardarmi, i miei occhi erano calmi. Sentivo che il mio viso era inespressivo, neutro. Non sapevo per quanto sarebbe durata, ma era il meglio che potessi fare. M'infilò le mani sotto il maglione, su per la schiena. Deglutii, mentre il battito accelerava di nuovo, nonostante la concentrazione e i tentativi di rallentarlo. Sentivo le sue mani sulla pelle, le dita che salivano lungo le costole. Lo afferrai per i polsi, cercando di fermarlo prima che arrivasse al seno, e continuai a tenerlo mentre si alzava. Con le mani sempre sotto il maglione, sollevato all'altezza dello stomaco, Jason sembrò apprezzare la vista della nudità. S'inginocchiò di nuovo senza cercare di sottrarsi alla mia presa. Sentii il suo respiro quasi ardente sulla mia pancia nuda. Dardeggiò la lingua per leccarmi intorno all'ombelico e mi sfiorò con una morbida carezza delle labbra. Sentii il suo profondo sospiro tremante, prima che mi affondasse il viso nella morbidezza del ventre e cominciasse a leccarmi, a graffiarmi coi denti. Fui scossa da una convulsione che non era di dolore. I suoi pugni contratti tremavano. Non volevo mollare la presa, però volevo allontanarlo. «Vuole mangiarmi, o...» «Fotterti», intervenne Carmichael. Lo avevo quasi dimenticato. È sempre un'imprudenza scordarsi dell'uomo con la pistola, ma il pericolo non era lui, bensì il giovane che stava in ginocchio davanti a me. «Jason è uno di noi soltanto da pochi mesi. Se riesce a incanalare l'energia sul sesso, anziché sulla violenza, non lo respingere, ma cerca di non farlo avvicinare alle zone pericolose.» «E questo che cosa vorrebbe dire?» «Tienilo lontano dalla gola e dallo stomaco.» Abbassai lo sguardo. Jason mi osservava roteando gli occhi, nei quali si scorgeva un'oscurità così profonda da annegarcisi. Lo obbligai a sfilare le braccia da sotto il maglione e lui mi prese le mani, intrecciando le sue dita alle mie, poi mi annusò lo stomaco e cercò d'infilare la testa sotto il maglione, che era ricaduto. Lo feci alzare. Lui sollevò le braccia di entrambi, schiacciando le mie contro le sbarre. Resistetti alla smania di dibattermi e di opporre resistenza, sapendo che altrimenti si sarebbe eccitato sempre di più e sarebbe diventato pericoloso. Era alto quasi come me e, da pochi centimetri di distanza, i suoi occhi erano sbalorditivi. Dischiuse le labbra lasciandomi intravedere le zanne.
Cristo... Sfregò una guancia contro la mia e mi accarezzò la mascella con le labbra. Io girai la testa per proteggere il collo, dove il sangue pulsava impetuoso. Alzò la testa per respirare, poi mi accarezzò le labbra con la bocca e si schiacciò contro di me, abbastanza per farmi sentire che era contento di essere lì, o almeno che il suo corpo lo era. Mi affondò il viso fra i capelli e rimase così, contro di me, le mani intrecciate alle mie contro le sbarre della gabbia. Sentivo pulsare il suo collo sulla mia guancia. Il suo respiro era troppo veloce, il suo torace si dilatava e si contraeva come se si stesse dedicando a molto più che i preliminari. Stava forse per passare all'antipasto? Il potere che all'improvviso mi fece accapponare la pelle non fu quello di Jason, e non mi era sconosciuto. Lo riconobbi. Richard era forse eccitato dallo spettacolo? Guardarmi morire sarebbe stato arrapante per lui come lo era stato assistere alla morte della donna nel film? «Lei è mia, Jason», disse Richard, con una voce un po' più profonda del solito. La trasformazione era imminente. Jason uggiolò. Il suono che emise non potrebbe essere descritto altrimenti. Il potere di Richard si avvicinò, ripercuotendosi nell'aria come un tuono lontano. «Allontanati da lei! Subito!» L'ultima parola fu quasi un grido, ma nello stesso tono dei coguari, cioè non di paura, bensì di minaccia. Sempre col viso affondato nei miei capelli, Jason scosse la testa e mi strinse convulsamente le mani con forza tale che il fiato mi si mozzò. E fu la reazione sbagliata. Mi lasciò le mani così all'improvviso che avrei rischiato di cadere se la pressione del suo corpo non mi avesse sostenuta. Quando si scostò da me di scatto, però, barcollai. Mi afferrò per le cosce e mi sollevò di peso, tanto rapidamente che non avrei potuto impedirglielo neanche se avessi avuto forza sufficiente, quindi mi sbatté di nuovo contro le sbarre. Assorbii l'impatto con la schiena. Piena di lividi, ma viva. Sostenendomi con un braccio, mi sollevò il maglione con la mano libera. Subito lo riabbassai. Con un brontolio soffocato, mi gettò a terra tanto violentemente che rimasi del tutto inerte per almeno un minuto, mentre lui mi strappava il maglione come se fosse di carta, scoprendomi lo stomaco, e gettava la testa all'indietro, strillando con una bocca spalancata che non era più umana. Se avessi avuto abbastanza fiato, avrei urlato anch'io.
«Jason! No!» Anche la voce di Richard non aveva più niente di umano. Il suo potere invase la gabbia, tanto opprimente da soffocare, e Jason lottò, colpendo, con le mani trasformate in artigli, qualcosa che non potevo vedere. «Indietro!» ringhiò Richard, con voce riconoscibile a stento. Jason ringhiò a sua volta, azzannando l'aria, poi rotolò via e si allontanò, strisciando carponi sulla roccia, brontolando. Rimasi sdraiata sulla schiena. Avevo paura che anche il minimo movimento potesse rompere l'equilibrio, inducendo Jason a finire quello che aveva cominciato. «Merda!» imprecò Carmichael. «Torno subito. E sarà meglio che il Cigno escogiti qualcosa per obbligare uno di voi due a trasformarsi!» Se ne andò a passo risoluto, lasciandoci in un silenzio che fu sostituito da un brontolio cupo e persistente. Mi resi conto che non era più Jason. Mi alzai lentamente sui gomiti, senza che Jason cercasse di azzannarmi. Richard era sempre vicino alle sbarre, ma il suo viso si era trasformato in un muso, i folti capelli castani si erano allungati e sulla schiena gli era cresciuta una sorta di criniera. Era aggrappato alla sua umanità con un filo. Un filo debole e luminoso. Edward era immobile accanto al cancello. Non aveva cercato di scappare quando Richard aveva compiuto la sua spaventosa trasformazione. Be', aveva sempre avuto nervi d'acciaio, Edward. 42 Titus fu il primo ad arrivare. «Sono molto deluso. Carmichael mi ha riferito che era quasi fatta, quando questo qua ha interferito.» Kaspar fissava Richard come se non lo riconoscesse. Forse non lo aveva mai visto mezzo uomo e mezzo lupo, ma nel suo sguardo c'era qualcosa che suggeriva che non era così. «Marcus non avrebbe potuto farlo...» «Jason non voleva farle male», spiegò Richard. «Voleva fare la cosa giusta.» «Be', Uomo Uccello...» disse Carmichael. «E adesso?» Rimasi seduta a terra. Di fronte a me, Jason stava accucciato, carponi, dondolandosi avanti e indietro, con un cupo mugolio gutturale. «Si trattiene a stento», osservò Kaspar. «Il sangue gli darà la spinta che gli occorre. Neppure un Alfa riuscirà a controllarlo davanti al sangue fresco.»
Quel discorso non mi piacque affatto. «Ms. Blake, le dispiace avvicinarsi alle sbarre, per favore?» Mi girai, in modo da poter sorvegliare allo stesso tempo il lupo mannaro mugolante e i nemici armati all'esterno della gabbia. «Perché?» «Ubbidisca, o Carmichael le spara. Non mi costringa a ricominciare a contare, Ms. Blake.» «Credo di non avere nessuna voglia di avvicinarmi alle sbarre.» Titus sfoderò la 45 e avanzò. Edward era seduto e mi guardava. Capii che se mai fossimo riusciti a uscire, sarebbero morti tutti. Richard era ancora aggrappato alle sbarre. Titus osservò il suo viso ferino ed emise un fischio attutito. «Buon Dio...» Puntò la pistola al petto di Richard. «L'ho caricata con proiettili d'argento, Ms. Blake. Se davvero ha chiamato Garroway, non c'è più tempo per due partite di caccia. Comunque, visto che Garroway non sa che siamo qui, abbiamo un buon vantaggio. Inoltre, credo che il nostro lupo sia un po' troppo pericoloso. Perciò, se lei continua a mettermi i bastoni fra le ruote, lo ammazzo.» Fissai i nuovi occhi di Richard. «Ci uccideranno tutti comunque. Non farlo», disse lui, in un brontolio profondo e cupo che mi fece accapponare la pelle. Ci avrebbero ammazzati tutti, certo. Però, se potevo rimandare l'inevitabile, non volevo stare a guardare senza fare niente. Così mi avvicinai alle sbarre. «E adesso?» Titus tenne la pistola puntata contro Richard. «Allunghi fuori le braccia, per favore.» L'idea non mi entusiasmava, ma, visto che non ero ancora disposta ad assistere alla morte di Richard, un rifiuto sarebbe stato un po' controproducente. Per protendere le braccia attraverso le sbarre fui costretta a dare la schiena al lupo mannaro. Male. «Signori, afferratela per i polsi.» Strinsi i pugni senza ritirare le braccia. Avevo deciso di farlo. Sì. Carmichael mi afferrò per il braccio sinistro, il barbuto Fienstein per il destro, ma quest'ultimo con così poca forza che avrei potuto liberarmi. La stretta di Carmichael, invece, sembrava una morsa d'acciaio caldo. Lo fissai negli occhi, senza trovarvi la minima pietà. Quanto a Fienstein, stava cominciando a farsela sotto. Capelli Grigi, col suo fucile, se ne stava in mezzo alla grotta, in disparte. Quello che aveva una gran voglia di farsi tutta la corsa era Carmichael.
Titus si avvicinò e cominciò a sciogliere la benda che mi avvolgeva il braccio. Resistetti all'impulso di chiedergli che cosa stesse facendo, perché avevo un'idea, ma speravo di sbagliare. «Quanti punti le hanno dato, Ms. Blake?» Non sbagliavo. «Non lo so. A venti ho smesso di contare.» Lasciò cadere le bende al suolo, prese il mio pugnale e lo espose alla luce, in modo che la riflettesse. Non c'è niente di meglio di un po' di spettacolo. Con la fronte premuta contro le sbarre, sospirai profondamente. «Adesso taglierò i punti per riaprire un po' la ferita...» «Lo immaginavo.» «Non lotta?» «Falla finita.» Aikensen si avvicinò. «Lascia fare a me. Le devo un po' di sangue.» Titus mi guardò, quasi come per chiedere il permesso. Io lo ricambiai col migliore dei miei sguardi impassibili. Consegnò il pugnale ad Aikensen. Quando vidi la punta acuminata accostarsi alla prima sutura, vicino al polso, mi accorsi di sgranare gli occhi. Non sapevo che cosa fare. Guardare sembrava una pessima idea, non guardare sembrava peggio. Implorarli di non farlo sembrava futile, oltre che umiliante. Ci sono certe notti in cui non è possibile fare la scelta giusta. Sentii lo schiocco attutito del primo punto reciso dalla lama, ma sorprendentemente il dolore fu minimo. Distolsi lo sguardo, mentre Aikensen continuava a recidere. Snip... Snip... Snip... Potevo farcela. «Ci serve sangue», disse Carmichael. Guardai di nuovo proprio quando Aikensen accostava il pugnale alla ferita, deciso a riaprirla lentamente. Quello sì che sarebbe stato doloroso. Intravidi Edward nell'altra gabbia. Era in piedi e mi guardava. Cercava di dirmi qualcosa. Ruotò gli occhi verso destra. Capelli Grigi si stava avvicinando all'altra gabbia. Evidentemente non aveva scrupoli a sparare, però non amava la tortura. Edward mi guardò di nuovo e io intuii che cosa volesse. O, perlomeno, sperai di averlo intuito. Quando il pugnale mi incise il braccio, mi lasciai sfuggire un rantolo. Il dolore fu acuto e immediato, come sempre con le ferite superficiali, ma sapevo che si sarebbe protratto. Sulla pelle apparve una larga striscia di sangue. Aikensen affondò un po' la lama.
All'improvviso, tirai. Fienstein lasciò la presa e cercò di afferrarmi di nuovo mentre agitavo il braccio, ma Carmichael tenne duro, anzi strinse ancora di più. Ciò m'impedì di liberarmi, ma non di lasciarmi cadere a terra e di continuare ad agitare il braccio, affinché non potessero continuare la tortura. Cominciai a gridare, lottando con vigore. Se Edward aveva bisogno di un diversivo, era servito. «Una donna sola, in gabbia, e voialtri, in tre, non riuscite a tenerla!» Titus si avvicinò con andatura ondeggiante per afferrarmi il braccio sinistro. Anche se Carmichael mi teneva per il polso, ero riuscita a tirare la mano destra dentro la gabbia. Fienstein stava lì vicino senza sapere cosa fare. Chi paga salato per dare la caccia ai mostri dovrebbe essere più abituato alla violenza. La sua fondina era vicina alle sbarre. Continuai a gridare e ad agitare il braccio sinistro, obbligando Titus a passarselo sotto l'ascella per bloccarlo. Alla fine fui immobilizzata. Aikensen riaccostò il pugnale alla ferita e ricominciò a tagliare. Fienstein si curvò, come per aiutarlo. Strillando, mi appoggiai alle sbarre. Invece di sfoderare la sua pistola, gliela spinsi addosso e premetti il grilletto, centrandolo allo stomaco. Cadde all'indietro. Un secondo sparo echeggiò nella caverna. La testa di Carmichael esplose sopra Titus, imbrattandogli di sangue e di materia cerebrale tutto il cappello Smokey Bear. Edward era in piedi col fucile imbracciato, mentre Capelli Grigi era afflosciato contro la gabbia, col collo innaturalmente piegato. Richard era inginocchiato accanto al cadavere. Lo aveva ammazzato lui? Un suono dietro di me, un basso grido gutturale. Titus aveva sfoderato la pistola senza mollare il mio braccio, e io non potevo prendere la pistola di Fienstein, che era troppo lontano e si rotolava agonizzante. Un cupo brontolio alle mie spalle, un movimento. Jason stava rientrando in gioco. Grande... Titus mi tirò a sé con tanta violenza da rischiare di slogarmi la spalla, poi mi conficcò la 45 nella guancia. La canna era fredda. «Butta il fucile!» Avevo la faccia premuta contro le sbarre e contro la pistola, quindi non potevo girarmi a guardare, però sentivo che qualcosa mi si avvicinava strisciando. «Si sta trasformando?»
«Non ancora», disse Richard. Edward aveva sempre il fucile imbracciato e mirava a Titus, mentre Aikensen stava là, col pugnale insanguinato, come se fosse paralizzato. «Mettilo giù, biondino, e subito, altrimenti lei muore.» «Edward...» «Anita», rispose lui, con voce calma e neutra, come sempre. Sapevamo tutti e due che avrebbe steso Titus, però, se nello spasmo della morte il dito dello sceriffo si fosse contratto sul grilletto, sarei morta anch'io. Scelte. «Fallo», dissi. Edward premette il grilletto, Titus fu sbattuto all'indietro contro la gabbia, il sangue m'imbrattò il viso, un grumo di qualcosa di più denso mi scivolò giù per la guancia, mentre ansimavo col respiro accelerato. Titus si afflosciò e scivolò lungo le sbarre, la pistola ancora stretta nelle mani. «Apri la gabbia», ordinò Edward. Sentendomi toccare una gamba da qualcosa, trasalii e mi girai di scatto. Jason mi afferrò il braccio sanguinante con una forza incredibile, tale da rischiare di stritolarmi il polso. Accostò il viso alla ferita e cominciò a leccare il sangue, come un gatto da una tazza di latte. «Apri subito la gabbia o sei morto anche tu.» Aikensen rimase immobile. Jason continuò a leccarmi il braccio, accarezzandomi la ferita con la lingua. Faceva male, ma mi sforzai di controllare la respirazione, di non gemere, di non resistere. Era stato maledettamente bravo a non saltarmi addosso mentre lottavo contro i nostri avversari. Tuttavia anche la pazienza di un lupo mannaro non è infinita. «Subito!» urlò Edward. Aikensen trasalì, quindi si avvicinò al cancello, lasciò cadere il pugnale e si affannò con la serratura. Jason mi mordicchiò il braccio, appena appena. Non riuscii a trattenere un rantolo. Richard gridò qualcosa d'incomprensibile con voce tonante e Jason si allontanò di scatto da me. «Scappa...» mormorò, prima di curvarsi a leccare il sangue da una piccola pozza che si era raccolta al suolo. Con voce strozzata, quasi un grugnito, ripeté: «Scappa...» Aikensen aprì il cancello e io strisciai all'indietro, carponi. Jason gettò la testa all'indietro, strillando: «Scappa!» Mi alzai in piedi e corsi. Aikensen richiuse il cancello alle mie spalle. Jason si buttò a terra e cominciò a dibattersi in preda alle convulsioni, con
la schiuma alla bocca, le mani che artigliavano spasmodicamente qualcosa d'invisibile. Avevo già assistito ad altre trasformazioni, ma mai nessuna che fosse stata altrettanto violenta. Sembrava un brutto attacco di epilessia, o un'agonia da stricnina. Il lupo scaturì dal corpo quasi completamente formato, come una cicala dall'involucro. L'uomo lupo corse alle sbarre e protese gli artigli per afferrarci, obbligandoci tutti e due a indietreggiare. La bava gli colava dalle fauci che azzannavano l'aria. Sapevo che se avesse potuto mi avrebbe uccisa e poi divorata. Era quello che faceva, era quello che era. Aikensen fissava il lupo mannaro. Mi curvai a raccogliere il pugnale che aveva lasciato cadere. «Aikensen?» Si girò verso di me, sconvolto e pallido. «Ti sei divertito a sparare al vicecapo Holmes?» Si accigliò. «Ti ho liberata. Ho fatto quello che ha chiesto lui.» Mi avvicinai di un passo. «Ricordi cosa ti ho detto al telefono, quando eri da Williams?» Mi guardò. «Sì.» «Bene.» Gli conficcai il pugnale nell'inguine, spingendo dal basso verso l'alto, fino all'impugnatura. Il sangue mi inondò la mano, mentre lui mi fissava con occhi che diventavano vitrei. «Be', una promessa è una promessa...» Cadde, e io lasciai che fosse il suo stesso peso a conficcargli ancora più profondamente il pugnale nell'addome. Quando chiuse gli occhi, sfilai la lama e la pulii sul suo giubbotto, poi presi le chiavi dalla sua mano inerte. Edward si era appeso il fucile alla spalla e Richard mi guardava come se mi vedesse per la prima volta. Nonostante il muso e gli occhi ambrati, capii che non approvava. Aprii la gabbia. Edward uscì e Richard lo seguì, ma continuando a fissarmi. «Non eri costretta a ucciderlo.» Le parole furono sue, anche se la voce non lo era. Edward e io guardammo il lupo mannaro Alfa. «Sì, sono stata costretta.» «Noi uccidiamo perché dobbiamo, non per piacere, né per orgoglio», disse Richard. «Tu forse sì, ma gli altri del branco, gli altri licantropi, non sono altrettanto scrupolosi.» «Può darsi che stia arrivando la polizia», disse Edward. «Non credo che ti piacerebbe farti trovare qui.»
Richard lanciò un'occhiata alla belva bramosa nell'altra gabbia. «Dammi le chiavi. Porterò via Jason attraverso la galleria. Il fiuto mi permetterà di trovare l'uscita.» Mentre gli consegnavo le chiavi, i suoi polpastrelli mi sfiorarono la mano. «Non posso resistere ancora per molto.» Le sue dita si strinsero convulsamente intorno alle chiavi. «Andate.» Guardai negli strani occhi ambrati. Edward mi toccò un braccio. «Dobbiamo andare.» Le sirene in lontananza annunciavano che qualcuno aveva sentito gli spari. «Sii prudente», dissi. «Certo.» Lasciai che Edward mi conducesse alla scala. Richard cadde al suolo, coprendosi il viso con le mani. Quando alzò di nuovo la testa, le sue ossa si stavano allungando, spuntando dalla carne come se fosse creta. Inciampai in un gradino. Soltanto la mano di Edward m'impedì di cadere. Mi girai e salii la scala di corsa insieme con lui, poi girai la testa a guardare indietro, senza vedere Richard. Edward aveva lasciato cadere il fucile sui gradini. La porta venne sfondata e la polizia entrò. Soltanto allora mi resi conto che Kaspar era scomparso. 43 Sebbene gli sbirri trovarono i cadaveri, né io né Edward andammo in prigione. Tutti pensarono che ci fossimo salvati per miracolo e ne rimasero impressionati. Edward mi sorprese mostrando un documento che lo identificava come Ted Forrester, cacciatore di taglie. Aver massacrato una banda di bracconieri che uccidevano licantropi aumentò la reputazione di tutti i cacciatori di taglie e, soprattutto, quella di Ted Forrester. La stampa scrisse molto bene anche di me, e Bert ne fu compiaciuto. Quando gli chiesi se Forrester fosse il suo vero cognome, Edward si limitò a sorridere. Dolph fu dimesso prima di Natale, mentre Zerbrowski rimase ricoverato molto più a lungo. Regalai a ciascuno una scatola di proiettili d'argento. Dopotutto, erano soltanto soldi. E poi, volevo che non mi capitasse mai più di trovarmi al capezzale di uno di loro in fin di vita. In occasione della mia ultima visita al Lunatic Cafe, Marcus mi disse
che uccidere la ragazza era stata un'idea di Alfred. Gabriel non era stato preavvisato, ma, quando la ragazza era morta, aveva pensato bene di non sprecare l'occasione, visto che i licantropi sono sempre molto pratici. Raina aveva deciso di distribuire il film per la stessa ragione. A dire il vero non gli credetti, visto che era dannatamente conveniente scaricare tutta la colpa su un morto. Non riferii niente a Edward, però dissi a Gabriel e a Raina che, se mai fosse saltato fuori qualche altro snuff movie, avrebbero potuto dire addio ai loro culi pelosi. Non aggiunsi che li avrei consegnati a Edward, però l'idea era proprio quella. Regalai a Richard un crocifisso d'oro, obbligandolo a promettermi d'indossarlo. Lui mi regalò un pinguino di peluche di Winter Wonderland, un sacchetto di pinguini di gomma bianchi e neri e un astuccio in velluto che sembrava contenere un anello. Pensai che mi sarebbe venuto il magone, ma non era un anello, bensì soltanto un biglietto su cui era scritto: Promesse da mantenere. Jean-Claude mi regalò una scultura in vetro che rappresentava alcuni pinguini sopra una lastra di ghiaccio galleggiante, molto bella e molto costosa, che però mi sarebbe piaciuta di più se me l'avesse regalata Richard. Che cosa si può mai regalare al Master della Città per Natale? Un barilotto di sangue? Decisi per un cammeo antico che avrebbe fatto una gran figura appeso a uno dei suoi colletti di pizzo. In febbraio mi arrivò un pacchetto da Edward. Conteneva una pelle di cigno, con un biglietto: Ho trovato una strega che ha tolto la maledizione. Quando presi la pelle piumata dalla scatola, un altro biglietto cadde sulla moquette: Mi ha pagato Marcus. Era un fenomeno. Era riuscito a lucrare anche su un omicidio che avrebbe commesso volentieri gratis. Richard continua a non capire perché ho ucciso Aikensen. Ho cercato di spiegarglielo, ma lui sostiene che l'ho ammazzato per orgoglio, soltanto perché avevo promesso di farlo. Ma non è stato per orgoglio. È stato per Williams, che non potrà mai più prendere il dottorato né studiare gli Strigidi, per Holmes, che non potrà mai essere la prima donna a diventare capo della polizia e per tutti quelli che Aikensen aveva fatto fuori senza dar loro una seconda possibilità. Era giusto che non l'avesse neanche lui. Comunque, non ho mai perso il sonno per avere sbudellato Aikensen. Forse, più dell'omicidio in sé, dovrebbe preoccuparmi il fatto che non provo il minimo senso di colpa? No... Ho appeso in soggiorno la pelle di cigno, in una cornice raffinata, protetta da un bel vetro. Si abbina perfettamente al divano. A Richard non piace,
ma secondo me sta benissimo. RINGRAZIAMENTI A Gary, il mio amato marito, senza il quale non ce l'avrei mai fatta durante l'anno appena trascorso. Al dottor Keith Nunnelee, che ha compiuto l'impresa tutt'altro che semplice di aiutare Trinity a nascere. A Sarah Sumner, per le cene, il conforto e le corse dal medico nei momenti di emergenza. A Mark Sumner per lo stesso motivo. Sono ansiosa di vedere Range sugli scaffali. A John Sumner, per la sua sollecitudine. Nessuno ha vicini e amici migliori. A Deborah Militello, che ha sottratto tempo al suo lavoro di scrittrice per aiutarmi con la bambina, permettendomi di portare a termine questo libro. A Marella Sands, congratulazioni per avere venduto la tua serie. Approfitterò della tua offerta di fare la baby-sitter. A tutti gli altri Alternate Historians, Tom Drennan, N.L. Drew e Rett McPherson, i quali hanno fatto in modo che questo libro restasse indipendente. Nuovi amici, nuovi scrittori... Chi può chiedere di più? FINE